Courage

XIX Dimanche T.O. –

Nous sommes comme des enfants à qui l’on fait une promesse et qui attendent le retour de la maman ou du papa pour découvrir concrètement de quel cadeau il s’agit. La seule chose dont les enfants, à qui l’on à promis un cadeau, n’arrivent pas à penser – même si pendant l’attente ils tombent de sommeil – est que le papa ne revienne pas et que la promesse se révèle être, en réalité, une plaisanterie : « soyez semblables à ceux qui attendent leur maître lorsqu’il revient des noces, afin que, lorsqu’il arrive et frappe à la porte, vous lui ouvriez tout de suite » ( Lc 12, 36 ). A l’image des enfants qui attendent avec confiance la concrétisation des promesses, l’Evangile fait référence à celle des serviteurs qui – dans une joie contagieuse – attendent anxieusement le retour des noces de leur maître. D’ailleurs que n’est-on capables de donner lorsque l’on est amoureux et que l’on vit l’enivrement d’un amour partagé, dans cette attente faite de certitude inébranlable ? A la fin, il est très difficile de distinguer si la chose la plus importante est le don attendu ou la confirmation que l’on peut se fier à la parole de celui qui s’est lié à nous par l’alliance d’une promesse échangée, jusqu’à ne pas pouvoir douter, même un peu, de sa parole. Nous tous, depuis notre plus jeune âge et forcément jusqu’à notre dernier souffle, nous nous débattons dans ce combat de la confiance dans l’autre, cette confiance est l’âme du même combat de la foi comme promesse d’accomplissement : «  Ne crains rien, petit troupeau, car il a plu à votre Père de vous donner le Royaume » ( Lc 12, 32 ° ;

La foi dont nous parle la seconde lecture est le voyage dont l’on parle dans la première. Mais, comment oublier que la foi n’est pas quelque chose qui nous regarde personnellement, mais qui concerne d’abord et surtout Dieu lui-même ? C’est comme lorsque l’on part en montagne : nos chemins sont toujours incertains, difficiles et l’on a souvent la tentation de s’arrêter. Pourtant, la certitude que la montagne ne se déplace pas et reste là à nous attendre, renforce la sécurité de l’incertain et difficile chemin qui mène au but. Si les montagnes se déplaçaient…alors les choses seraient désespérantes car chaque pas pourrait se révéler inutile jusqu’à exaspérer toute espérance de pouvoir rejoindre le but. La Sagesse exhorte ardemment en nous rappelant : «  la nuit de la libération fut prédite à nos pères, pour qu’ils aient le courage, sachant bien par quelles promesses ils avaient prêté fidélité » car «  les fils saints des justes offraient des sacrifices en secret et s’imposaient ensemble cette loi divine : partager de la même manière les succès et les dangers » ( Sag 18, 2, 9 ).

De ces «  succès et dangers » nous trouvons une évocation dans la litanie du  onzième chapitre de la Lettre aux Hébreux dont nous lisons une partie dans la liturgie de ce dimanche. Le résumé de la nombreuse descendance d’Abraham en tant qu’archétype de l’homme de foi, est que «  Ils attendaient en fait la ville d’une fondation solide, dont l’architecte et le constructeur est Dieu lui-même » ( He 11, 10 ). C’est dans cette confiance inébranlable de la promesse d’un autre que se base la capacité d’attendre et de veiller. L’invitation  du Seigneur à la confiance, est une invitation à l’assiduité et à la veille festive et sereine  car «  A celui qui a reçu beaucoup, il sera demandé beaucoup ; à celui à qui l’on aura confié beaucoup, l’on demandera beaucoup plus » ( Lc 12, 48 ). Que le Seigneur nous trouve à la place de notre désir, et, en même temps, veillons et travaillons afin que le «  courage » de l’exode quotidien y trouve aussi, chaque jour, sa place.          

Benedetta

Santa Teresa Benedetta della Croce –

La scelta della Liturgia ci aiuta non solo a contestualizzare, ma pure ad aprire nuovi orizzonti di comprensione all’esperienza umana e spirituale di Teresa Benedetta della Croce che non ha mai smesso, nonostante l’assunzione del nome monastico, di essere fino in fondo Edith Stein. Il testo del profeta Osea è una chiave di lettura per intuire il mistero di una vita travagliata e di una ricerca intellettuale tanto rigorosa quanto capace di rinunciare a se stessa per amore non servile ma sponsale della verità: <Ecco, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto> (Os 2, 16-17). Sicuramente questa parola è stata vissuta in pienezza dalla martire Edith Stein nel momento della sua immolazione condivisa con milioni di ebrei saliti verso il Signore attraverso le ciminiere dei forni crematori. Chissà se il fumo di questi forni di disumanità saliva diritto verso il cielo senza subire tentennamenti dovuti ai venti come avveniva per l’olocausto perenne offerto nel Tempio? È più probabile che il fumo dei forni crematori salisse al cielo in modo assai più vorticoso di quello del Tempio.

Ma ogni martirio, ogni testimonianza di vita piena e consapevole, non può mai essere improvvisato come non s’improvvisa mai l’amore, ma lo si prepara remotamente. Allora possiamo ben immaginarci Teresa Benedetta della Croce come una delle cinque vergini sagge che <insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi> (Mt 25, 4). Non si può improvvisare l’amore, non si può improvvisare la vita, non si può improvvisare la “martyrìa” se non vogliamo rimanere fuori dalla <porta> (25, 10). Tutta la nostra vita è una lenta crescita nella capacità di fare della nostra esistenza una risposta esistenziale alla chiamata di Dio. Il primo passo perché questo possa avvenire è, certamente, la disponibilità piena a lasciarsi interrogare autenticamente senza sottacere nessuna domanda che viene posta dentro e fuori di noi. La filosofa autentica che fu Edith Stein fu la remota e degna preparazione della discepola Teresa Benedetta della Croce fedele a se stessa, a Dio, al suo popolo e all’umanità fino alla fine.

Come ricorda Giovanni Paolo II: <L’incontro di Edith Stein col cristianesimo non la portò a ripudiare le sue radici ebraiche, ma piuttosto gliele fece riscoprire in pienezza. In realtà, tutto il suo cammino di perfezione cristiana si svolse all’insegna non solo della solidarietà umana con il suo popolo d’origine, ma anche di una vera condivisione spirituale con la vocazione dei figli di Abramo, segnati dal mistero della chiamata e dei “doni irrevocabili” di Dio (cfr Rm 11, 29)>[1]. Ciò che è stato vissuto da questa donna, pienamente donna che seppe fare del pensiero un luogo di conversione, siamo chiamati a viverlo anche noi facendoci sensibili all’appello del Signore che ci scuote dal nostro sonno domgatico-esistenziale: <Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora> (25, 13).


1. GIOVANNI PAOLO II, Spes aedificandi, § 9

Litigare

XVIII settimana T.O. –

Dopo il pane la cui mancanza era stata drammaticamente lamentata dal popolo nella lettura di ieri, ecco che ci troviamo davanti alla mancanza di <acqua> (Nm 20, 2). Questa penuria sembra essere aggravata dalla morte e dalla sepoltura di <Maria> (20, 1) il cui nome evoca il mistero materno e generante delle acque come pure è un ricordo perenne delle acque compassionevoli del Nilo nella cui corrente aveva custodito il cestello che portata, come in una tomba-culla, il suo bellissimo fratello che, salvato dalle donne, avrebbe salvato tutti. La morte di Maria è come se esasperasse il popolo che si scaglia <contro Mosè e contro Aronne> (20, 3). Il popolo, esasperato dal difficile apprendistato di una vita nuova fuori dalle coordinate schiavizzanti ma rassicuranti dell’Egitto, pensa di prendersela con Mosè e Aronne e, invece, quasi inconsapevolmente a motivo della cecità proprie dell’angoscia e della paura <litigarono con il Signore> (20, 13) cui non resta che una dura decisione: <voi non introdurrete quest’assemblea nella terra che io le do> (20 12).

Se nella prima lettura assistiamo ad un litigio che ha gravi conseguenze, nel Vangelo le cose non sono certo meno gravi. La reazione alla reazione di Simon Pietro ci addolora e ci interpella poiché ci viene del tutto naturale comprendere le parole e i sentimenti protettivi dell’apostolo. La risposta del Signore alle “cure” di Simon Pietro suona come una lama affilatissima: <Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!> (Mt 16, 23). Il popolo esasperato dalla lunga marcia nel deserto in attesa di poter godere di una libertà che, in realtà, si rivela tutta ancora da costruire, e i discepoli attorno al Signore Gesù che sono chiamati a comprendere il suo mistero pasquale tutto ancora da scoprire sono per noi un monito a rimetterci ancora in cammino, con umiltà e con pazienza.

Come ricorda Joseph Stricher: <Col passare del tempo e nel cammino che porta dal primo al secondo Testamento, la nozione di Figlio di Dio si affina. Così finisce per indicare Gesù nella sua realtà più alta, nel suo stretto legame al Padre. Ma evoca ugualmente la dignità dei credenti, diventati in Cristo Gesù figli adottivi di Dio>. Per accogliere il dono dell’acqua, per riconoscere il Gesù il Cristo, è necessario scavare un vuoto perché il dono sia accolto e condiviso senza mai pensare di controllarlo e dirigerlo a nostro piacimento. La <pietra> (Mt 16, 18) che Simon Pietro diventa per il mistero e il ministero della Chiesa prima di essere pietra di fondazione è pietra fondata su un’intuizione di verità che esige il cammino di discepolanza fino alla fine per essere non più solo intuitiva, ma esistenziale. Questo processo ineludibile comporta anche momenti di fatica, di incomprensione e persino di litigio. I testi della Liturgia non ci tramandano né la reazione del popolo né, tantomeno, quella di Simon Pietro e questo forse perché sono molto più interessati alla nostra reazione.

Estasi?

Trasfigurazione del Signore –

Un testo di Raniero Cantalamessa ci fa cogliere tutta la portata del mistero della Trasfigurazione nella sua duplice dimensione di eccezionalità e di estrema quotidianità: <In quel giorno il Signore andò in estasi! Quella dell’estasi sembra essere la categoria meno adeguata per descrivere ciò che il Signore ha vissuto sul Tabor. Si tratta, infatti, di un’estasi particolare perché, di fatto, Gesù è l’unica persona che non ha bisogno di “uscire da sé” per entrare in Dio. Si potrebbe dire che si tratti di una sorta di cortocircuito interiore tra divinità e umanità. L’”isolante” che era la sua carne umana per così dire si è fuso tanto da diventare energia e luce. […] Tutto il torrente di gioia debordò allora dal vaso che è l’umanità di Cristo>1.

L’estasi di Adamo nella creazione di Eva raggiungerà il suo compimento nell’estasi del Crocifisso che ricrea la nostra umanità in un’estasi amorosa in cui piacere e dolore si mescolano senza negarsi e indicando così la strada per ciascuno di noi che siamo chiamati ad entrare nel medesimo dinamismo pasquale di trasfigurazione senza temere nessuna defigurazione necessaria. La festa della trasfigurazione è un tripudio dei sensi che ci rendono capaci attraverso il corpo di percepire la forza dell’elemento spirituale che ci abita e ci anima. Dalla vista all’udito fino al “tocco” finale di una strabiliante intimità: <E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro> (Mc 9, 8). Proprio in forza di questa esperienza di intimità siamo chiamati ad essere <testimoni oculari della sua grandezza> (1Pt 1, 16) attraverso una vita capace di farsi illuminare dalla grandezza di Dio che vuole manifestarsi attraverso la pienezza del nostro essere <a sua immagine> (Gn 1, 26).

Il Padre proclama il Figlio come <l’amato> (Mc 9, 7) e con questo incontenibile bisogno di esprimersi Dio manifesta la sua essenza che è l’amore che lo rende eternamente innamorato e per questo capace di trasfigurare in ammirazione tutto ciò che vede e tutto ciò che – col suo sguardo creatore – tocca. Avere occhi illuminati significa avere un cuore innamorato che trasfigura ogni cosa riportando ogni frammento di creazione e, soprattutto, di umanità al suo originale divino splendore. Anche noi siamo invitati come il profeta Daniele a continuare a <guardare> (Dn 7, 9) proprio perché <tenendo fisso lo sguardo su Gesù> (Eb 12, 2) il nostro modo di vedere si muti nel modo di vedere di Dio. Come scrive Lev Gillet, facendo eco a tutta la tradizione: <Se sei stato per molto tempo a fissare il sole, la tua retina si è bruciata, e ovunque guardi vedi una macchia nera. Se sul monte della trasfigurazione hai contemplato immerso nella grande Luce, quando scendi a valle sei diverso: dovunque lasci cadere i tuoi occhi, vedi lui, il Riflesso dell’uno, riverberato in ogni creatura, in ogni volto, in ogni altro uomo>. Ma questo cammino non è facile ed esige tutta una conversione del nostro essere per cui non ci resta che affinare i nostri sensi per poter aprire gli occhi del nostri cuore sul mistero di Cristo Signore per imparare a sentire – ad occhi chiusi e senza vedere – il profumo delle sue <vesti> e saper affrontare le notti della nostra vita senza sentirci mai troppo soli. 


1. R. CANTALAMESSA, Le Christ de la Transfiguration, St Augustin, Paris 2000, pp. 30-31.

Riconoscere

XVIII settimana T.O. –

Ancora una volta vediamo e contempliamo il Signore Gesù che si lascia toccare dal bisogno di tutti coloro che incrociano la sua strada e chiedono il suo aiuto. Il vangelo di quest’oggi ci offre due quadretti assai belli: uno più intimo in cui vediamo Simon Pietro vacillante sulle acque che si lascia afferrare dalla <mano> (Mt 14, 31) del Signore, l’altro più popolare e che conclude la pericope odierna: <la gente del luogo, riconosciuto Gesù, diffuse la notizia in tutta la regione; gli portarono tutti i malati, e lo pregavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello> (14, 35-36). Il Signore Gesù dà fiducia e aiuta tutti a prendere coscienza dei propri bisogni e ad assumere le proprie impotenze come luogo da offrire alla relazione con lui. Alla richiesta un po’ avventata di Pietro, il Signore risponde con estrema generosità: <Vieni!> (14, 29). Al bisogno della folla che lo attornia, il Signore risponde con un sereno e pronto esaudimento: <E quanti lo toccarono, furono guariti> (14, 36). Attorno al Signore si respira un’atmosfera di fiducia e di attenzione all’altro che viene accolto con tutta la zavorra delle sue paure (14, 30) e delle sue necessità.

Ciò che scatena la gelosia di Aronne e Maria verso l’amatissimo fratello (cfr. Es 2, 1-10 e 4, 10-17) sembra il frutto di una scelta di Mosè non condivisa: <aveva sposato una donna etiope> (Nm 12, 1). Non essendo rimasto quindi nel chiuso del clan, con tutti gli annessi e connessi, colei che lo ha accompagnato verso la salvezza – Maria – (Es 2, 4) e colui che è stato per lui <come bocca> – Aronne – (Es 4, 16) sentono talmente in pericolo il loro ruolo e la loro situazione di preferenza da reclamare un posto analogo non potendo contare più sulla partecipazione piena <Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè?> (Nm 12, 2). In questo modo, Aronne e Maria si mostrano insensibili alla vita di Mosè e al suo personale cammino per questo la sorella si ritrova ad essere <lebbrosa> (12, 10). La malattia rivela esteriormente il male del suo cuore incapace di accogliere l’altro in tutto il suo mistero anche quando mi sfugge o mi turba. Malati cercano di fare i medici, ciechi cercano di fare da guide e <tutti e due cadranno in un fosso> (Mt 15, 14), quel fosso che fa guardare all’altro come posto da un’altra parte e quindi potenzialmente contrario a me e di conseguenza nemico. Questo atteggiamento di invidia fa sì che <la nube si ritirò di sopra alla tenda ed ecco: Maria era lebbrosa> (Nm 12, 10).

La lebbra non fa altro che esternare lo stato del cuore di Maria tanto che il suo essere, pensato per vivere in relazione, comincia a putrefarsi. San Gregorio Magno dice che <l’invidia è capace come la ruggine di consumare anche il ferro> e la sua origine è sempre da cercare nello sconcerto davanti al fatto che, oltre a noi stessi e a quelli che ci assicurano di essere noi stessi, vi sono pure gli altri con cui ci si può persino “<sposare>” (12, 1). Davanti a tutto ciò non c’è molto da fare né da dire, ma solo da gridare: <Dio, ti prego, guariscila!> (12, 13). Ma prima di pregare per la guarigione degli altri dobbiamo cercare di non affondare noi stessi e, come Pietro, gridare: <Signore, salvami> (Mt 14, 30). Si tratta di riconoscere – come la folla (Mt 14, 35) in Gesù la nostra salvezza.

Piangere

XVIII settimana T.O. –

Le lacrime sembrano caratterizzare il messaggio della Parola di Dio che riceviamo in dono quest’oggi. Prima di tutto veniamo a sapere, nella prima lettura, attraverso l’interpretazione e narrazione che il libro dei Numeri dà dell’esperienza dell’esodo che <gli Israeliti ripresero a piangere> (Nm 11, 4). Come un bambino piccolo, il popolo neonato all’esperienza della libertà la quale comporta sempre un crescente grado di responsabilità, si lamenta del fatto che la vita del deserto è più dura di quanto si potesse pensare quando la si immaginava nella fornace di schiavitù dell’Egitto. Quasi per incanto il ricordo della schiavitù diventa nostalgia: <Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio> (Nm 11, 5). Il servo di Dio Mosè, come una madre e una nutrice, che non sa più cosa fare per calmare le grida e i capricci di un bimbo: <udì il popolo che piangeva>. Non solo il “povero” Mosè si trova pure di fronte alla terribile <ira del Signore> (11, 10) e a sua volta reagisce con una lamentela: <Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi al punto di impormi il peso di tutto questo popolo. L’ho forse concepito io tutto questo popolo?> (11, 11).

Davanti alle lamentele e alle lacrime di disperazione e di recriminazione del popolo, Mosè sente il <peso> (11, 14) di un cammino di crescita da guidare e accompagnare che si fa troppo esigente. È difficile far capire al popolo che la <manna> (11, 7) è il cibo necessario alla crescita come lo è il latte materno per il neonato. È come se il neonato pretendesse di mangiare cibi solidi come gli adulti! Così la manna rappresenta quel cibo essenziale il cui sapore è ripetitivo fino a stufare, ma che pure addestra all’essenziale per imparare ad essere liberi davvero. Infatti, l’arte dei potenti che schiavizzano con la complicità dei loro sudditi è sempre quella di dare l’impressione di offrire di più e di meglio.

Ci sono altre lacrime di cui ci parla la Liturgia di oggi… sono le lacrime segrete e innominate del Signore Gesù il quale <avendo udito della morte di Giovanni Battista… si ritirò in un luogo deserto, in disparte> (Mt 14, 13). Il Signore Gesù si apparta certo per piangere Giovanni, ma anche per capire che cosa la morte violenta del Battista rappresenta come messaggio e appello per la sua vita personale. Ciò che è avvenuto nella reggia di Erode dove la testa del Profeta è stata servita su un vassoio, viene trasfigurato dal gesto del Signore Gesù che dice ai suoi discepoli: <Non occorre che vadano: voi stessi date loro da mangiare> (14, 16). Se nel deserto il popolo piange per la ripetitività della manna come cibo, il Signore Gesù imbandisce nel <deserto> (14, 15) la tavola della <compassione> (14, 14) di cui gli apostoli sono chiamati a farsi servitori. Per uscire dal capriccio e dalle lacrime, sembra dirci la Parola di Dio di quest’oggi, è necessario smettere di piangersi addosso e cominciare ad immaginare insieme la speranza in modo concreto e fattivo:<Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene> (14, 20).

Follia

XVIII Domenica T.O.

Perché mai dividere la propria eredità se non per timore di condividerla? Lungi da esagerazioni eroiche, il Signore Gesù non si scaglia contro la ricchezza come segno di un modo di abitare con responsabilità e passione la terra che ci è stata affidata per essere custodita, coltivata ed incrementata, ma contro la follia di quella privatizzazione morbosa di cui è diventata icona il personaggio tolkieniano di Gollum. La ricchezza di per sé non è un crimine: ad essere un crimine è l’incoscienza e questa può essere sia dei ricchi che dei poveri e forse – ancor più subdolamente- di quanti, in realtà o solo per mancanza di giudizio, non sono né troppo ricchi né troppo poveri. Nella sua parabola il Signore Gesù non dice che quest’uomo che tesaurizza i suoi beni sia un uomo cattivo, lo definisce semplicemente <Stolto> (Lc 12, 20). Tesaurizzare non è male, male può diventare l’incoscienza del perché, o ancora più precisamente “per chi”, si continua a mettere da parte la vita, con il rischio di non riuscire a viverla nel senso più pieno.

Il soliloquio del personaggio della parabola suona così: <demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni> (Lc 12, 18). Il soliloquio di Qoelet sembra voler glossare il proposito del ricco proprietario con un tonante: <Anche questo è vanità> (Qo 2, 23). Da parte sua l’apostolo ci mette in guardia dal rischio di appiattirci qui sulla terra, mentre siamo chiamati a condividere il dono e la responsabilità di abitarla in modo consapevole e solidale: <cercate le cose di lassù> (Col 3, 2). Il Signore Gesù non ridicolizza la giusta richiesta di questo tale, che è quella di poter fare ogni cosa con giustizia, ma cerca di mettere in evidenza come, ogni giustizia, sia parziale. Invece di farsi arbitro come Mosè che in Egitto uccise l’egiziano per difendere l’ebreo, il Signore ci offre un criterio che ci permette di andare oltre la giustizia che pure rimane necessaria: <Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce presso Dio> (Lc 12, 21). Sembra proprio che la cosa più importante sia quella di dilatare il proprio riferimento relazionale divenendo capaci di uno sguardo all’altezza di quello dell’Altissimo che, per molti aspetti, si esprime nell’adagio del Qoelet: <Vanità delle vanità, tutto è vanità> (Qo 1, 2).

Un modo per sottrarci alla logica soffocatrice dell’autoreferenzialità è quello di affidarci ai poveri che sono portieri e portatori del Regno che viene proprio perché essi ci rammentano la precarietà insita alla vita. L’evidenza scontata con cui il Qoelet afferma che ognuno di noi dovrà comunque <lasciare la sua parte ad un altro> (Qo 2, 21), rende ancora più ammirabile il modo con cui il Signore si sottrae alla richiesta di fare da arbitro nella divisione di eredità tra questi due fratelli. In questo mondo non si vuole abdicare al dovere del ristabilimento della giustizia, ma il Signore si preoccupa di aprire i nostri occhi sull’essenziale della vita. Questo perché troppo facilmente rischiamo di perdere di vista l’orizzonte entro cui la vita è chiamata a giocarsi: mentre si costruiscono magazzini sempre <più grandi>, la vita, che trova il suo senso più vero nella relazione e nella condivisione, rischia di rimpicciolirsi a vista d’occhio!

Folie

XVIII Dimanche T.O. –

Pourquoi devrait-on diviser son héritage si ce n’est par peur de le partager ? Loin des exagérations héroïques, le Seigneur Jésus ne s’oppose pas à la richesse en tant que signe d’une manière d’habiter avec responsabilité et passion la terre qui nous a été confiée pour être protégée, cultivée et développée, mais contre la folie de cette privatisation morbide dont le personnage tolkien de Gollum est l’icône. La richesse en soi n’est pas un crime, mais l’inconscience, que l’on soit riches ou pauvres est un crime, – mais, plus subtilement encore – l’inconscience de ceux qui, en réalité ou simplement par manque de jugement, ne sont ni trop riches, ni trop pauvres. Dans sa parabole, le Seigneur Jésus ne dit pas que cet homme qui thésaurisait ses biens  est un homme mauvais, il le définit simplement comme « stupide » ( Lc 12, 20 ). Thésauriser n’est pas un mal, mais l’inconscience du pourquoi peut devenir un mal, ou plus précisément du «  pour qui » continue-t-on à mettre la vie à part, avec le risque de ne pas réussir à la vivre pleinement.

Le soliloque du personnage de la parabole résonne ainsi : «  je démolirai mes entrepôts et j’en construirai d’autres plus grands et j’y engrangerai tout le grain et tous mes biens. ( Lc 12, 18 ). Le soliloque du Qohélet semble faire voler en éclats la proposition du riche propriétaire par un tonitruant : «  cela aussi est vanité ! » ( Qo2, 23 ). De son côté, l’apôtre nous met en garde contre le risque de nous aplatir sur la terre, alors que nous sommes appelés à partager le don et la responsabilité de l’habiter de façon consciente et solidaire : «  chercher les choses d’en-haut » ( Col 3, 2 ). Le Seigneur Jésus ne ridiculise pas la bonne richesse de celui qui peut faire toute chose avec justice, mais il cherche de mettre en évidence comment chaque justice est partiale. Au lieu d’être arbitre comme Moïse qui, en Egypte, tua l’égyptien pour défendre l’hébreu, le Seigneur nous offre un critère qui nous permet d’aller au-delà de la justice qui pourtant reste nécessaire : «  Il en est ainsi de celui qui accumule des trésors pour soi et ne s’enrichit pas auprès de Dieu » ( Lc 12, 21 ). Il semblerait vraiment que la chose la plus importante soit celle de dilater sa propre référence relationnelle en devenant capables d’un regard à la hauteur de celui du Très-Haut qui, par différents aspects, s’exprime selon l’adage du Qohélet : «  Vanité des vanités, tout est vanité » ( Qo 1, 2 ).

Une manière de se soustraire à la logique suffocante de l’auto – référence est de se fier aux pauvres qui sont les gardiens et les portiers du Règne qui vient et cela parce qu’ils se rappellent la précarité liée à la vie. L’évidence acquise avec laquelle le Qohélet affirme que chacun de nous devra donc «  laisser sa part à un autre » ( Qo 2, 21 ), rend encore plus admirable la façon dont le Seigneur se soustrait à la demande d’arbitrer le partage de l’héritage de ces deux frères. Ainsi, il ne veut pas abdiquer au devoir de rétablissement de la justice, mais le Seigneur se préoccupe d’ouvrir nos yeux sur l’essentiel de la vie. Et ceci parce que nous risquons trop facilement de perdre de vue l’horizon vers lequel la vie est appelée à se jouer : pendant que nous nous construisons des entrepôts toujours «  plus grands », la vie, qui trouve son véritable sens dans la relation et le partage, risque de nous rétrécir à vue d’oeil !

Liberazione

XVII settimana T.O. –

Il lungo e dettagliato libro del Levitico viene, per così dire, liquidato nella lettura ciclica della Liturgia in due giorni. Eppure, la parola di questo libro – il primo ad essere imparato a memoria dai piccoli ebrei come una volta i nostri piccoli imparavano a memoria il Catechismo di Pio X – fa suonare il <corno> (Lv 25, 9) di una parola che ci viene consegnata come il senso profondo di tutto il cammino del popolo di Israele dall’Egitto alla Terra Promessa che si invera in ogni autentico cammino di fede fatto personalmente o in comunità. La parola è <liberazione>! Una liberazione che potremmo definire totale, contagiosa, assolutamente inclusiva visto che riguarda tutti nel senso più ampio del termine: <Nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti> (25, 10). Una serie di norme, spesso disattese o piamente truccate, assicurano la possibilità di “rimettere” ogni debito e di ritornare non solo in possesso di ciò che si è stato costretti a vendere o ad alienare. Ben più profondamente la regola del Giubileo rappresenta la possibilità della riconquista di una libertà che permette di ricominciare a sperare radicalmente. Il senso di tutto ciò è racchiuso nella conclusione della prima lettura: <Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore vostro Dio> (25, 17).

A commento di questa rassicurazione di una <liberazione> sempre possibile, la Liturgia ci fa leggere il racconto del martirio del Battista. Questo testimone di Dio e profeta dei tempi nuovi, cade sotto la spada di Erode e del suo entourage profondamente scosso dalla libertà di Giovanni nel denunciare e quindi nello scardinare la logica dell’abuso che tende ad opprimere e ad umiliare gli altri: <Non ti è lecito tenerla con te!> (Mt 14, 4). La morte del Battista sembra il commento esistenziale più autorevole e chiaro alle parabole raccontate dal Signore Gesù. La sua vita, fedele fino alla fine alla verità di una libertà che non è appannaggio solo di alcuni privilegiati, ma dono per tutti, cade come un seme deposto prima che nella terra dalla pietà dei suoi discepoli, su un <vassoio> (14, 11) verosimilmente prezioso dato l’ambiente cortigiano. La libertà ha il suo prezzo e, di conseguenza, l’abuso dei potenti ha le sue prerogative che si ripetono in forme diverse, ma restano le stesse nella sostanza.

Eppure, per quanto sembri che una spada possa recidere ogni resistenza, questo non significa spegnere il campanellino della coscienza come avviene per il tormentato Erode: <Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!> (14, 2). Ben più difficile è liberare il cuore che liberarsi di qualcuno capace di sbarrare la strada alle nostre malefatte! Ci sono due modi opposti di vivere la festa: il giubileo che è una festa per tutti e di tutti e il compleanno di Erode che coincide, drammaticamente, con l’esecuzione del Battista.

Casa

XVII settimana T.O. –

Per quanto ci possano non solo interrogare, ma pure profondamente addolorare le parole del Signore Gesù contengono una punta di straordinaria bellezza: <Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua> (Mt 13, 57). Il fatto che il Verbo di Dio abbia fatto della nostra la sua <patria> e si senta a <casa sua> proprio nella nostra casa è motivo di gratitudine, anche se questo non toglie tutto il dolore di dover prendere coscienza di quanto possa essere grave il nostro rifiuto e la nostra chiusura alla sua opera in mezzo a noi e, soprattutto, dentro di noi. Una domanda si fa spontanea:<Come superare lo “scandalo” che il Signore può rappresentare per noi come invito ad un autentico cammino di conversione?>. La risposta possiamo trovarla nella prima lettura tratta dal Levitico. Le indicazioni rituali per la celebrazione delle feste più importanti dell’anno liturgico ebraico (Pasqua, Pentecoste, Kippur e Capanne) sono ben più che delle rubriche rituali: <Queste sono le solennità del Signore, le riunioni sacre che convocherete nei tempi stabiliti> (Lc 23, 4).

Celebrare con attenzione, cura e amore le feste liturgiche è sempre un modo per uscire da noi stessi e lasciarci condurre fuori di noi per contestualizzare il nostro stesso cammino personale in un ambito più ampio e per questo anche più vero. Ogni volta che celebriamo una festa o una semplice liturgia domestica o intima come può essere la recita delle preghiere che segnano il volgere dei giorni nella nostra vita, facciamo esperienza di far parte di un modo più grande di quelli che possono essere i nostri sentimenti, emozioni, desideri e frustrazioni. La liturgia ha un valore terapeutico per tutto ciò che in noi rischia di farci ripiegare su noi stessi chiudendo alla vita possibilità di espansione e di crescita. La gente di Nazaret se da una parte <rimaneva stupita> (Mt 13, 54), dall’altra sembra fare una grande fatica ad entrare in una relazione con Gesù che vada oltre ciò che di lui sanno o presumono di sapere.

Quando ogni anno si porta, invece, il primo <covone> (Lv 13, 10) e lo si consegna al sacerdote perché lo elevi <davanti al Signore> (23, 11) è un modo semplice, ma stupendamente efficace, di trasformare una realtà banale e ripetitiva della vita legata al dramma della sopravvivenza in qualcosa di molto più significativo che pone la vita ad un livello di esperienza e di comprensione più alto e profondo. Sta a noi di rendere più o meno possibile al Signore di compiere nella nostra vita <molti prodigi> (Mt 13, 58). Questo dipende molto dalla scelta consapevole e coraggiosa di andare oltre la nostra <incredulità> che, non raramente, rischia di essere molto meno una scelta consapevole e per questo sofferta e molto più l’espressione di una pigrizia dell’anima accomodata su se stessa e già in procinto, per questo, di avvizzire e morire. Perché il Signore si senta a <casa sua> e nella sua <patria> è necessario che noi non ci rinchiudiamo in casa sbarrando ogni porta e finestra da cui può entrare nella nostra vita aria fresca e luce corroborante.