Il tuo nome è Affitto, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Alla vigilia di Pentecoste ci congediamo dalla rilettura annuale degli Atti degli Apostoli con quest’immagine apparentemente così prosaica, Alla eppure così densa di significato: <Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento> (At 28, 30-31). In questa vita siamo veramente tutti <in affitto> e sta a noi – al nostro impegno quotidiano – di trasformare il piccolo spazio della nostra esistenza in un luogo di accoglienza in cui la testimonianza discepolare possa fluire <con tutta franchezza e senza impedimento>. Gli Atti degli Apostoli si concludono con una nota di serenità e contrassegnati da una radicale fiducia nel mondo in cui siamo chiamati a vivere e testimoniare. Sappiamo tutti che ben presto per Paolo sarebbe stata la spada a recidere la sua testa come per Pietro, la tradizione attesta la crocifissione, eppure Luca vuole congedarsi dal lettore della prima parte della storia della Chiesa in modo sereno. Certo, potranno accadere cose anche molto dure, ma non c’è nessun contesto, per quanto possa essere sfavorevole, che possa impedire l’accoglienza e l’annuncio.

Alla vigilia di Pentecoste ci congediamo dalla rilettura annuale del Vangelo secondo Giovanni con una nota che, in realtà, invece di chiudere apre ad orizzonti infiniti di esperienza e di testimonianza possibili: <Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere> (Gv 21, 25). Accanto a Paolo e Pietro ricompare la figura dell’altro discepolo <colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”> (21, 20). In questo modo delicato, ma così efficace, il quarto Vangelo ci ricorda come la storia di ogni discepolo è unica tanto da dover evitare ogni comparazione per essere invece fedeli fino in fondo a se stessi e al proprio personale cammino. La reazione del Signore alla domanda di Pietro non lascia dubbi: <Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi> (21, 22).

In questa vita siamo <in affitto> non solo per ciò che concerne l’esistenza, ma pure per quanto riguarda la nostra vita di discepoli del cui percorso non siamo padroni, ma umile e amorosi servitori. I primi passi della Chiesa dopo la risurrezione del Signore e la possibilità di riascoltare le parole di Gesù in particolare quelle pronunciate nel Cenacolo possono e devono fare di noi dei testimoni sereni e affidabili di quel dono ricevuto che esige la fedeltà e la passione di una sequela che si rinnova ogni mattina… come l’amore… come la vita. Già le fiamme della Pentecoste riempiono l’aria e il fuoco che abbiamo acceso nella notte di Pasqua si comunica a ciascuno con tutta la sua forza e in una differenza e unicità che sono il miracolo di cui siamo ancora responsabili finché egli <venga> a riprendere possesso della casa <in affitto> che siamo noi.

Il tuo nome è Custodia, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Le ultime parole della prima lettura sono di certo già una prima conclusione – peraltro lasciata volutamente aperta dal redattore degli Atti degli Apostoli – del cammino dell’apostolo la cui situazione viene presentata da Festo ai suoi illustri ospiti: <Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio di Augusto, e così, ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare> (At 25, 21). Festo crede fermamente di essere lui a tenere in custodia Paolo, ma gli sfugge che l’apostolo vive sotto una custodia ben più sicura di quella che prepara l’incontro con l’imperatore. Festo non riesce tanto a capacitarsi di ciò che è veramente in gioco: <ma non portarono alcuna accusa di quei crimini che io immaginavo; avevano con lui alcune questioni relative alla loro religione e a un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere vivo> (25, 19). Davanti a tutto ciò Festo non può che rimanere <perplesso> (25, 20). Infatti, il mistero della risurrezione del Signore non è un’evidenza da sbandierare, ma un’esperienza da assumere fino a lasciare che la sua logica trasformi radicalmente la vita.

Mentre il tempo pasquale si avvia verso il compimento della Pentecoste, ritorniamo ai luoghi amati dal Signore Gesù che evocano i cammini all’aria aperta sotto il sole di Galilea reso ancora più amabile e profumato dalla brezza del lago di Tiberiade. Il Risorto non è un concetto, non è un’astrazione, non è un fantasma… è un compagno di strada che interpella ancora una volta la libertà del nostro cuore per fare il punto del nostro essere discepoli nell’amore. La domanda si fa non solo seria, ma quasi scorticante dopo tutto quello che è successo nei giorni della Pasqua: <Simone, figlio di Giovanni, mi ami?> (Gv 21, 16). Comincia così uno dei dialoghi più difficili della storia in cui il Signore Gesù adatta il suo desiderio alla nostra capacità reale di rispondere e di corrispondere. Alla fine, è il Signore ad arrendersi a Pietro: <Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?> (21, 17).

Paolo e Pietro sono i nostri compagni privilegiati in questo ultimo scorcio del tempo pasquale. Queste due colonne su cui poggia la fede della Chiesa di Roma che presiede alla carità di tutte le Chiese, non sono né di uguale grandezza, né dello stesso spessore, né sono fatte dello stesso materiale umano. La Chiesa di Cristo in cui ciascun discepolo è chiamato a vivere la sua avventura di discepolato non ha un’architettura esteticamente perfetta, ma si rivela attraverso forme tanto imperfette quanto capaci di lasciarsi custodire e guidare verso lidi inimmaginati e verso destini non voluti eppure così amorevolmente assunti… almeno alla fine della corsa. Le parole di Gesù a Simon Pietro permettono di fare un salto magnifico che trasforma le tre domande in una sorta di dichiarazione d’amore non fatta di sentimenti e di slanci, ma di un semplice consenso alla vita che diventa consenso alla morte: <… e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi> (21, 18). L’ultima parola rifonda le prime e le porta a pienezza: <Seguimi>. Non c’è nulla da aggiungere e c’è tutto da assumere in una custodia dell’amore che rimane un mistero… insondabile e prezioso.

Il tuo nome è Speranza, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Il grido dell’apostolo attraversa i secoli e giunge, con la stessa forza e intensità di duemila anni fa, alle nostre orecchie: <Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti> (At 23, 6). Questa parola di Paolo ha l’effetto di una bomba lanciata in una piazza affollata tanto che <scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise> (23, 7). La risurrezione è motivo di divisione e di contrapposizione non solo tra i farisei e i sadducei del tempo di Gesù, ma pure tra quanti, in ogni tempo, hanno bisogno di una speranza e chi, invece, essendo sicuri e ricchi, sono sufficienti a se stessi e non hanno bisogno di nessun dono. Al contrario, il Signore, persino in quella che possiamo definire la sua preghiera testamentaria, manifesta un profondo bisogno di condivisione che si fa pressante invocazione al cospetto del Padre suo perché vi sia una piena partecipazione anche per noi del preziosissimo dono della sua comunione divina: <E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me> (Gv 17, 22-23).

In questa supplica accorata del Signore possiamo sentire in che cosa consista il fondamento di quella speranza nella risurrezione che se ci è promesso come frutto di eternità, fiorisce e germoglia già in questo tempo nella misura in cui accettiamo l’esodo quotidiano dalla nostra autoreferenzialità per vivere fondati su quell’amore che ci accompagna in modo così radicale da essere <prima della creazione del mondo> (17, 24). Ciò che già mette in moto il linguaggio e la realtà della risurrezione che speriamo, è la decisione che sta alla base ed è la motivazione fondamentale dell’offerta pasquale di Cristo Signore: <E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro> (17, 26).

Come scrive Elisabetta della Trinità: <Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che noi siamo là dove egli è. E questo non solo nell’eternità, ma già in questo tempo che è l’eternità già cominciata, ma sempre in progresso>. La preghiera del Signore accompagna il cammino della Chiesa chiamata ad essere, sempre di più e sempre meglio, sacramento di salvezza fino ad essere capace come Gesù stesso di abbracciare con l’amore tutta l’umanità. Nella preghiera del Signore, la Chiesa e ciascun discepolo è contemplato e abbracciato in totalità, non escluse le povertà e le fragilità. Attraverso la luce e la cura della preghiera, persino la debolezza può diventare una porta di salvezza e un indizio di risurrezione rendendo ciascuno di noi più umani e più miti. Il primo passo sembra essere quello di diventare più oranti. Possa capitare anche a noi ciò che accadde per Paolo che fu visitato ancora una volta da una parola che rischiara ogni notte: <Coraggio!> (At 22, 11). Si tratta del coraggio necessario a rinnovare ogni mattina la speranza radicata nell’esperienza di un amore sempre antico e sempre nuovo.

Il tuo nome è Potenza, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

L’apostolo Paolo non smette di evocare la sua passione apostolica che diventa per i discepoli una vera e propria eredità da accogliere e da custodire: <Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato, tra le lacrime, di ammonire ciascuno di voi> (At 20, 31). È proprio da questa passione amorevole che nasce la conoscenza e l’esperienza di una forza che radica nel profondo del cuore e si diffonde, a partire dalla propria vita, al mondo che ci circonda con un senso di fiducia radicale. Da questa fiducia, in cui si invera una fede autentica e vitale, nasce un affidamento generoso e abbandonato: <E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati> (20, 32). Mentre la sua esperienza sta per essere segnata in modo drammatico dall’attraversamento di una fragilità a tratti inquietante, il Signore Gesù non ha nessun timore nel parlare di <potenza>. Si tratta della potenza che viene dalla certezza di essere in profonda relazione con qualcuno, tanto che l’estrema debolezza diventa il luogo in cui si manifesta il meglio delle possibilità più impensate e inimmaginate.

Credere che la relazione intima con il Signore abbia <la potenza di edificare> è, di certo, una premessa, ma è pure la conseguenza più forte del fatto di sentire che non siamo soli soprattutto quando tutto sembrerebbe dire il contrario. Il Signore Gesù sta in mezzo tra il Padre e i suoi discepoli e in questo modo rivela dove sta il segreto e la causa interiore della sua croce: <Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura> (Gv 17, 12). Nessuna preoccupazione per il proprio destino e una profonda attenzione alla vita e alla felicità dei discepoli i quali diventano il soggetto di ogni pensiero e di ogni desiderio. Tutto questo mentre il tempo della passione e dell’estrema solitudine sono già in atto: <per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità> (17, 19).

Al Signore che si prepara al suo ultimo combattimento contro il <potere delle tenebre> (Lc 22, 53) non sfugge il pericolo che incombe sui discepoli… su di noi. Per questo prega con ardore: <Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno> (Gv 17, 15). Il segno di una vittoria o di una sconfitta dell’opera del Maligno nella vita dei discepoli è la partecipazione alla gioia che anima la vita intima della relazioni divine: <perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia> (17, 13). Paradossalmente il Maligno, che pure promette tanti piaceri, è sommamente triste per quella sua incapacità radicale a pensarsi solo in un modo autoreferenziale e solipsistico con cui cerca di contaminare la nostra umanità creata, invece, ad immagine e somiglianza del Dio sempre in comunione.

Il tuo nome è Costrizione, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

L’apostolo Paolo non ha nessuna remora nel riconoscere la duplice causa di tutto il suo cammino di fede e di apostolato. Alla base della generosa sequela di Paolo e della sua ardente testimonianza vi è l’intuizione profonda nata da quell’incontro sulla via di Damasco che gli ha cambiato la vita. Questo non toglie che ad orientare e, per molti aspetti, a limitare il suo percorso sono tutta una serie di costrizioni che, accolte in modo maturo e lucido, sono diventate per l’apostolo delle vere occasioni di crescita senza nulla togliere alla loro dose di amarezza e di dolore. Questa coscienza completa e non parziale diventa per Paolo una vera e propria confessione: <ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei; non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile> (At 20, 19-20). Pertanto, vi è un passo in più che viene compiuto da Paolo ed è un passo che potremmo definire di alta consapevolezza: <Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà> (20, 22).

Nella stessa linea e in modo ancora più radicale si muove il Signore Gesù che, dopo aver parlato a lungo ai suoi discepoli, per prepararli alla Pasqua e aprirli gradualmente al dono di una presenza ancora più intima di quella che avevano sperimentato accanto al loro Maestro con la venuta dello Spirito Santo, si rivolge direttamente al Padre suo per parlare dei suoi discepoli… di noi, quasi per creare un legame così forte che la morte stessa e il terribile scandalo della croce non potranno né spezzare, né incrinare: <Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te> (Gv 17, 1). Mentre ci lasciamo conquistare da questa preghiera del Signore, che è una vera e propria elevazione della sua anima verso il Padre, non dobbiamo dimenticare tutto quello che, nel Cenacolo, è stato fatto e detto. Si tratta di mantenere viva la memoria di tutto ciò che è accaduto, dalla lavanda dei piedi, allo svelamento del tradimento di Giuda e dell’abbandono da parte di tutti, dell’inaccoglienza della sua parola e della sua persona dai notabili del popolo i quali, per difendere l’onore di Dio secondo il loro modo di sentire, lo condanneranno alla morte più dura perché la più infamante per un credente e per un uomo giusto: la croce.

Come Paolo fa memoria del suo ardente ministero: <testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore> (At 20, 21), così il Signore Gesù sembra quasi voler ricordare a se stesso: <Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo> (Gv 17, 6). Sembra che l’annuncio e la testimonianza del dono offerto di una relazione con Dio capace di metterci in una condizione di più profonda e autentica umanità, si debba scontrare necessariamente con tutta una serie di costrizioni che, in realtà, rendono ancora più chiaro l’amore di cui si vorrebbe rendere partecipe ogni creatura: <Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono del mondo, e io vengo a te> (17, 10). L’identità non è più il risultato di un processo di differenziazione aggressiva, ma è il frutto di una comunione attraversata fino ad essere immensamente amata. Non si tratta di una dipendenza mortificante, ma di una <umiltà> (At 20, 19) corroborante capace di una certa fierezza che nasce dalla consapevolezza profonda di come la propria consistenza radica in una relazione che pacifica e libera così da poter accogliere le costrizioni della vita come un luogo sponsale e non come un passaggio fallimentare.

Il tuo nome è Adesso, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

La reazione del Signore Gesù ci stupisce non poco con questa domanda che ci tocca e ci interpella: <Adesso credete?> (Gv 16, 31). Mentre il Signore continua a parlare di sé, sempre in relazione al Padre suo e cercando di preparare il cuore dei discepoli a ciò che sta per accadere nella Pasqua imminente, i discepoli sembrano accontentarsi di aver capito in senso teorico il mistero di Cristo. Per questo il Signore reagisce e lo fa in modo assai forte ed esplicito. Con tono deciso e appassionato il Maestro cerca di far comprendere che non si sta parlando di una teoria, ma il suo desiderio è di mettere le basi di un vissuto che sia veramente un’esperienza condivisa: <Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me> (16, 32). A questo punto possiamo intuire la portata della domanda che l’apostolo pone non solo ai discepoli di Efeso, ma pure a noi: <Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?> (At 19, 2). La risposta non deve sorprenderci più di tanto perché, in realtà, potrebbe essere la stessa risposta di tanti credenti e praticanti dei nostri giorni: <Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo> (19, 2).

Anche a noi può succedere di accontentarci di vivere nella logica del <battesimo di Giovanni> (19, 3) attraverso cui ci concentriamo su quella che potremmo definire un generoso impegno a diventare “più bravi” tanto da sentirci soddisfatti del nostro cammino. Lo Spirito del Risorto, invece, ci dà la possibilità e rappresenta la sfida a portarci un poco oltre: <non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue e a profetare> (19, 6). L’incontro con il Signore Risorto e l’apertura radicale a ricevere e a lasciarsi guidare e trasformare dal suo Spirito, porta la vita più lontano e fa salpare la nostra esperienza di fede verso profondità non ancora esplorate. Questo andare più lontano esige una capacità di rischiare <adesso> senza accomodarsi su ciò che ci sembra finalmente di aver capito tanto da essere, più una sfida già superata che non una sfida in atto.

Ed ecco le parole del Signore Gesù diventano una consolazione ed una spada: <Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!> (Gv 16, 33). La grande eredità che ci viene lasciata dal Signore è la sua vittoria sul quel modo di vivere, di pensare, di credere, di amare cui rischiamo di esserci così abituati da non essere più in grado di andare oltre. Prevedendo e prevenendo la nostra fragilità discepolare, il Cristo ci vaccina contro la disperazione con una rivelazione: <Il Padre è con me!>. Non abbiamo dunque più bisogno di temere di giocarci fino in fondo in quelle che sono le sfide del nostro quotidiano perché siamo certi di una compagnia che riscatta la nostra vita da ogni forma di fuga, né in avanti né all’indietro.

Il tuo nome è Benedizione, alleluia!

Ascensione del Signore

Il Signore Gesù si separa dai suoi discepoli nell’atto di benedirli e proprio <Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo> (Lc 24, 51). Quella del Signore Gesù è una benedizione che mantiene e, nello stesso tempo, trasforma la relazione tra i discepoli e il loro Maestro. Il segno distintivo di questo nuovo modo di comunione sono la gioia e l’adorazione: segni esterni di una vita ormai tutta segnata dalla capacità di benedire e di ringraziare. Il Signore ritorna nel seno del Padre dopo aver rivelato, nel mistero della sua incarnazione, pienamente manifestatosi nel mistero pasquale, quale amore il Padre ha per il mondo di cui noi siamo parte. Il Verbo torna <in cielo> con il nostro corpo preparando così un posto, uno spazio, una possibilità di “essere” – per la nostra umanità – al cuore stesso della vita divina. In tal modo la benedizione delle origini sulla creazione intera oggi raggiunge la sua pienezza e il suo culmine, toccando il cuore delle creature e dando a ciascuno di noi la gioia di poter sperare in un compimento che tocchi l’interezza del nostro essere e la totalità della nostra storia.

Il mistero dell’ascensione suona allora come una vera e urgente chiamata a partecipare del medesimo amore che unisce il Padre e il Figlio ed è continuamente riversato nei nostri cuori con, e nella potenza dello Spirito. Si tratta di un amore sufficientemente decentrato da se stesso che consente l’assenza sensibile di Cristo senza renderlo per nulla assente dalla nostra vita, anzi, così tanto presente ed efficace da poter assicurare che ormai <abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente> (Eb 10, 19-20). Questa certezza interiore di comunione, che si fa partecipazione serena e libera alla stessa vita di Dio, ci permette di rispondere alla benedizione con l’adorazione che si fa fervida attesa del dono che viene dall’alto e che ci permette di orientare la nostra vita sempre oltre, il dono dello Spirito.

A noi, quindi, è ora richiesto di rivivere, nella nostra vita, l’esperienza degli apostoli amando di dimorare nel tempio interiore del nostro cuore per potervi ricevere il dono della vita nuova: di una vita risorta. Al cuore della nostra fede condivisa vi è una certezza che nasce da una promessa: <Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo> (At 1, 11). La gioia dell’Ascensione è una gioia che libera il cuore perché non lo incatena nemmeno ad un’esperienza compiuta di Dio, ma lo spinge verso quell’oltre di cui è rimando il simbolo del <cielo>. Non ci è chiesto di distaccarci o disinteressarci della vita quotidiana, ci è semplicemente dato di essere profondamente coinvolti e, allo stesso tempo, profondamente liberi, perché chiaramente orientati così da essere tanto coinvolti, quanto assolutamente distaccati da ogni paura di fallire o di soffrire. L’amore non passa, si invera! A noi è chiesto di essere testimoni della potenza della misericordia e del perdono che abbiamo appreso dalle parole e dai gesti del Maestro e di cui ora, in attesa del suo mite e festoso ritorno, siamo chiamati ad essere testimoni possibilmente credibili, ma soprattutto testimoni interessanti per quella gioia sottile e contagiosa che dovrebbe segnare e contraddistinguere il nostro tratto, tanto da riconoscervi uno sprazzo di cielo… sempre così vicino e così lontano.

Ton nom est Bénédiction, alléluia !

Ascension du Seigneur –

Le Seigneur Jésus se sépare de ses disciples en les bénissant : «  Pendant qu’il les bénissait, il se détacha d’eux et fut soulevé au ciel » ( Lc 24, 51 ). La bénédiction du Seigneur Jésus maintient et, en même temps, transforme la relation entre les disciples et leur Maître. Le signe distinctif de cette nouvelle manière de communion est la joie et l’adoration : signes extérieurs d’une vie désormais marquée par la capacité de bénir et de remercier. Le Seigneur retourne dans le sein du Père après avoir révélé, par le mystère de son incarnation, manifesté pleinement dans le mystère pascal, l’amour que le Père a pour le monde dont nous faisons partie. Le Verbe retourne «  au ciel » avec notre corps, préparant ainsi une place, un espace, une possibilité d’« être » – pour notre humanité – au coeur même de la vie divine. De cette façon, la bénédiction des origines sur la création entière, rejoint aujourd’hui sa plénitude et son point culminant en touchant le coeur des créatures donnant à chacun de nous la joie de pouvoir espérer un accomplissement qui touche l’intégralité de notre être et la totalité de notre histoire.

Le mystère de l’Ascension résonne alors comme un véritable et urgent appel à participer au même amour qui unit le Père et le Fils, continuellement reversé en nos coeurs avec et dans la puissance de l’Esprit. Il s’agit d’un amour suffisamment décentré de soi-même qui consent à l’absence sensible du Christ sans aucunement le rendre absent de notre vie, au contraire, si présent et efficace pour pouvoir assurer que maintenant «  nous avons la pleine liberté d’entrer dans le sanctuaire grâce au sang de Jésus, chemin nouveau et vivant ( He 10, 19-20). Cette certitude de communion intérieure qui devient participation sereine et libre à la vie même de Dieu, nous permet de répondre à la bénédiction par l’adoration qui nous fait devenir attente fervente du don qui vient de l’autre et nous permet d’orienter notre vie toujours plus loin, le don de l’Esprit.Il nous est donc demandé de revivre dans notre vie, l’expérience des apôtres, aimant demeurer dans le temple intérieur de notre coeur pour pouvoir y recevoir le don de la vie nouvelle : une vie ressuscitée. Au coeur de notre foi partagée il y a une certitude née d’une promesse : «  Ce Jésus qui, au milieu de vous, est monté au ciel, viendra de la même manière que vous vous l’avez vu monter au ciel » ( Ac 1, 11 ). La joie de l’Ascension est une joie qui libère le coeur car il ne l’enchaîne pas à une expérience accomplie par Dieu, mais il le pousse vers cet autre qui est resté le symbole du «  ciel ». Il ne nous est pas demandé de nous détacher ou de nous désintéresser de la vie quotidienne, il nous est simplement donné d’être profondément impliqués et, en même temps, profondément libres, car clairement orientés pour être si impliqués afin de nous détacher absolument de toute peur d’échec ou de souffrance. L’amour ne passe pas, il devient réalité ! En attendant le doux retour festif du Maître, il  nous est demandé d’être les témoins de la puissance, de la miséricorde et du pardon que nous avons appris par les paroles et les gestes du Maître et dont, aujourd’hui, nous sommes appelés à être les témoins, si possible crédibles, et, surtout témoins intéressés par cette joie légère et contagieuse qui devrait attester et distinguer notre particularité, comme l’on reconnaîtrait un éclair dans le ciel…toujours si proche et si lointain.

Incontri

Visitazione della B.V. Maria –

Una delle caratteristiche particolari e toccanti di tutto il vangelo secondo Luca sono i molti e intensi incontri che segnano la vita del Signore Gesù. Questa disponibilità – si potrebbe parlare persino di passione- ad “incontrare” non solo segna, ma sembra persino precedere la vita del Salvatore. I primi due capitoli del Vangelo di Luca ci mostrano un Dio che si vuole fare incontro all’umanità visitandola in quelle che sono le situazioni più significative e normalmente più dolorose. Per questo Zaccaria viene visitato da Gabriele come avverrà per Maria e per i pastori che vegliano nella notte. Nella Visitazione si vede come chi è veramente visitato e trasformato dalla visita del Signore non può che mettersi in cammino in tutta <fretta> verso la <montagna> (Lc 1, 39). Questa montagna può ben significare la vita dell’altro per raggiungere il quale si esige la fatica di un viaggio interiore che è sempre un esodo. Il mistero della Visitazione è un modo per suggerire ad ogni credente quanto, la storia della salvezza, passi attraverso l’incontro che si concretizza negli incontri che segnano la nostra vita.

L’incontro e l’abbraccio di Maria ed Elisabetta è profezia non solo del segreto abbraccio e riconoscimento prenatale tra il Verbo di Dio e il Precursore Giovanni, ma tra tutte le dimensioni e le realtà della nostra esistenza. È, infatti, questa capacità di relazione che ci costituisce come persone umane interiormente lavorate dallo Spirito che in Maria genera – nella carne e secondo la carne – lo stesso Verbo eterno del Padre. Come afferma giustamente Francesco di Sales: <È caratteristico dello Spirito Santo, quando colpisce un cuore, cacciarne ogni tiepidezza. Egli ama la prontezza, ed è nemico degli indugi, dei ritardi nell’adempiere la volontà di Dio> Per questo <Maria si alzò e andò in fretta>. Troviamo nel tempo che precede la stessa nascita del Signore Gesù gli stessi verbi che dominano i racconti della risurrezione e ritmano ogni avventura di discepolanza. Lasciamoci non solo incantare, ma profondamente contagiare dall’atteggiamento di Maria, lasciando che lo stile di Dio diventi il nostro stesso stile: andare incontro senza mai aspettare, né tantomeno aspettarci che sia l’altro a fare il primo passo per venirci incontro.

Il primo a fare un passo nei nostri confronti è il Signore stesso che, secondo l’esultante profezia di Sofonia, <in mezzo a te è un salvatore potente> tanto che <Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia> (Sof 3, 17). La conseguenza di questo atteggiamento del Signore nei confronti della nostra umanità è tratteggiata dall’apostolo Paolo quando esorta e ci esorta: <amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiare nello stimarvi a vicenda> (Rm 12, 10). Una domanda sorge spontanea dal nostro cuore: <Come sarebbe possibile tutto ciò?>. La risposta sembra essere adombrata nella nota discreta ma importantissima che, accanto a Maria, Elisabetta, Giovanni e lo stesso Gesù, ci ricorda la presenza di un quinto – forse il primo – protagonista di ogni visitazione: <fu colmata di Spirito Santo>. Lo Spirito Santo ha già ricolmato Maria nel momento dell’annunciazione e si dona a ciascuno di noi come principio dei tempi nuovi il cui segno distintivo e il sigillo di autenticità non è altro che un modo nuovo di incontrarsi… di visitarsi… di abbracciarsi… di amarsi.

Il tuo nome è Donna, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

La Liturgia ci fa riascoltare le parole pronunciate dal Signore Gesù nel Cenacolo per aiutarci ad entrare nel mistero della risurrezione non come prova e rivincita contro coloro che hanno crocifisso il Signore, ma come conferma di quell’amore che si è formato tra Gesù e i suoi discepoli, tra Gesù e i suoi amici, tra Gesù e noi. Quando il Signore si racconta, parla di sé con immagini – basti ricordare quella della vite e dei tralci – che ci commuovono e allo stesso tempo ci interpellano per la loro valenza intima e perché ci richiamano continuamente alla necessità di sentire e di vivere nella linea della profondità. Al cuore dei discorsi con cui il Signore prepara il cuore dei discepoli a sostenere lo scandalo della passione vi è questo momento in cui Gesù per parlare di se stesso non trova un’immagine più bella e più espressiva di questa: <La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo> (Gv 16, 21). Questa immagine non è assolutamente nuova, ma è il contesto stesso in cui il Signore Gesù parla con i suoi discepoli alla vigilia della sua passione.

Infatti, se a questo punto il Signore Gesù paragona se stesso ad una <donna> nelle doglie del parto ormai prossimo, è perché ha preposto a tutte le sue parole un gesto fondamentale senza il quale non ci sarebbe possibile comprendere che cosa stia veramente dicendo ai suoi discepoli. Il gesto è la lavanda dei piedi che il Signore compie non come gesto eminentemente servile, ma intimamente sponsale. Non bisogna dimenticare che soprattutto nell’imminenza della sua passione, il Signore apprende il modo proprio per dire il suo amore dalle donne… dai gesti di esagerazione e di eccesso dell’amore come quello dell’unzione del suo corpo in vista della sepoltura. Se così è per il Maestro, non può che essere così anche per i suoi discepoli, tanto che l’apostolo Paolo, già chiamato in visione sulla strada di Damasco, è anch’egli come una donna che deve partorire, tanto da conoscere, ancora una volta, i dolori del parto e l’angoscia di dover continuare a rischiare sulla parola del suo Signore.

Per questo il Signore Gesù si fa di nuovo presente con una visione rinnovata che è un modo per dilatare e approfondire il suo modo di sentire e di interpretare quanto sta avvenendo e lo rende così padre: <Non avere paura continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso> (At 18, 9). Sembra proprio che il Signore stia accanto all’apostolo quasi per assisterlo in un momento difficile quanto un parto segnato dal dolore e dal rischio della vita. Gli Atti degli apostoli, ancora una volta, ci ricordano che <i Giudei insorsero unanimi contro Paolo e lo condussero davanti al tribunale> (18, 12) quasi come fosse una sala parto, in cui però l’apostolo – come ogni discepolo nel tempo della tribolazione – non è solo, ma è sostenuto e incoraggiato dalla presenza del Signore come uno sposo accanto alla sua donna che partorisce.