Ambiguità

XXIII Domenica T.O.

L’invito alla saggezza con cui il Signore accompagna il cammino del discepolo è di notevole importanza per la nostra vita. Le parole di Gesù non sono prive di una certa ambiguità e starebbero bene in bocca ad uno di quei guru che abusano della buona volontà dei propri adepti per sottometterli interamente al loro arbitrio: <Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo> (Lc 14, 26). Questa parola che potrebbe far molto comodo ad una qualunque setta, nel vangelo ha un contesto assai significativo: <una folla numerosa andava con Gesù…> (Lc 14, 25). Non bisogna dimenticare che è proprio davanti all’entusiasmo da cui è attorniato Gesù che egli mette in chiaro le condizioni della sequela: non certo per spingere a seguirlo, quanto piuttosto per aiutare a comprendere meglio quelle che sono le esigenze della sequela stessa, senza cedere a pericolosi entusiasmi.

Le due parabole risuonano come invito a calcolare e a ponderare bene la propria generosità per non diventare ridicoli. Si tratta di vedere se si hanno <i mezzi> (14, 28), ma soprattutto – e più profondamente – se si hanno le attitudini. L’apostolo Paolo caratterizza le attitudini necessarie alla sequela di Cristo proprio a partire da una questione- assai pratica – insorta tra Filemone ed Onesimo, fino a trasformarla in una parabola del modo nuovo di impostare la vita alla luce del Vangelo: <perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario> (Fil 14). La Sapienza è ancora più chiara: <Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?> (Sap 9, 13). In questo la Parola di Dio sembra assolverci dall’eccessiva preoccupazione di definire, con ridicola chiarezza, cosa sia la volontà del Signore per e sulla nostra vita.

Il Signore Gesù mette in guardia da se stessi e dalle proprie ambiguità, coloro che lo seguono in così grande numero. Il tal modo il Maestro aiuta ciascuno a fare la tara persino delle proprie buone intuizioni confrontandosi seriamente e onestamente con le “esigenze evangeliche”. Queste esigenze vengono presentate in modo forte non per spingere il discepolo a tagliare radicalmente tutte le relazioni – così necessarie – della sua vita, ma per discernere la verità e la modalità del suo desiderio. A ben guardare non sono gli altri ad essere in questione – <suo padre, la madre…> – ma i propri attaccamenti. Essi ci rivelano le paure più profonde e ancestrali che ci spingono – spesso a nostra insaputa – a proiettare, nella nostra vita di discepolanza, le nostre più inveterate schiavitù.

Essere discepoli del Signore significa accettare e abbracciare, ogni giorno, un cammino di liberazione che esige una scelta forte di libertà, la quale non permette mai di ricadere in nessuna forma di schiavitù e, men che meno, in quelle così apparentemente spirituali che sono ancora più pericolose perché più subdole. Alla luce di tutto ciò, essere discepoli significa accogliere e portare la croce della propria vita come un punto interrogativo mai definitivamente superato, un punto che rimane sempre da attraversare e da cui lasciarsi mettere profondamente in questione. Del resto, non va mai dimenticato: <Quale uomo può conoscere il volere di Dio. Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?> (Sap 9, 13).

Ambiguïté

XXIII Dimanche T.O. –

L’invitation à la sagesse par laquelle le Seigneur accompagne le chemin des disciples est d’une remarquable importance pour notre vie. Les paroles de Jésus ne sont pas exemptées d’une certaine ambiguïté et trouveraient leur place dans la bouche de l’un de ces gourous qui abusent de la bonne volonté de leurs propres adeptes pour les soumettre entièrement à leur volonté : «  Si quelqu’un vient à moi et ne m’aime pas plus que son père, sa mère, sa femme, ses fils, ses frères et sœurs et même plus que sa propre vie, il ne peut être mon disciple » ( Lc 14, 26 ). Ces paroles qui pourraient être associées à n’importe quelle secte, ont un contexte assez significatif dans l’évangile : «  une foule nombreuse suivait Jésus… » (Lc 14, 25 ). Il ne faut pas oublier que c’est justement face à l’enthousiasme qui entoure Jésus qu’il clarifie les conditions pour le suivre : non pas, bien sûr pour les repousser, mais plutôt pour aider à mieux comprendre quelles sont les exigences de la condition de disciple sans céder aux enthousiasmes dangereux.

Les deux paraboles résonnent comme une invitation à calculer et à soupeser sa propre générosité pour ne pas devenir ridicule. Il s’agit de voir si l’on a «  les moyens » ( 14, 28 ), mais surtout – et plus profondément – si l’on en a les aptitudes. L’apôtre Paul caractérise les aptitudes nécessaires pour suivre le Christ à partir d’une question – très pratique -représentée par Philémon et Onésime, pour la transformer en une parabole nouvelle à la lumière de l’Evangile : «  Afin que le bien que tu fais ne soit pas forcé, mais volontaire » ( Phi 14 ). La Sagesse est encore plus claire : «  Qui peut imaginer ce que veut le Seigneur ? » ( Sag 9, 14). En cela, la Parole de Dieu semble nous absoudre de l’excessive préoccupation de définir, par une clarté ridicule,  de ce qu’est la volonté du Seigneur pour et sur notre vie.

Le Seigneur Jésus  met en garde de soi-même et des propres ambiguïtés, ceux qui le suivent en si grand nombre. Ainsi, le Maître aide chacun à faire  la part des choses jusqu’à ses propres bonnes intuitions en les confrontant sérieusement et honnêtement aux «  exigences évangéliques ». Ces exigences sont présentées de façon forte, non pour pousser le disciple à couper toutes les relations – si nécessaires –  de sa vie, mais pour discerner la vérité et  la consistance  de son désir. A bien y regarder, ce ne sont pas les autres qui posent question – «  son père, la mère… » – mais les attachements mêmes. Ceux-ci nous révèlent les peurs les plus profondes et ancestrales qui nous poussent  – souvent à  notre insu –  à projeter, dans notre vie de disciple, nos esclavages les plus invétérés.

Être disciples du Seigneur, signifie accepter et embrasser, chaque jour, un chemin de libération qui exige un choix de liberté, qui ne permet jamais de retomber dans aucune forme d’esclavage, et moins encore, dans ces asservissements apparemment spirituels qui sont encore plus dangereux, car plus sournois. A la lumière de tout cela, être disciples, signifie accueillir et porter la croix de sa propre vie comme un point d’interrogation jamais définitivement dépassé, un point que l’on doit toujours traverser et qui doit nous remettre profondément en question. En plus, il ne faut jamais oublier : « Quel homme peut connaître la volonté de Dieu. Qui peut imaginer ce que veut le Seigneur ? » ( Sag 9, 13 ).

Sebbene

XXII settimana T.O. –

La domanda posta dai farisei ai discepoli del Signore, in realtà chiama in causa lo stesso Maestro. La provocazione suona in questi termini: <Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?> (Lc 6, 2). La risposta a questa domanda potrebbe essere tratta dalla prima lettura: <ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui> (Col 1, 22). L’apostolo Paolo proclama con solennità quello che potremmo definire lo statuto della nostra libertà che è legata al fatto di essere intimamente uniti a Cristo Signore e al suo mistero di filiazione al Padre di tutti, nello stesso tempo non dimentica, certo, di ricordare ai cristiani di Colossi come a noi la condizione fondamentale perché tutto ciò possa realizzarsi realmente: <purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo> (1, 23). A partire da queste parole di Paolo possiamo intendere tutta la forza e la carica quasi rivoluzionaria o almeno decisamente destabilizzante della parola di Cristo: <Il Figlio dell’uomo è signore del sabato> (Lc 6, 5).

In realtà l’istituzione del riposo sabbatico rappresenta il sigillo di tutta l’opera della creazione che, nelle Scritture, non è presentata come un atto di potenza soverchiante di Dio, ma come un tenerissimo gesto d’amore attraverso cui l’Altissimo partecipa e condivide la sua stessa vita con le creature e, in modo del tutto particolare, con la nostra umanità. L’istituzione del sabato alla fine dell’opera della creazione sembra essere la garanzia perché la potenza della creazione non scivoli mai in un abuso di potere di nessun tipo. Il creatore e le sue creature che si riposano sono l’icona del senso profondo della creazione che ha come fine la condivisione della gioia di poter vivere e sperare insieme senza mai presumere di poter esercitare una funzione di potenza se non nella logica della gratuità e del dono.

L’esempio che viene evocato dal Signore Gesù per giustificare i suoi discepoli riporta a Davide il quale <entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non sia lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?> (6, 4). In questo <sebbene> è racchiuso il nocciolo della sfida che il credente è chiamato ad accogliere ogni giorno nella sua vita personale e comunitaria al fine di non trasformare i doni ricevuti da Dio in catene che bloccano o almeno impoveriscono il dinamismo della vita che sta a cuore al nostro Dio e rappresenta il desiderio più vivo e più vero che il suo cuore ha nei nostri confronti. L’evocazione della figura controversa del <Figlio dell’uomo> in cui il Signore Gesù sembra identificare se stesso già prelude alla Pasqua e in certo modo già dice come il vero <sabato> è quello in cui si è capaci di cessare da ogni forma di egoismo per entrare nella logica stessa della creazione e continuarla nella propria vita: donarsi senza misura per fa crescere la vita dentro di noi e attorno a noi. Tutto ciò <sebbene> non sia sempre facile comprendere concretamente che cosa questo significa e meno ancora che cosa concretamente possa o debba significare. Ogni legge è donata a favore della libertà e della vita non per impedirla o mortificarla e questa è la grande <speranza del Vangelo> (Col 1, 23). Le parole e i gesti di Gesù invitano anche noi a prendere posto nella vita  non come essere “servili” ma da “signori”. Ogni atto di libertà trova la sua prova di autenticità nella misura in cui si rivela come un dono di liberazione.

Corpo

XXII settimana T.O. –

La solenne affermazione dell’apostolo ci porta a guardare le cose da un punto di vista più ampio: <Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono> (Col 1, 17). A partire da questa considerazione di fondo, che tocca l’essenza che sta alla base della creazione e presiede al processo di ogni autentica ricreazione, siamo chiamati a riconsiderare tutte le nostre pratiche e le nostre abitudini nel cammino spirituale. Se l’apostolo ci riporta all’essenza, il Signore Gesù ci riconduce all’essenziale: <E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi> (Lc 5, 37). Non sfugge al Signore Gesù una difficoltà che incontriamo continuamente nella nostra vita: <Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole”> (5, 39). Eppure, non bisogna mai dimenticare che se c’è un <prima> ci può essere sempre un “dopo”. Se la vita ci ha sorpreso favorevolmente fino ad oggi, sarà capace di sorprenderci ancora. Per questo non c’è bisogno di ridurre continuamente la realtà a ciò che di essa conosciamo già per aprirci, invece, a ciò che di essa potremo scoprire non solo nel senso della decadenza, ma dell’incremento e del miglioramento.

La prima diatriba del Signore Gesù con i farisei e gli scribi riguarda la pratica del digiuno quale simbolo di un atteggiamento nei confronti della vita in relazione a Dio e ai fratelli: <I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!> (Lc 5, 33). La reazione del Signore Gesù sembra, in realtà non rispondere alla provocazione, o, almeno, non lo fa in modo preciso e consequenziale, ricorrendo all’immagine dello <sposo> (5, 34) che evoca un modo di pensare e di vivere il rapporto con Dio nella linea dei profeti – in particolare Isaia ed Osea – i quali, con la loro parola e la loro esperienza personale, comunicano un modo di pensare a Dio meno legalistico e più intimo. L’apostolo Paolo ci fa sentire in modo ancora più essenziale questo respiro quando dice con accenti di commozione: <E’ piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sua quelle che stanno nei cieli> (Col 1, 19-20).

Alla preoccupazione degli scribi e dei farisei sembra seguire quella ben più ampia, profonda, intima, usata dal Signore Gesù che richiede una partecipazione e un coinvolgimento personale in cui ciascuno è chiamato a vivere in relazione a Cristo Signore come il <capo del corpo> (1, 18) in una intimità essenziale capace di riconciliare in modo così radicale da risultare una rinnovata creazione capace di rifondare, attraverso la relazione con l’Altissimo, le relazioni tra fratelli in modo non rammendato né rimandato, ma rinnovato e aperto a nuovi gusti e a nuove esperienze. Infatti, non bisogna mai dimenticare che <Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”> (Lc 5, 39).

Faticato

XXII settimana T.O. –

La parola di Simone è capace di dire tutta l’attesa del suo cuore: <Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti> (Lc 5, 5). In queste parole di colui che sarà chiamato ad essere primo tra gli apostoli senza certo essere migliore di nessuno di loro, possiamo cogliere prima di tutto una sana accettazione della realtà: Simone constata il fatto che la fatica di una notte di veglia nella speranza di pescare qualcosa non ha portato il frutto sperato, ma non incolpa nessuno di questo. Nel cuore di quest’uomo chiaramente affaticato è rimasta accesa la speranza che qualcosa possa ancora avvenire: <sulla tua parola getterò le reti>! La parola dell’apostolo Paolo nella prima lettura può essere ben applicata a Simone: <Resi forti di ogni fortezza secondo la potenza della sua gloria, per essere perseveranti e magnanimi in tutto> (Col 1, 11).

Di Simon Pietro i Vangeli non tacciono le fragilità e le paure, ma sembra che il suo cuore sia capace di una magnanimità capace di dare speranza al Signore Gesù che proprio quest’uomo <peccatore> (Lc 5, 8) possa assicurare il ministero della riconciliazione in una unità sempre rinnovata e ritrovata. Infatti, quando il Signore Gesù <lo pregò di scostarsi un poco da terra> (5, 3) Simone acconsentì a questo desiderio nonostante avesse <faticato tutta la notte> e avesse diritto ad essere un po’ arrabbiato e comunque deluso e stanco. Stando al racconto di Luca possiamo dire che la vita e la speranza si rimettono in moto gradualmente. Prima viene chiesto di <scostarsi un poco da terra>, poi addirittura di prendere <il largo> (5, 4) infine di essere addirittura <pescatore di uomini> (5, 10). L’esultazione finale della prima lettura potrebbe diventare una sorta di responsorio a ciò che avviene sulla riva del lago: <E’ lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati> (Col 1, 13-14).

Simili doni non possono certo essere trattenuti per sé soltanto, ma per loro natura esigono che siano condivisi: <Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare> (Lc 5, 7). Ogni volta che acconsentiamo a fare un piccolo passo, in realtà l’impossibile ritorna ad essere ben possibile fino a divenire capaci di <partecipare alla sorte dei santi nella luce> (Col 1, 12). A fondamento della vita della Chiesa e della sua stessa esistenza come sacramento di salvezza al cuore della storia vi è una fiducia condivisa: Simone si fida di Gesù, Gesù si fida di Simone e così ci si imbarca uno nella vita dell’altro prendendo così il <largo>. Ancora oggi la vita della Chiesa, sempre più chiamata a pensarsi a servizio di un’umanità in cammino verso la pienezza di se stessa, deve obbedire a questa logica di fiducia contagiosa a partire dalla quale se apparentemente tutto sembra restare uguale, in realtà, tutto può diventare veramente nuovo e più vivibile.

Olivo

XXII settimana T.O. –

Ci commuove la dedizione assoluta con cui il Signore Gesù si dedica al suo ministero nella piena coscienza di avere un dono da comunicare e non un privilegio di cui godere: <E’ necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato> (Lc 4, 43). Nel cuore di Cristo Signore arde il fuoco di una consapevolezza che gli permette di non perdere mai la bussola della sua missione senza mai lasciarsi imprigionare dall’inganno di avere diritto a fermarsi e, in certo modo, a godere delle sue fatiche apostoliche. Al contrario la vita del Signore Gesù è dominata da un chiaro dinamismo che non si ferma mai su se stesso, ma vive in una continua attenzione a ciò e a chi ancora può beneficiare del dono del Vangelo. L’evangelista Luca che ci fa contemplare il Verbo fatto carne sempre <in cammino> (4, 30). Non solo all’inizio alquanto drammatico del suo ministero pubblico, ma già nel seno di sua madre che si reca in fretta a rallegrare e sostenere Elisabetta come pure dopo la risurrezione quando si mette sulle tracce dei discepoli in fuga da se stessi verso Emmaus.

L’apostolo Paolo non riesce a trattenere la gioia e l’esultanza perché la corsa del Vangelo inaugurata in Cristo Signore continua nella storia dei credenti fino ad oggi: <a causa della speranza che vi attende nei cieli. Ne avete già udito l’annuncio dalla parola di verità del Vangelo che è giunto a voi. E come in tutto il mondo esso porta frutto e si sviluppa> (Col 1, 5-6). Stando alle parole di Paolo il Vangelo è e deve essere perennemente una realtà in sviluppo, la cui corsa e la cui efficacia non può arrestarsi, ma, per sua natura, si apre continuamente a nuovi bisogni mantenendo viva l’attenzione ad ogni sofferenza. Chiamati ad essere discepoli del Signore anche noi dobbiamo coltivare un dinamismo che radica nell’attenzione e si manifesta nella capacità di rimanere in cammino. Passare dalla sinagoga alla casa di Simone, dal capezzale della suocera alla porta di casa, dal deserto della preghiera alla polvere della strada… è il cammino che attende anche noi chiamati a sperimentare la stessa grazia vissuta da Paolo nel sentire Epafra <caro compagno nel ministero> (Col 1, 7).

Lo sviluppo della predicazione del Vangelo sembra essere direttamente proporzionale al suo radicamento interiore nel nostro cuore tanto che ogni ministro dovrebbe poter fare proprie le parole del salmo: <Come olivo verdeggiante nella casa di Dio> (Sal 51, 10). Al pari di ogni albero, per crescere è necessario coltivare la dimensione della profondità propria delle radici e quella delle fronde da cui si colgono i frutti. Nondimeno, come ogni albero, è pure necessario difendersi da tutto ciò che può impedire o anche solo ritardare lo sviluppo. Il Signore Gesù si comporta come un <olivo verdeggiante> che prima di tutto ritrova ogni giorno la sua linfa nel rapporto intimo con il Padre attraverso la preghiera, per poi aprirsi generosamente agli altri senza per questo perdere in libertà e generosità verso tutti. Inoltre, si difende accuratamente ed energicamente da ciò che può inquinare il cuore e la mente fino a snaturare i gesti cosicché, per quanto riguarda i demoni, <non li lasciava parlare> (Lc 4, 41). Sempre in cammino come gli alberi che pure danno l’impressione di essere assolutamente fermi!

Un uomo

XXII settimana T.O. –

Il quadro introduttivo offerto dalla liturgia di ieri ci ha fatto sostare su quelli che sono i primi passi di Gesù in mezzo alla nostra umanità che, dalla sua parola e dai suoi gesti, può sperare la gioia sempre più grande di una salvezza ritrovata. Il quadro di oggi ci riguarda più da vicino visto che ciascuno di noi è chiamato a riconoscersi, almeno in parte, nella figura di <un uomo che era posseduto da un demonio impuro> (Lc 4, 13). In due quadri che si guardano come fossero esposti l’uno di fronte all’altro, viene messo in gioco tutto il dramma della salvezza nel cui dinamismo la presenza in mezzo a noi del Verbo fatto carne interroga la nostra umanità e ci obbliga a venire allo scoperto per tutto ciò che concerne il nostro modo di esporci fino ad accogliere il dono che ci viene fatto. Il fatto che quest’uomo si metta a gridare dando voce alla disperazione che la sola presenza del Signore Gesù crea nel suo cuore è per noi motivo di riflessione e di verifica interiore: <Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!> (Lc 4, 34).

La santità intesa come pienezza di umanità che fa sperare in una pienezza di vita mette in crisi il modo di vivere o di non vivere cui sembra la nostra umanità si abitui molto più facilmente di quanto si possa immaginare e desiderare. In realtà, l’uomo posseduto accusa il Signore di qualcosa che non è assolutamente vera. Infatti, <uscì da lui, senza fargli alcun male> (4, 35). Non è vero che il Cristo sia venuto a <rovinarci>, è vero, altresì, che la sua presenza è venuta a salvarci. Nondimeno ogni esperienza di autentica salvezza comporta un’esperienza reale di cambiamento e di progresso che, non lasciandoci, nello stato cui siamo abituati può sembrarci persino un’esperienza di morte o di rovina. L’apostolo Paolo ci mette in guardia da quella sorta di inedia spirituale che rischia, quasi inconsapevolmente, di farci scivolare nella morte dell’anima. Per questo ci esorta vivamente: <Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri> (1Ts 5, 6).

Dopo averci esortato a non lasciarci andare all’inedia dello spirito, l’apostolo ci ricorda una cosa fondamentale: <Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo> (5, 9). Ciò che siamo chiamati a ricevere attraverso Cristo Signore è la <salvezza> senza mai dimenticare che ogni esperienza di salvezza, se autentica e duratura, comporta una sensazione di “rovina” di tutto ciò che rischia di essere il sistema delle nostre abitudini mortifere. Quando l’indemoniato riconosce nel Signore Gesù <il santo di Dio!> (Lc 4, 34) è come si dichiarasse una certa paura e un certo timore che questa santità si travasi nella sua vita. La risposta del Signore ci riguarda personalmente forse ben più di quanto immaginiamo a primo acchito: <Taci! Esci da lui!> (4, 35). Il primo passo, assolutamente necessario, per entrare in un dinamismo di salvezza efficace è un’opera di liberazione interiore capace di creare uno spazio di silenzio che permette la ricezione del dono rinnovato di un appello alla vita.

Tristi

XXII settimana T.O. –

La predicazione del Vangelo sembra necessariamente legata alla preoccupazione che <non siate tristi come gli altri che non hanno speranza> (1Ts 4, 13). Se questo riguarda nelle preoccupazioni dell’apostolo quanti sono morti, riguarda ancor più urgentemente coloro che sono vivi. Le parole conclusive della prima lettura: <Confortatevi dunque a vicenda con queste parole> (4, 18), possono essere applicate in modo del tutto particolare alle parole con cui il Signore Gesù inaugura il suo ministero pubblico completamente teso a tenere desta la speranza e a ravvivare continuamente la gioia di tutti: <mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore> (Lc 4, 18-19). In una parola, il Signore Gesù desidera essere in mezzo a noi e per noi animatore e sostenitore della nostra gioia riscattandoci da tutto ciò che ci rende <tristi>.

A ben pensare non è poi così facile essere persone segnate dalla gioia e liberate in modo fondato dalla tristezza. Nella vita del Signore Gesù, intessuta di parole e gesti, possiamo contemplare una sorta di cammino deciso ed esigente verso una gioia sempre più pura e più vera che non ha niente a che vedere con una sorta di immunità o di immunizzazione dal dolore, ma corrisponde ad in processo interiore fatto di intelligenza e di abbandono che permette di poter dire non solo ogni giorno, ma in ogni momento: <Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato> (4, 21). La lettura annuale del vangelo secondo Luca, che ricominciamo oggi e ci accompagnerà fino alla fine di questo anno liturgico, non lascia dubbi: il compimento passa attraverso una verità di relazione che esige una presa di posizione ben più profonda di una semplice espressione di simpatia.

Il cammino verso Gerusalemme che rappresenta il cuore e la struttura stessa di tutto il vangelo secondo Luca, sembra voler essere una pedagogia della gioia autentica che passa attraverso il dono pieno della propria vita consegnata con fiducia e amore alle mani del Padre tanto da essere messa nelle mani degli uomini. La conclusione di questo primo passo sembra essere scoraggiante poiché lo <cacciarono fuori… per gettarlo giù> (4, 29), ma, in realtà, è la speranza ad essere in viaggio poiché <egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino> (4, 30). Questo cammino del Signore che va dalla Galilea a Gerusalemme e da Gerusalemme ad Emmaus sulla cui strada i discepoli <col volto triste> (24, 18) sapranno riprendere la strada della gioia e della speranza. Lungo questi giorni di rinnovato ascolto del vangelo secondo Luca siamo chiamati a scoprire che il <figlio di Giuseppe> (4, 22) pur essendo tale è il <figlio dell’Altissimo> verso il cui <incontro> (1Ts 4, 17) tende tutta la nostra vita per essere, infine, <sempre con il Signore> liberati da ogni tristezza e rinnovati nella gioia.

Prego…

XXII Domenica T.O.

L’attitudine che il Signore Gesù ci invita ad assumere in tutti gli ambiti della nostra vita è quella di un’educazione piena di attenzione sincera all’altro. Questa educazione semplice e necessaria si esprime in una parola come quella che si usa mentre si invita qualcuno ad entrare in un ambiente o a prendere cibo: <prego…!>. In questa parola potrebbe nascondersi una semplice e persino falsa gentilezza, oppure il desiderio sincero di dare la precedenza all’altro per potergli manifestare tutta la gioia di stare con lui e di godere della sua compagnia. Siamo preoccupati del posto che occupiamo o siamo felici di ritrovarci attorno alla stessa mensa ove risulta chiaro, aldilà di tutte le apparenze, il fatto che siamo tutti uguali davanti al cibo, come davanti al mistero della vita e della morte. Per questo il Siracide esorta vivamente: <Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore> (Sir 3, 17)

La liturgia di oggi, nonostante le apparenze, non parla tanto di noi, quanto del Signore Gesù! Il versetto che introduce la pericope evangelica è di somma importanza per comprendere il resto. Siamo in giorno di <sabato> (Lc 14, 1) e il Signore Gesù viene invitato a pranzo in casa di un fariseo e tutti stanno ad osservarlo. La consuetudine vuole che ciascuno occupi il suo posto in considerazione del proprio e dell’altrui rango. Ecco perché tutti stanno ad osservare – come già in altre occasioni e in particolare in giorno di sabato – quale sarà il posto che il Signore andrà ad occupare…così da desumere quale posto voglia occupare per desumere così quale sia l’autocoscienza riguardo alla propria identità e alla propria missione. Per gli astanti è di certo assai difficile comprendere che la coscienza chiara di essere <mediatore dell’alleanza nuova> (Eb 12, 24) non ha nulla a che fare con la ricerca affannosa – e talora così patetica – di un posto d’onore che umili gli altri.

Al contrario delle aspettative e delle consuetudini, il Signore Gesù sembra restare in piedi e manifestare chiaramente di non voler occupare nessun posto! Ancora una volta, attraverso una parabola, il Maestro svela e smaschera quello che forse i suoi co-invitati si aspettano e temono: scegliere un posto troppo onorevole per doverlo vergognosamente cedere ad un altro, oppure fare di tutto per essere preferiti e onorati davanti a tutti… cosa che però non è assolutamente così certa. Inoltre, il Signore Gesù si rivolge direttamente a colui che lo ha invitato e, indirettamente, lo ringrazia, per averlo onorato di essere suo commensale e suo ospite proprio perché lo ha ritenuto alla pari degli <storpi, ciechi, zoppi…> (LC 14, 13) i quali non possono ricambiare. Quello è il posto di Gesù: tra quelli che non possono ricambiare! L’unica volta che il Signore invita a cena qualcuno è per dire che la sua vita è tradita e offerta come una burla. Sì, oggi Gesù non parla di noi, parla di se stesso e dice ad ogni uomo e donna: <prego, dopo di lei…>!

Je vous en prie…

XXII Dimanche T.O. –

L’attitude que le Seigneur Jésus nous invite à assumer dans toutes les situations de notre vie est celle d’une éducation pleine d’attention sincère envers l’autre. Cette éducation simple et nécessaire s’exprime en une parole comme celle que l’on utilise lorsque l’on invite quelqu’un à entrer dans un environnement ou à prendre un repas : «  Je vous en prie… ! ». Dans ces paroles pourrait se cacher un simple et peut-être même une fausse gentillesse, ou le désir sincère de donner la priorité à l’autre pour pouvoir lui manifester toute la joie d’être avec lui et de jouir de sa compagnie. Que nous soyons préoccupés par la place que nous occupons ou que nous soyons heureux de nous retrouver autour de la même table, le résultat est le même : au-delà de toutes les apparences, nous sommes tous égaux devant le repas comme devant le mystère de la vie et de la mort. C’est pour le Siracide nous exhorte vivement : «  Plus tu es grand, plus tu dois être humble et tu trouveras grâce devant le Seigneur » ( Sir 3, 17 ).

La liturgie de ce jour, malgré les apparences, ne parle pas tellement de nous, mais beaucoup du Seigneur Jésus ! Le verset qui introduit la péricope évangélique est très importante pour comprendre le reste. Nous sommes le jour du «  Shabbat» ( Lc 14, 1 ) et le Seigneur Jésus est invité au repas dans la maison d’un pharisien et tout le monde l’observe.  La coutume veut que chacun occupe sa place en considération de son rang et de celui de l’autre. Voilà pourquoi tous observent – comme déjà dans d’autres occasions et en particulier un jour de shabbat – quel sera la place qu’occupera le Seigneur…afin de conclure quelle place il veut occuper pour en déduire ainsi quelle conscience il a de sa propre identité et de sa propre mission. Pour l’assistance, il est certes assez difficile de comprendre que la claire conscience d’être «  médiateur de l’alliance nouvelle » ( Hé 12, 24 ) n’a rien à voir avec la recherche fébrile- et même si pathétique- d’une place d’honneur qui humilie les autres.

Au contraire des attentes et des coutumes, le Seigneur Jésus semble rester debout et manifeste clairement la volonté de n’occuper aucune place ! Une fois encore, à travers une parabole, le Maître dévoile et démasque ce que les convives attendaient et craignaient : choisir une place trop honorifique pour devoir, honteusement la céder à un autre, ou alors, tout faire pour être préféré et honoré devant tout le monde…ce qui n’est, absolument jamais le cas. De plus, le Seigneur Jésus s’adresse directement à celui qui l’a invité et, indirectement, le remercie, d’avoir eu l’honneur d’être son invité en le considérant l’égal des «  estropiés, des aveugles, des boiteux… » ( Lc 14, 13 ) qui ne peuvent  rendre la pareille. Voici la place de Jésus : parmi ceux qui ne peuvent répondre à l’invitation ! L’unique fois que le Seigneur invite quelqu’un à un repas, est pour lui dire que sa vie est trahie et offerte comme une moquerie. Oui, aujourd’hui, Jésus ne parle pas de nous, il parle de lui-même et dit à chaque homme et femme : «  je vous en prie, après vous… »