Il tuo nome è Benedizione, alleluia!

Ascensione del Signore

Il Signore Gesù si separa dai suoi discepoli nell’atto di benedirli e proprio <Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo> (Lc 24, 51). Quella del Signore Gesù è una benedizione che mantiene e, nello stesso tempo, trasforma la relazione tra i discepoli e il loro Maestro. Il segno distintivo di questo nuovo modo di comunione sono la gioia e l’adorazione: segni esterni di una vita ormai tutta segnata dalla capacità di benedire e di ringraziare. Il Signore ritorna nel seno del Padre dopo aver rivelato, nel mistero della sua incarnazione, pienamente manifestatosi nel mistero pasquale, quale amore il Padre ha per il mondo di cui noi siamo parte. Il Verbo torna <in cielo> con il nostro corpo preparando così un posto, uno spazio, una possibilità di “essere” – per la nostra umanità – al cuore stesso della vita divina. In tal modo la benedizione delle origini sulla creazione intera oggi raggiunge la sua pienezza e il suo culmine, toccando il cuore delle creature e dando a ciascuno di noi la gioia di poter sperare in un compimento che tocchi l’interezza del nostro essere e la totalità della nostra storia.

Il mistero dell’ascensione suona allora come una vera e urgente chiamata a partecipare del medesimo amore che unisce il Padre e il Figlio ed è continuamente riversato nei nostri cuori con, e nella potenza dello Spirito. Si tratta di un amore sufficientemente decentrato da se stesso che consente l’assenza sensibile di Cristo senza renderlo per nulla assente dalla nostra vita, anzi, così tanto presente ed efficace da poter assicurare che ormai <abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente> (Eb 10, 19-20). Questa certezza interiore di comunione, che si fa partecipazione serena e libera alla stessa vita di Dio, ci permette di rispondere alla benedizione con l’adorazione che si fa fervida attesa del dono che viene dall’alto e che ci permette di orientare la nostra vita sempre oltre, il dono dello Spirito.

A noi, quindi, è ora richiesto di rivivere, nella nostra vita, l’esperienza degli apostoli amando di dimorare nel tempio interiore del nostro cuore per potervi ricevere il dono della vita nuova: di una vita risorta. Al cuore della nostra fede condivisa vi è una certezza che nasce da una promessa: <Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo> (At 1, 11). La gioia dell’Ascensione è una gioia che libera il cuore perché non lo incatena nemmeno ad un’esperienza compiuta di Dio, ma lo spinge verso quell’oltre di cui è rimando il simbolo del <cielo>. Non ci è chiesto di distaccarci o disinteressarci della vita quotidiana, ci è semplicemente dato di essere profondamente coinvolti e, allo stesso tempo, profondamente liberi, perché chiaramente orientati così da essere tanto coinvolti, quanto assolutamente distaccati da ogni paura di fallire o di soffrire. L’amore non passa, si invera! A noi è chiesto di essere testimoni della potenza della misericordia e del perdono che abbiamo appreso dalle parole e dai gesti del Maestro e di cui ora, in attesa del suo mite e festoso ritorno, siamo chiamati ad essere testimoni possibilmente credibili, ma soprattutto testimoni interessanti per quella gioia sottile e contagiosa che dovrebbe segnare e contraddistinguere il nostro tratto, tanto da riconoscervi uno sprazzo di cielo… sempre così vicino e così lontano.

Ton nom est Bénédiction, alléluia !

Ascension du Seigneur –

Le Seigneur Jésus se sépare de ses disciples en les bénissant : «  Pendant qu’il les bénissait, il se détacha d’eux et fut soulevé au ciel » ( Lc 24, 51 ). La bénédiction du Seigneur Jésus maintient et, en même temps, transforme la relation entre les disciples et leur Maître. Le signe distinctif de cette nouvelle manière de communion est la joie et l’adoration : signes extérieurs d’une vie désormais marquée par la capacité de bénir et de remercier. Le Seigneur retourne dans le sein du Père après avoir révélé, par le mystère de son incarnation, manifesté pleinement dans le mystère pascal, l’amour que le Père a pour le monde dont nous faisons partie. Le Verbe retourne «  au ciel » avec notre corps, préparant ainsi une place, un espace, une possibilité d’« être » – pour notre humanité – au coeur même de la vie divine. De cette façon, la bénédiction des origines sur la création entière, rejoint aujourd’hui sa plénitude et son point culminant en touchant le coeur des créatures donnant à chacun de nous la joie de pouvoir espérer un accomplissement qui touche l’intégralité de notre être et la totalité de notre histoire.

Le mystère de l’Ascension résonne alors comme un véritable et urgent appel à participer au même amour qui unit le Père et le Fils, continuellement reversé en nos coeurs avec et dans la puissance de l’Esprit. Il s’agit d’un amour suffisamment décentré de soi-même qui consent à l’absence sensible du Christ sans aucunement le rendre absent de notre vie, au contraire, si présent et efficace pour pouvoir assurer que maintenant «  nous avons la pleine liberté d’entrer dans le sanctuaire grâce au sang de Jésus, chemin nouveau et vivant ( He 10, 19-20). Cette certitude de communion intérieure qui devient participation sereine et libre à la vie même de Dieu, nous permet de répondre à la bénédiction par l’adoration qui nous fait devenir attente fervente du don qui vient de l’autre et nous permet d’orienter notre vie toujours plus loin, le don de l’Esprit.Il nous est donc demandé de revivre dans notre vie, l’expérience des apôtres, aimant demeurer dans le temple intérieur de notre coeur pour pouvoir y recevoir le don de la vie nouvelle : une vie ressuscitée. Au coeur de notre foi partagée il y a une certitude née d’une promesse : «  Ce Jésus qui, au milieu de vous, est monté au ciel, viendra de la même manière que vous vous l’avez vu monter au ciel » ( Ac 1, 11 ). La joie de l’Ascension est une joie qui libère le coeur car il ne l’enchaîne pas à une expérience accomplie par Dieu, mais il le pousse vers cet autre qui est resté le symbole du «  ciel ». Il ne nous est pas demandé de nous détacher ou de nous désintéresser de la vie quotidienne, il nous est simplement donné d’être profondément impliqués et, en même temps, profondément libres, car clairement orientés pour être si impliqués afin de nous détacher absolument de toute peur d’échec ou de souffrance. L’amour ne passe pas, il devient réalité ! En attendant le doux retour festif du Maître, il  nous est demandé d’être les témoins de la puissance, de la miséricorde et du pardon que nous avons appris par les paroles et les gestes du Maître et dont, aujourd’hui, nous sommes appelés à être les témoins, si possible crédibles, et, surtout témoins intéressés par cette joie légère et contagieuse qui devrait attester et distinguer notre particularité, comme l’on reconnaîtrait un éclair dans le ciel…toujours si proche et si lointain.

Incontri

Visitazione della B.V. Maria –

Una delle caratteristiche particolari e toccanti di tutto il vangelo secondo Luca sono i molti e intensi incontri che segnano la vita del Signore Gesù. Questa disponibilità – si potrebbe parlare persino di passione- ad “incontrare” non solo segna, ma sembra persino precedere la vita del Salvatore. I primi due capitoli del Vangelo di Luca ci mostrano un Dio che si vuole fare incontro all’umanità visitandola in quelle che sono le situazioni più significative e normalmente più dolorose. Per questo Zaccaria viene visitato da Gabriele come avverrà per Maria e per i pastori che vegliano nella notte. Nella Visitazione si vede come chi è veramente visitato e trasformato dalla visita del Signore non può che mettersi in cammino in tutta <fretta> verso la <montagna> (Lc 1, 39). Questa montagna può ben significare la vita dell’altro per raggiungere il quale si esige la fatica di un viaggio interiore che è sempre un esodo. Il mistero della Visitazione è un modo per suggerire ad ogni credente quanto, la storia della salvezza, passi attraverso l’incontro che si concretizza negli incontri che segnano la nostra vita.

L’incontro e l’abbraccio di Maria ed Elisabetta è profezia non solo del segreto abbraccio e riconoscimento prenatale tra il Verbo di Dio e il Precursore Giovanni, ma tra tutte le dimensioni e le realtà della nostra esistenza. È, infatti, questa capacità di relazione che ci costituisce come persone umane interiormente lavorate dallo Spirito che in Maria genera – nella carne e secondo la carne – lo stesso Verbo eterno del Padre. Come afferma giustamente Francesco di Sales: <È caratteristico dello Spirito Santo, quando colpisce un cuore, cacciarne ogni tiepidezza. Egli ama la prontezza, ed è nemico degli indugi, dei ritardi nell’adempiere la volontà di Dio> Per questo <Maria si alzò e andò in fretta>. Troviamo nel tempo che precede la stessa nascita del Signore Gesù gli stessi verbi che dominano i racconti della risurrezione e ritmano ogni avventura di discepolanza. Lasciamoci non solo incantare, ma profondamente contagiare dall’atteggiamento di Maria, lasciando che lo stile di Dio diventi il nostro stesso stile: andare incontro senza mai aspettare, né tantomeno aspettarci che sia l’altro a fare il primo passo per venirci incontro.

Il primo a fare un passo nei nostri confronti è il Signore stesso che, secondo l’esultante profezia di Sofonia, <in mezzo a te è un salvatore potente> tanto che <Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia> (Sof 3, 17). La conseguenza di questo atteggiamento del Signore nei confronti della nostra umanità è tratteggiata dall’apostolo Paolo quando esorta e ci esorta: <amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiare nello stimarvi a vicenda> (Rm 12, 10). Una domanda sorge spontanea dal nostro cuore: <Come sarebbe possibile tutto ciò?>. La risposta sembra essere adombrata nella nota discreta ma importantissima che, accanto a Maria, Elisabetta, Giovanni e lo stesso Gesù, ci ricorda la presenza di un quinto – forse il primo – protagonista di ogni visitazione: <fu colmata di Spirito Santo>. Lo Spirito Santo ha già ricolmato Maria nel momento dell’annunciazione e si dona a ciascuno di noi come principio dei tempi nuovi il cui segno distintivo e il sigillo di autenticità non è altro che un modo nuovo di incontrarsi… di visitarsi… di abbracciarsi… di amarsi.

Il tuo nome è Donna, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

La Liturgia ci fa riascoltare le parole pronunciate dal Signore Gesù nel Cenacolo per aiutarci ad entrare nel mistero della risurrezione non come prova e rivincita contro coloro che hanno crocifisso il Signore, ma come conferma di quell’amore che si è formato tra Gesù e i suoi discepoli, tra Gesù e i suoi amici, tra Gesù e noi. Quando il Signore si racconta, parla di sé con immagini – basti ricordare quella della vite e dei tralci – che ci commuovono e allo stesso tempo ci interpellano per la loro valenza intima e perché ci richiamano continuamente alla necessità di sentire e di vivere nella linea della profondità. Al cuore dei discorsi con cui il Signore prepara il cuore dei discepoli a sostenere lo scandalo della passione vi è questo momento in cui Gesù per parlare di se stesso non trova un’immagine più bella e più espressiva di questa: <La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo> (Gv 16, 21). Questa immagine non è assolutamente nuova, ma è il contesto stesso in cui il Signore Gesù parla con i suoi discepoli alla vigilia della sua passione.

Infatti, se a questo punto il Signore Gesù paragona se stesso ad una <donna> nelle doglie del parto ormai prossimo, è perché ha preposto a tutte le sue parole un gesto fondamentale senza il quale non ci sarebbe possibile comprendere che cosa stia veramente dicendo ai suoi discepoli. Il gesto è la lavanda dei piedi che il Signore compie non come gesto eminentemente servile, ma intimamente sponsale. Non bisogna dimenticare che soprattutto nell’imminenza della sua passione, il Signore apprende il modo proprio per dire il suo amore dalle donne… dai gesti di esagerazione e di eccesso dell’amore come quello dell’unzione del suo corpo in vista della sepoltura. Se così è per il Maestro, non può che essere così anche per i suoi discepoli, tanto che l’apostolo Paolo, già chiamato in visione sulla strada di Damasco, è anch’egli come una donna che deve partorire, tanto da conoscere, ancora una volta, i dolori del parto e l’angoscia di dover continuare a rischiare sulla parola del suo Signore.

Per questo il Signore Gesù si fa di nuovo presente con una visione rinnovata che è un modo per dilatare e approfondire il suo modo di sentire e di interpretare quanto sta avvenendo e lo rende così padre: <Non avere paura continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso> (At 18, 9). Sembra proprio che il Signore stia accanto all’apostolo quasi per assisterlo in un momento difficile quanto un parto segnato dal dolore e dal rischio della vita. Gli Atti degli apostoli, ancora una volta, ci ricordano che <i Giudei insorsero unanimi contro Paolo e lo condussero davanti al tribunale> (18, 12) quasi come fosse una sala parto, in cui però l’apostolo – come ogni discepolo nel tempo della tribolazione – non è solo, ma è sostenuto e incoraggiato dalla presenza del Signore come uno sposo accanto alla sua donna che partorisce.

Il tuo nome è Meglio, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Mentre si presentano le offerte per l’Eucaristia, la Chiesa, attraverso le parole di chi presiede la divina liturgia, esprime il suo desiderio più profondo e prega così: <perché rinnovati nello spirito, possiamo rispondere sempre meglio all’opera della tua redenzione>. Il cammino della vita fa tutt’uno con quello della vita ed è un processo di continua crescita e trasformazione. Il Signore Gesù ce lo ricorda con parole tenere e forti al contempo: <Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia> (Gv 16, 20). In realtà noi facciamo esperienza non solo di una tristezza che può cambiarsi in gioia, ma pure di alcune gioie che si possono tingersi dei colori della tristezza… e questo fa parte del mistero e della sfida della vita. In ogni modo la cosa più importante, e che fa da fondamento al combattimento della speranza, è che possiamo coltivare la certezza di un sempre possibile cammino. Quest’apertura da rinnovare ogni mattina ci permette di non diventare prigionieri né della tristezza né della gioia, ma di essere continuamente protagonista attivi e appassionati della nostra vita a servizio del <meglio> della vita anche degli altri.

Il mistero della risurrezione, che in questi giorni pasquali celebriamo con rinnovata gioia, non è altro che un fare memoria di come, persino nella morte, si è nascosto – fino a trionfare – un principio attivo di vita. Il mistero pasquale, che ci mette di fronte al peggio in termini di rifiuto e di disumanità, ci rassicura del fatto che se il peggio non è mai morto, il meglio è sempre possibile. Questo dinamismo è nascosto come un pugno di lievito nella pasta della vita consueta e ordinaria e viene evocato dal Signore Gesù con quel misterioso rimando che mette in agitazione il cuore dei discepoli: <Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete> (16, 16). I discepoli sono destabilizzati da questo rimando ad un processo che ingloba una buona dose di incertezza: <Non comprendiamo quello che vuol dire> (16, 18). Il Maestro invece spiega, prima di tutto con la sua disponibilità alla Pasqua, quello che vuol dire con ciò che accetta di vivere, fino ad essere disponibile a morire.

Come Paolo anche noi siamo chiamati ad essere <fabbricanti di tende> (At 18, 3) senza presumere troppo di noi stessi e accogliendo di doverci interiormente spostare non solo da un posto all’altro, ma anche da una situazione all’altra. Persino il fatto di <dedicarsi tutto alla Parola> (At 18, 5) non ci garantisce di essere accolti da tutti, ma esige la disponibilità a rischiare sulla Parola, aprendoci a nuove strade e a soluzioni finora impensate con docilità e amore. Agostino lo ricorda a se stesso e ai discepoli di tutti i tempi: <Questo che è il frutto del suo travaglio, la Chiesa lo partorisce al presente nel desiderio, allora lo partorirà nella visione; ora gemendo, allora esultando; ora pregando, allora lodando Dio. Sarà perciò un fine eterno, perché non ci potrà bastare che un fine senza fine>1.


1. AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni, n° 101.

Il tuo nome è Respiro, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Ciò che il Signore ha promesso ai suoi discepoli è una sorta di viatico per il loro ministero a servizio della gioia di tutti e di ciascuno: <Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future> (Gv 16, 13). Non si tratta certo di una sorta di negromanzia addomesticata, bensì di una capacità di leggere continuamente il reale senza mai appiattirsi su se stessi e, soprattutto, sulle proprie paure e i propri timori. La testimonianza di Paolo <in piedi in mezzo all’Aeròpago> è non solo di grande intensità, ma soprattutto di rara capacità provocatoria non solo per gli <Ateniesi> di tutti i tempi, ma pure per discepoli che cerchiamo di diventare in verità. La prima cosa è una constatazione: <vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un Dio ignoto”> (At 17, 22). Non bisogna sottovalutare questa constatazione dell’apostolo Paolo né tantomeno ridurla ad una sorta di modalità adulatoria nei confronti degli Ateniesi.

È una verità e un’evidenza inconfutabile il fatto che gli antichi nel loro paganesimo erano molto religiosi, così religiosi da mettersi al riparo da ogni dimenticanza di eventuali divinità ignote che si sarebbero potuto rattristare anche inconsapevolmente. Siamo di fronte a ciò che avviene ancora ai nostri giorni quando la conversione alla fede cristiana non è un motivo sufficiente per trascurare le abitudini e le pratiche religiose già conosciute, quasi per un bisogno di evitare di scontentare alcuno e di poter contare sull’aiuto di tutti gli dèi possibili e immaginabili. Paolo non si mostra scandalizzato, ma cerca di partire dallo spirito religioso per cominciare un cammino di fede il cui primo passo è una negazione necessaria che apre ad un’affermazione capace di schiudere un nuovo cammino. Questo processo che parte dall’essere religiosi e porta ad una opzione di fede passa attraverso una ricomprensione di quell’immagine di Dio che non è semplicemente la proiezione idolatrica di noi stessi.

La negazione suona così: <non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa>. L’affermazione rigenerante e rivoluzionaria è la seguente: <è lui che dà a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa> (At 17, 24-25). Nelle parole del Signore Gesù troviamo quella che potremmo definire una descrizione fisiologica della vita di Dio. Il Signore ci ricorda: <Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso> (Gv 16, 12). Non sappiamo già tutto, ma il Signore si sta ancora rivelando e potremmo pregarlo di farlo a poco a poco per darci il tempo di abituarci alle esigenze della sua Parola. Lungi da noi il pensare che sappiamo già tutto di ciò che il Signore vuole dirci e vuole chiederci per essere veramente suoi testimoni animati dal suo respiro!

Il tuo nome è Tavola, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Gli Atti degli Apostoli continuano a raccontare ciò che avviene agli inizi della vita della Chiesa e lo fa attirando la nostra attenzione su tutta una serie di incontri e di incroci che permettono al Vangelo di penetrare i cuori e di cambiare così le situazioni fin dalle radici, fin dal profondo. L’immagine con cui si conclude la prima lettura di oggi è magnifica non solo per la sua commovente umanità, ma perché ci fa intuire di che cosa è capace il Vangelo di Cristo quando penetra, con la sua luce, la <notte> di ogni paura che mette in pericolo la vita: <Egli li prese con sé, a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato con tutti i suoi, poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio> (At 16, 33-34). Il contrasto tra la prima scena di questo testo e l’ultimo è stridente: <fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e, dopo averli caricati di colpi, li gettarono in carcere e ordinarono al carceriere di fare buona guardia> (16, 22-23). Eppure, il modo con cui Paolo e Sila affrontano questa situazione vivendola <in preghiera> mentre <cantavano inni a Dio> e <i prigionieri stavano ad ascoltarli> (16, 25) è un vero e proprio <terremoto così forte> (16, 26) da cambiare il modo di sentire e di vivere.

I due estremi emotivi, di cui ci testimonia il testo degli Atti, ci fanno intuire in cosa consista la novità del Vangelo e il motivo per cui molti ne temano il terremoto che il mistero pasquale del Signore Gesù rappresenta per la storia a partire dalle relazioni tra persone. Una <tavola> imbandita in piena notte diventa il simbolo di ciò che il Vangelo porta come dono a tutti coloro che accettano di fare un passo verso la novità di vita. Il grido di Paolo squarcia ogni notte e illumina ogni prigione: <Non farti del male, siamo tutti qui> (16, 28). In questa parola dell’apostolo è racchiuso un messaggio che ci riguarda personalmente e tocca la storia nel suo complesso: ogni volta che facciamo del male a qualcuno, in realtà facciamo sempre del male anche a noi stessi. Così pure tutte le volte che facciamo del bene a qualcuno regaliamo a noi stessi una possibilità in più di <gioia>. Le parole del Signore Gesù ci portano ancora più lontano… ancora più nel profondo. Da una parte ci mettono in guardia da ogni forma di <tristezza> (Gv 16, 6) e, dall’altra, ci fanno percepire la necessità di attraversare continuamente quelle pasque relazionali senza le quali ogni contatto di umanità rischia di appassire e di intristire in una stanca ripetizione: <Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado lo manderò a voi> (16, 7).

La prigione di Paolo e Sila assomiglia alle nostre vite imprigionate in situazioni e relazioni troppo difficili tanto che la notte non sembra finire mai. Nondimeno, attraverso la preghiera, possiamo ospitare ogni relazione nelle nostre prigioni e nelle nostre notti tanto da trasformale in una <tavola> attorno alla quale ritrovare la gioia non solo di stare insieme, ma di sperare e gioire gli uni per gli altri.

Il tuo nome è Verso, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

La lettura del libro degli Atti degli Apostoli funge, in questo tempo pasquale, da preparazione all’ascolto delle parole che il Signore Gesù sussurra al cuore dei suoi discepoli per prepararli a sostenere lo scandalo della sua Passione. Questo dialogo tra il Maestro e i suoi discepoli diventa occasione per fare spazio a un principio nuovo di presenza che è lo Spirito Santo. Il cammino degli apostoli è assolutamente dinamico e quasi temerario: <Salpati da Troade, facemmo vela direttamente verso Samotracia e, il giorno dopo, verso Neàpoli e di qui a Filippi…> (At 16, 11-12). Una cosa sembra acquisita e chiarissima per gli apostoli: l’incontro con il Risorto non può che dare alla propria vita personale un verso assolutamente nuovo, la cui caratteristica principale è quella di andare verso gli altri con fiducia e nella certezza di avere qualcosa da condividere prima ancora di avere qualcosa da annunciare e da donare. Il dinamismo della vita come discepoli di Cristo Signore è assolutamente versatile ed espansivo, nel senso di empatica apertura ai propri fratelli in una semplicità e generosità che cambiano la storia toccando la vita e lasciandosi toccare dalla vita degli altri.

Ogni sosta per gli apostoli diventa un punto di ripartenza ancora più generoso: <Il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume…> (16, 12). Sembra che non ci sia nulla che possa o che debba tenere imprigionato il messaggio di vita e di speranza che gli apostoli custodiscono con una passione contagiosa. In termini di stile, gli apostoli non attendono che la gente vada da loro e, da questo punto di vista fedeli all’esempio del Signore Gesù, non si atteggiano a maestri e a guru, ma si espongono continuamente alla gioia e ai rischi dell’incontro con l’altro. Le parole del Signore risuonano nel cuore come invito: <e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio> (Gv 15, 27). Le parole del Signore non lasciano spazio a nessuna illusione e a nessuna faciloneria: <Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio> (16, 2).

Non ci deve sfuggire il fatto che il Signore Gesù non parla in questi discorsi di Dio, ma del Padre. Volutamente si parla di <Dio> e non del Padre quando il riferimento alla divinità diventa pretesto per esercitare una inaccettabile violenza. Il Signore stesso continua, ricordando e ammonendo che quando questo avvenisse la ragione è chiara: <E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me> (16, 3). Il Dio rivelato nel mistero pasquale di Cristo Signore è un Dio versatile che esige discepoli capaci di andare sempre verso gli altri nella consapevolezza che <lo Spirito della verità> (15, 26) non contrappone, ma apre sempre sentieri che portano ad una condivisione sempre più grande di cui Lidia è una magnifica icona: <Ad ascoltare c’era anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo> (At 16, 14). L’opera di Dio nel cuore dei suoi figli coincide sempre con un ampliamento di apertura dei cuori gli uni verso gli altri, gli uni attraverso gli altri.

Il tuo nome è Bene, alleluia!

VI Domenica di Pasqua –

Nella prima lettura, più volte, ritorna un’attenzione della Chiesa, che diventa la preoccupazione dominante nella Chiesa stessa, che si avverte a servizio di tutti. La sollecita trepidazione si trasforma, allora, in desiderio e cura: perché ogni scelta sia per il <bene> (At 15, 25). Dal modo di comportarsi degli apostoli, nella solenne cornice di quello che consideriamo il primo concilio della storia della Chiesa, possiamo imparare che il <bene> esige un contatto personale! Nella prima lettura troviamo che lo <scritto> (15, 23) non viene fatto pervenire attraverso i consueti messaggeri dell’epoca, ma viene accompagnato da alcune persone di fiducia. Costoro sono chiamati non solo a trasmettere le decisioni prese, ma a far percepire, con la loro presenza, l’intenzione profonda della Chiesa di promuovere il bene di tutti. La Chiesa primitiva diventa così modello dello stile ecclesiale la cui caratteristica principale dovrebbe essere quella di mantenere e coltivare uno stile personale! Da parte sua il Signore Gesù, nel Vangelo, ci fa risalire fino al Padre quale fonte e modello di relazione e di amore infinito: <Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui> (Gv 14, 23). 

Il momento è assai grave! Il Signore annuncia ai suoi discepoli che sta per allontanarsi visibilmente da loro, eppure li vuole lasciare nella <pace> (14, 27) e non nel turbamento. Questa <pace> la si acquisisce e la si conserva osservando la sua parola che, interiormente, non solo assicura, ma persino approfondisce la sua presenza. Le parole del Signore Gesù sono particolarmente dense: ora Gesù non sarà più a portata di mano, passando al Padre inaugura un nuovo modo di vivere la relazione. Potremmo dire che la sua presenza alla quale i discepoli, non solo sono ormai abituati, ma giustamente anche profondamente legati, sarà ormai a “portata di cuore”. In questo modo il Cristo, attraverso il mistero della sua Pasqua, diverrà alla portata di ogni uomo e donna che si aprono alla fede accogliendo l’amore del Padre e del Figlio che ha ormai un volto e un nome: Spirito Santo. Si tratta non di una diminuzione di presenza, ma di un salto di qualità vertiginoso, il quale permette, a ciascuno dei discepoli, di vivere della stessa vita del Maestro.

Il Cristo Signore se ne va verso il Padre e la sua carità ci spinge e non essere negligenti, nei confronti del dono dello Spirito poiché da questa attenzione, che si fa accoglienza, dipende la sua vita in noi e, attraverso di noi, la sua presenza nel mondo. La cosa che sembra stare massimamente a cuore al Signore, mentre guarda diritto in faccia il mistero della sua passione imminente, è la serenità dei suoi discepoli: <Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore> (14, 27). Se il nostro cuore è in pace, allora non potremo che trovare, sempre, il modo per regalare questa medesima pace e serenità a tutti. Questo desiderio ci obbliga a cercare il <bene> di ciascuno senza mai imporre obblighi che appesantiscano inutilmente ed eccessivamente il cammino che è già normalmente così faticoso ed esigente. Il bene di tutti sembra passare attraverso il discernimento di ciascuna di quelle che sono le <cose necessarie> (At 15, 28). A partire da questo alleggerimento radicale che sta a fondamento della vita della Chiesa di sempre e che ne dovrebbe sempre guidare le scelte, possiamo comprendere meglio la parola dell’Apocalisse che mette al centro, sempre e solo, il mistero di Cristo Risorto fino a dire: <La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello> (Ap 21, 23).

Ton nom est Bien, alléluia !

VI Dimanche de Pâques –

Plusieurs fois, dans la première lecture, l’attention de l’Église revient, devenant même sa préoccupation dominante, celle de nous sentir au service de tous. La demande impatiente se transforme alors, en souhait désiré :  que chaque choix soit pour le «  bien » ( Ac 15, 25 ). De la façon de se comporter des apôtres, au cadre solennel du premier concile de l’histoire de l’Église, nous pouvons apprendre que le «  bien » exige un contact personnel ! Dans la première lecture, nous découvrons que «  l’écrit » (15, 23 ) n’est pas fait pour passer à travers les messages habituels de l’époque, mais il est accompagné par certaines personnes de confiance. Celles-ci sont appelées, non seulement à transmettre les décisions prises, mais à faire percevoir, par leur présence, l’intention profonde de l’Église de promouvoir le bien de tous. L’Église primitive devient ainsi le modèle du style ecclésial dont la caractéristique principale devrait être de maintenir et de cultiver un style personnel ! De son côté, le Seigneur Jésus, dans l’Evangile, nous fait remonter jusqu’au Père, face à un modèle de relation et d’amour infini : «  Si quelqu’un m’aime, il observera ma parole et mon Père l’aimera et nous viendrons en lui pour y faire notre demeure » ( Jn 14, 23 ).

Le moment est assez grave ! Le Seigneur annonce à ses disciples qu’il va s’éloigner d’eux visiblement, mais il veut les laisser dans la «  paix » ( 14, 27 ) et non perturbés. Cette « paix » on l’acquiert et la conserve en observant sa parole qui, intérieurement, non seulement rassure, mais approfondit aussi sa présence. Les paroles du Seigneur Jésus sont particulièrement denses : désormais, Jésus ne sera plus à portée de main, en allant vers le Père, il inaugure une nouvelle façon de vivre la relation. Nous pourrions dire que sa présence, à laquelle les disciples sont, non seulement habitués, mais justement aussi profondément liés, sera désormais « à portée de coeur ». De cette manière, le Christ, par le mystère de sa Pâque, deviendra à la portée de chaque homme et femme qui s’ouvre à la foi en accueillant l’amour du Père et du Fils qui a maintenant un visage et un nom : Esprit Saint. Il ne s’agit pas d’une diminution de présence, mais d’un saut qualitatif vertigineux qui permet à chacun des disciples de vivre de la même vie que le Maître.

Le Christ Seigneur s’en va vers le Père et sa charité nous pousse à ne pas être négligents face au don de l’Esprit, car de cette attention qui se fait accueil, dépend sa vie en nous et, à travers nous, sa présence au monde. La chose qui semble le plus tenir à coeur au Seigneur, alors qu’il regarde bien en face le mystère de sa passion imminente, est la sérénité de ses disciples : «  Que votre coeur ne soit pas perturbé et n’ayez pas peur » ( 14, 27 ). Si notre coeur est en paix, alors nous ne pourrons que trouver toujours la façon d’offrir cette même paix et sérénité à tous. Ce désir nous oblige à chercher le «  bien » de chacun sans jamais imposer d’obligations qui appesantissent inutilement et excessivement le chemin qui est déjà normalement si difficile et exigeant. Le bien de tous semble passer par le discernement de tout ce qui peut compter comme «  chose nécessaire » ( Ac 15, 28 ). A partir de cet allègement radical qui est au fondement de la vie de l’Église et qui devrait toujours en guider les choix, nous pouvons mieux comprendre la parole de l’Apocalypse qui met toujours et seulement au centre le mystère du Christ Ressuscité jusqu’à dire : «  La ville n’a pas besoin de la lumière du soleil, ni de la lumière de la lune : la gloire de Dieu l’illumine et sa lampe est l’Agneau » ( Ap 21, 23 ).