Defi

Commémoration de tous les fidèles défunts –

Commémoration de tous les fidèles défunts. – Prier pour les défunts et commémorer leur vie nous permet de faire mémoire de leur présence parmi nous au moment où ils ne peuvent plus s’imposer à notre attention. Cette pratique qui, avant d’être «  ecclésiale » est un mode distinct de toute civilisation qui s’est émancipée d’un niveau plus animal, n’est pas simplement une pratique traditionnelle de l’Église et de toute l’humanité, mais c’est un défi et une provocation. Faire mémoire des défunts, signifie, en fait, défier la mort à travers une confiance dans la vie qui devient foi dans la résurrection comme la possibilité inattendue d’une possible insurrection de l’amour. Le cri de Jacob devient une sorte de manifestation de notre conscience d’hommes et de femmes crées pour l’immortalité comprise comme une plénitude de vie dans une relation qui ne peut mourir : «  Oui, je le verrai… » ( Jb 19, 26-27 ). Ce face-à-face espéré et presque protesté par Job ne sera pas comme celui d’Adam et d’Eve au moment de leur peur et de leur expulsion du jardin d’Eden, mais, comme celui du fils cadet qui revient à la maison, la tête basse, et est pourtant accueilli avec tous les honneurs de l’amour jusqu’à devenir motif de «  fête ». Là où la mort est désignée comme une fin, notre foi la transforme au contraire en un temps intermédiaire de préparation comme nous le rappelle le prophète Isaïe lorsqu’il dit «  Le Seigneur des armées préparera pour tous les peuples, sur cette montagne, un festin de mets succulents et de viandes grasses » ( Is 25, 6 ).

Si le Seigneur est en train de préparer une plénitude de vie pour chacun de ses fils, nous pouvons nous demander dans quelle mesure et, surtout, comment, nous nous sommes préparés à la mort, non comme une interruption de la vie, mais comme un passage nécessaire de la vie. Il ne s’agit, bien sûr, pas, comme on peut le voir dans certaines représentations antiques, d’écrire un texte, d’en faire un exposé pour méditer sur l’usage fallacieux de la vie et de tant de ses aspects que nous retenons comme essentiels, et souvent même agréables. Le défi consiste à vivre pleinement  afin que la mort nous trouve vivants et non déjà morts, pour qu’elle nous trouve pleins de désirs de vie et non désabusés et fatigués ou tous les deux ensembles. Conserver la mémoire de nos bien-aimés qui nous ont précédés dans le signe de la foi et d’une vie authentique signifie faire la tare de cet «  aiguillon » ( 1 Cor 15, 56 ) qui risque de nous empoisonner jusqu’à nous tuer : il s’agit de l’aiguillon de l’ingratitude et de la superficialité.

La mémoire de notre façon de réagir à la présence des frères «  les plus petits » ( Mt 25, 40 ) près de nous et en nous, devient ainsi le critère premier qui, dans la mort, par notre vie, est une préparation et une attente d’un accomplissement qui exige le passage nécessaire par le mystère de la mort. La prière pour les défunts et notre présence sur les tombes de nos bien-aimés, devient ainsi une petite école d’humanité pour ne pas céder à l’ingratitude et la superficialité. Nous devrons être les premiers, fidèles à cette pratique, tout en n’oubliant pas de transmettre cette sagesse aux générations les plus jeunes qui risquent de vivre dans un tel oubli du mystère de la mort, jusqu’à tomber dans le piège de l’illusion.

Al plurale

Tutti i Santi –

Spesso le rappresentazioni dei Santi che ornano le nostre chiese, per quanto belle, possono talora sembrare un po’ eccessivamente distaccate dalla realtà, tanto da rendere la santità qualcosa che non ci riguarda poi così tanto. La pagina del Vangelo che accompagna questa festa e ci aiuta ad entrare in un dinamismo di annuncio e di conversione che non ha nulla di idealistico e sembra quasi metterci al riparo da ogni rischio di idealizzazione di santità. Questo realismo di santità che possiamo cogliere nella pagina delle “beatitudini” che accompagna questa solennità ci rende come allergici ad ogni mielismo angelicato. Il messaggio sembra chiaro: si è santi insieme e lo si è nella misura in cui si è radicati nella realtà della propria vita. Così la santità diventa un vero lavoro che si manifesta come frutto della saggia e appassionata mediazione non solo delle nostre qualità umane e spirituali, ma anche dei nostri limiti e delle nostre ferite: <poveri… nel pianto… perseguitati>. Ciò che fa la differenza è la coscienza di quel <grande amore> che ci permette di <essere chiamati figli di Dio>, non solo con una sorta di nominalismo vuoto ma <realmente> (1 Gv 3, 3, 1).

A partire dalle parole dell’apostolo la santità coincide con la coscienza di una figliolanza accolta che fonda la nostra speranza di diventare ciò che siamo: <Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro> (3, 3). La santità non è uno stato, ma un dinamismo che va da un <fin d’ora> (3, 2) all’attesa di una pienezza che è ancora tutta da ricevere e da scoprire con rinnovata meraviglia. La domanda del vegliardo resta sospesa in attesa di una risposta che sia capace di illuminare ogni umano cammino fino a renderlo parte della stessa pienezza divina: <Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?> (Ap 7, 13). Si tratta di passare dalla santità desiderata alla povertà offerta e di farlo rigorosamente insieme senza abdicare al proprio ineludibile contributo personale alla storia di tutti. Il messaggio delle beatitudini ci ricorda che Dio è presente non aldilà della nostra realtà quotidiana, ma dentro la nostra fatica di vivere e di convivere in un amore che sa persino donarsi nella morte.

Così la santità evangelica non è perfezione morale che riguarderebbe una élite di privilegiati, ma è l’esperienza di quella grazia di filiazione da cui tutto può sempre ripartire verso la luce come ci fa pregare la Liturgia subito dopo la comunione: <O Padre unica fonte di ogni santità, mirabile in tutti i tuoi Santi, fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa mensa eucaristica, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo>. Meglio essere in cammino e un po’ sporchi, claudicanti, feriti e talora stufi, piuttosto che fermi e immobili su noi stessi. La santità del Vangelo sporca le mani e sporca, prima di tutto, i piedi con cui siamo chiamati a fare i passi necessari non solo per sopravvivere, ma, prima di tutto, per incontrarci e incoraggiarci a vicenda. Possiamo ben dire che <Certo per essere santi basta amare, ma si tratta di amare come il Signore ci ha amati. Ed è a questa misura senza misura, che la via della santità diventa così stretta ed esigente (cfr. Mt 7, 14)>1 senza mai essere impossibile se non per quanti si pensano in modo isolato.


1. J. HAGGERTY, Magnificat 264 (Novembre 2014) p. 48.

… secondo la carne

XXX settimana T.O. –

Quando Paolo pensa ad Israele e parla del popolo delle promesse, per quanto si lasci andare ad invettive ed esortazioni, lo fa con un grande attaccamento interiore a quel popolo che gli ha trasmesso tutto ciò che gli servì alla <piena conoscenza del mistero di Dio, cioé Cristo> (Col 2, 2). Per Paolo il senso più profondo della vocazione e della missione di Israele non è la trasmissione della Legge ma, attraverso la mediazione della Torah e la lunga e complessa tradizione di interpretazione e di pratica dei precetti, rendere possibile che il Verbo apparisse nel mondo <secondo la carne> (Rm 9, 5) “di” Israele. Questo è il motivo per cui il Signore Gesù ancora una volta non esita a rivolgersi <ai dottori della Legge e ai farisei> (Lc 14, 2) per porre – secondo le migliori tradizioni delle scuole rabbiniche – una domanda alla ricerca di una risposta che fosse compatibile con le Scritture e con la vita: <È lecito o no curare di sabato?>. Troppo in fretta noi cristiani disprezziamo i nostri fratelli maggiori dimenticando tutte le sottili disquisizioni che, per secoli, nella Chiesa hanno regolato i lavori leciti e illeciti nel giorno di domenica; naturalmente arrivando a permettere tutti i lavori intellettuali, escludendo – salvo per necessità –, tutti i lavori detti servili e interpretando così la Bibbia con le categorie di Aristotele più che con quelle di Gesù Cristo.

In realtà ciò che è di scandalo per alcuni e di liberazione per altri è proprio questo <secondo la carne> (Rm 9, 3.5) che Paolo sente profondamente nelle sue viscere fino a confessare: <ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua> (9, 2). Il segno di evangelica autenticità di tutto ciò sta proprio nella sua disponibilità ad essere egli stesso <anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli> (9, 3). Ecco svelato il mistero che ha stravolto e travolto la vita di Paolo sulla via di Damasco: essere sempre e solo <a vantaggio>! Ecco rivelato il cuore dell’evangelo di nostro Signore Gesù Cristo: <lo tirerà subito fuori> (Lc 14, 5). E se ci si prende cura di un <bue o di un asino> come si potrà rimandare anche solo di un giorno la restituzione della pienezza di vita ad una persona in un corpo sano e in una mente serena per quanto è nelle nostre possibilità?! Eppure, si deve riconoscere che siamo ancora affetti dalla tentazione di “angelismo”, dimenticando che ogni volta in cui non sappiamo metterci a servizio degli altri <secondo la carne> difficilmente potremo realmente raggiungerli e soccorrerli nel loro processo di liberazione interiore.

Ma come sarà possibile tutto ciò se non impariamo a vivere noi stessi e per primi <secondo la carne>, facendoci imitatori di Cristo Signore che l’ha assunta e abitata in modo così sano e santo? Ogni volta che la carne ci turba non è il segno che stiamo diventando più sensibili alle cose spirituali, ma è il segnale di quanto facciamo fatica a vivere secondo il Vangelo di Gesù Cristo il quale <si è incarnato nel seno della Vergine Maria per noi e per la nostra salvezza>. Ogni volta che cerchiamo di risorgere con lui <secondo le scritture> abbiamo il dovere di verificare se abbiamo assunto fino in fondo la nostra carne, la nostra storia, la nostra realtà nella sua totalità per celebrare quelle nozze mistiche che sono appunto la serena congiunzione del corpo e dello spirito. La parola dell’apostolo risuona chiara: <Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa> (Ef 5, 29). Una sola conclusione è possibile: <non potevano rispondere nulla a queste parole> (Lc 14, 6).

Amati

XXX settimana T.O. –

L’apostolo Paolo sembra non avere nessun dubbio: <Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore> (Rm 8, 38-39). Queste parole possono diventare per noi l’occasione di una verifica rigorosa di quelli che sono i nostri sentimenti reali nei confronti della nostra relazione con il Signore. La domanda che risuona nella prima lettura richiede una risposta che sia assolutamente personale e, per molti aspetti, unica: <Chi ci separerà dall’amore di Cristo> (8, 35). L’apostolo Paolo cerca di dare e di condividere con i discepoli che sono a Roma la sua esperienza e la sua risposta, ma a ciascuno di noi riviene il compito di dare una risposta che sia espressione della personale persuasione di quanto la presenza di Cristo nella nostra vita possa illuminarla fino a cambiarla radicalmente. Lungo questa giornata potremo chiederci se veramente possiamo fare nostra la conclusione così bella e forte dell’apostolo: <Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati> (8, 37). La domanda si fa terribilmente chiara ed esigente: <Ci sentiamo amati?>.

A questa nostra interrogazione interiore possiamo accostare quella che sembra turbare fino a far sanguinare il cuore di Cristo Signore: <quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!> (Lc 13, 34). Sottrarsi all’amore è uno dei misteri più difficili da comprendere del nostro modo di reagire alla vita tanto da sembrare non solo il più strano, ma pure il più innaturale. L’immagine che il Signore Gesù offre di sé – quella di una chioccia che raccoglie i pulcini – è molto umile ed è magnificamente toccante. L’amore materno di Dio è tanto forte da renderlo debole e tanto grande da renderlo stolto per noi. Le scelte di Gesù non sono ispirate dalla paura, ma da una decisione incontrovertibile di amare sino alla fine: <Andate a dire a quella volpe… non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme> (13, 33).

Perché mai non rispondere dolcemente e fortemente alla Parola di Dio che da esortazione può trasformarsi nel nostro concreto vissuto in serena e fortificante contemplazione: <Dio è per noi chi sarà contro di noi?> (Rm 8, 31). L’Onnipotente, l’Eterno, il Vivente, il Padre è per noi e mai sarà contro di noi: non ci insegue, non ci tormenta, non ci spia, non ci attacca, non ci aspetta al varco, non concepisce strani e temibili disegni per sorprenderci in fallo e farci arrossire. Non solo Dio è per noi, ma è persino al nostro fianco e per quanto le nostre strade siano intricate e talora così incomprensibili persino a noi stessi, Dio è dalla nostra parte e si pone a custodia della nostra crescita accompagnandone amorevolmente i passi più indecisi e quelli più avventati. Tutto il contrario di quella notizia forse fatta arrivare a Gesù attraverso i buoni servigi dei farisei direttamente da Erode per costringerlo, magari, a togliersi dai piedi visto che era solo da poco riuscito a liberarsi del Battista.

Concorrere

XXX settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo possono e devono essere accolte come un balsamo per dare conforto e serenità in tutto ciò che concerne il nostro modo di vivere e di considerare il nostro rapporto con le esigenze del dono della fede che richiede da ciascuno di noi una capacità di esercizio nella fede che sia fattivo e concreto. Dinanzi alla tentazione dello scoraggiamento oppure di una pressione di ansia di prestazione, siamo richiamati ad una serenità di fondo su cui possiamo costruire la nostra adesione quotidiana alle vie del Vangelo: <Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno> (Rm 8, 28). Mentre siamo abituati a pensare che tutto – o quasi tutto – concorra al male, l’apostolo ci ricorda che la relazione con Dio che sta a fondamento dell’opera della creazione e dell’esperienza che noi stessi facciamo della vita è <cosa buona>.

È come se Paolo avesse bisogno di radicalizzare la speranza dei suoi interlocutori: <Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli>. Sembra che non basti ancora! Per questo l’apostolo non esita a continuare in questa sua corsa di fiducia e di speranza: <quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati> (8, 29-30). A questo punto verrebbe da dire: “E cosa mai possiamo desiderare di più di tutto questo?”. Pur nelle circostanze non sempre esaltanti e non sempre chiare della vita se non possiamo sempre contare su noi stessi, possiamo e dobbiamo sempre contare sulla forza che ci viene dall’alto: <lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza> tanto che <lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili> (8, 26).

Su questo sfondo di speranza la domanda che viene rivolta al Signore Gesù rivela tutta la sua carica maldestra: <Signore, sono pochi quelli che si salvano?> (Lc 13, 23). La risposta del Signore ci riporta alla necessità di non avere bisogno di escludere gli altri per sentirci migliori degli altri e di non presumere mai di noi stessi, poiché la logica del Regno di Dio rischia di metterci davanti a molte sorprese. Laddove si cerca di fare delle classi, il Signore conferma la speranza di Dio su cui si fonda ogni umana speranza: <Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi> (13, 29-30). Con queste parole il Signore Gesù chiarisce in consa consista la <porta stretta> (13, 24) attraverso cui bisogno sforzarsi di entrare. Si tratta di rinunciare all’idea di escludere qualcuno dalla condivisione delle gioie del Regno per imparare invece a con-correre in modo sereno e condiviso verso una gioia che sia di tutti e per tutti. 

Come ricorda ai pellegrini la porta di ingresso alla Basilica della Natività, non solo la porta del Regno è stretta, ma è anche e, soprattutto, bassa per cui bisogna inchinarsi. È necessario rimpicciolirsi per incontrare nel Verbo fatto piccolo il mistero di Dio che accoglie tutti nella sua vita. Vale per la fede ciò che vale per l’amore secondo la definizione un filosofo contemporaneo: <Amare, è desiderare di essere amati dalla persona che si ama>! 

Notte

Santi Simone e Giuda –

L’evangelista Luca pone – come spesso accade per gli avvenimenti e i momenti più significativi della vita del Signore – la scelta degli apostoli e la loro nominazione solenne nel contesto della luce del mattino come frutto di un lungo lavoro interiore vissuto al cospetto del Padre suo: <se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio> (Lc 6, 12). Inoltre, nella redazione lucana, l’elenco del nome degli apostoli è personale e non a due a due. Verso la fine dell’elenco troviamo: <Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo>. Alla congiunzione <e> cui siamo abituati negli altri sinottici, Luca sostituisce una sorta di presentazione più solitaria dei singoli apostoli. 

Nella notte della sua preghiera il Signore sembra aver incontrato il mistero personale di ciascuno di coloro che al mattino ri-chiamerà e costituirà come suoi apostoli. Ed è proprio con loro che Gesù discenderà dal monte per fermarsi <in un luogo pianeggiante> (6, 17), lo stesso ambiente in cui il Signore pronuncia le sue beatitudini cui fa seguire dei sonori <guai>. Con queste note di geografia spirituale veniamo introdotti nella celebrazione della festa odierna di due apostoli che sono l’occasione per meditare ulteriormente sul mistero della Chiesa e sul nostro essere Chiesa per il mondo. Gli apostoli vengono scelti da Gesù sul monte, ma dopo averli costituiti sono subito – si potrebbe dire immediatamente – chiamati a discendere con Gesù per mescolarsi ai bisogni della <gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente> (6, 17). Luca non si accontenta di attirare la nostra attenzione sulla quantità di persone che attendono Gesù e lo accolgono in compagnia di quanti ha appena eletti come suoi apostoli, ma ci chiarisce le motivazioni di tanta a tale attesa: <erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie> (Lc 6, 18). 

In tal modo il Vangelo ci ricorda che l’elemento apostolico per eccellenza è la sensibilità alla fame di ascolto e al bisogno di compassione dell’umanità. Nella sua preghiera notturna, prolungata e profonda, sembra che il Signore abbia posto – scavando profondissimamente – le fondamenta della sua Chiesa come mistero e ministero di salvezza. Tutti quegli elementi notturni che attraversano e caratterizzano le vita di tutte le creature sono state assunte, pregate e illuminate dal Signore stesso, e la Chiesa ha il sublime compito di continuare la sua presenza sanificate e santificante. L’elemento notturno di ciascuno di noi è parte integrante della nostra relazione con Dio e la nostra stessa testimonianza è tanto più efficace nel senso evangelico del termine nella misura in cui è capace di integrare e di far integrare il lato oscuro e più fragile della nostra esistenza. Ben lo dice il salmo: <Il giorno al giorno ne affida il racconto, e la notte alla notte ne trasmette notizia> (Sal 18, 3). Per questo le parole dell’apostolo Paolo sono una realtà e riguardano ogni uomo e donna che nella Chiesa si sente a casa: <voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio> (Ef 2, 19).

Liberati

XXX settimana T.O. –

Nel vangelo di quest’oggi la simbologia numerica assume un significato particolarmente importante con una rilevanza speciale. Subito l’evangelista Luca attira la nostra attenzione su <una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni> e aggiunge alcuni particolari per darci un quadro il più possibile completo ed esaustivo della situazione: <era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta> (Lc 13, 11). Il numero <diciotto> non è altro che “tre volte sei” e nell’Apocalisse questa cifra sarà quella che indica il Satana (Ap 13, 18) che si mostra sempre più, acerrimo nemico dell’umanità chiamata a sperimentare in Cristo Gesù la pienezza della salvezza, che è sempre pienezza di vita. Davanti a questa donna che non riesce a passare dal sei al sette, ossia dalla quasi pienezza alla pura pienezza della relazione con Dio, che le permetterebbe di essere interamente e integralmente una creatura, il Signore Gesù sente la necessità di farsi carico del suo cammino e per questo la chiama a sé senza che ella gli chieda nulla: <Donna, sei liberata dalla tua malattia> (Lc 13, 12). Il modo con cui Gesù la chiama – <donna> – è rimando al mistero di tutta l’umanità (cfr. Gv 19, 26) – chiamata a ritrovare la pienezza della propria identità di relazione a Dio secondo quanto l’apostolo Paolo esprime con l’immagine dell’essere <figli di Dio> (Rm 8, 14).

Ben diversa è la reazione del capo della sinagoga che si lamenta con la folla e disapprova così indirettamente il modo di agire del Signore Gesù: <Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato> (Lc 13, 14). Per il capo della sinagoga la guarigione è una sorta di opera che non è degna di essere compiuta nel giorno di sabato, mentre sembra che per il Signore Gesù proprio il giorno di sabato rende più urgente di dare a questa donna la possibilità di guardare finalmente verso il cielo potendo finalmente <stare diritta> (13, 11). Il settimo giorno è quello in cui il riposo di Dio diventa un dono di gioia per ogni uomo e donna chiamati a partecipare alla soddisfazione del Creatore. È come se questa donna fosse stata legata per sei volte sei anni a uno stadio della propria vita di incompletezza senza mai poter raggiungere la pienezza del settimo giorno. È come se il senso dell’esistenza non potesse mai giungere a maturità, ma ricominciasse continuamente il proprio cammino senza giungere al fine della pace e del riposo.

Spesso la nostra umanità si trova nella condizione di questa donna in cui si rispecchia lo stato che Paolo definisce come quello di <debitori> (Rm 8, 12) mentre siamo realmente <figli adottivi> poiché non abbiamo <ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura> (8, 15). Davanti alla reazione di questo capo della sinagoga che sembra voler far ricadere nella paura la gente quasi per timore che si illuda di poter essere guarita, il Signore dice parole molto forti: <E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame in giorno di sabato?> (Lc 13, 16). La risposta a questa domanda non si fa attendere: <se siamo figli> perché dovremmo essere curvi e rimandare la gioia della pienezza della vita, perché non dovremmo passare dal sei dell’incompletezza al sette della pienezza? Questo vale per noi stessi, ma vale altresì per tutti!

Non desiste

XXX Domenica T.O.

Continua la catechesi del Signore Gesù sulla preghiera e, all’immagine della vedova che si contrappone al giudice iniquo, oggi si affianca un altro contrasto: quello del fariseo e del pubblicano. La liturgia bizantina dedica la prima domenica del Tridion – domenica che prepara alla Grande Quaresima – proprio alla contemplazione di queste due figure nelle quali, ogni fedele, è chiamato a specchiarsi per fare il punto sulla propria disponibilità alla conversione. Il primo passo di ogni serio cammino di conversione non può che essere la coscienza di averne realmente bisogno: <Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”> (Lc 18, 13). Così fa pregare la liturgia bizantina cercando di preparare il cuore dei fedeli al combattimento spirituale della Quaresima: <Con un animo umile, il pubblicano, gemendo, trovò propizio il Signore e fu salvato, ma decadde paurosamente dalla giustizia il fariseo dalla lingua magniloquente. Fuggiamo o fedeli, la boria dei propositi del fariseo e i suoi titoli di purezza, emulando rettamente l’umiltà e i sentimenti del pubblicano che hanno ottenuto misericordia>1.

Nella seconda lettura di questa domenica è l’apostolo Paolo che si fa esempio per ciascuno di noi e, in un certo senso, ci conferma nella speranza che anche il nostro piccolo o grande fariseo interiore possa realmente non solo convertirsi, ma trasformare lo zelo dell’auto-esaltazione in zelo di servizio e di amore fino a poter dire: <Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede> (2Tm 4, 7). Ciò che rende possibile per ciascuno di vivere fino in fondo – e pienamente – il proprio cammino fino a giungere a meritare la <corona> (4, 8), è ciò che il Siracide ci rammenta come principio ordinatore della relazione tra la nostra umanità e il nostro Creatore: <Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone> (Sir 35, 15). Questa parola del Siracide ci aiuta a comprendere in cosa consista il vero dramma del fariseo. A furia di autocertificarsi ci si mette al posto di Dio fino a guardare gli altri come se si fosse al posto che compete solo all’Altissimo: <… e neppure come questo pubblicano> (Lc 18, 11).

Paolo ci ricorda, non solo con la parola, ma prima di tutto con la testimonianza della sua vita, che è possibile lasciare emergere in noi la figura del pubblicano che siamo a dispetto del fariseo che cerca di prendere sempre tutta la scena. La preghiera umile <non si quieta> e <non desiste – finché l’Altissimo non sia intervenuto> (Sir 35, 21) – dal ricomporre le giuste proporzioni del nostro modo di considerare noi stessi imparando che non possiamo in nessuno modo farci giudici degli altri. Come ci ricorda il Signore Gesù: ciascuno può fare l’esperienza di essere <giustificato> (Lc 18, 14) solo nella misura in cui riconosce di non essere giusto, ma di essere amato e perdonato. Per questo la preghiera del povero <attraversa le nubi> e rende capaci di guardare e di lasciarsi guardare nella limpida luce divina.


1. Anthologhion, II, p. 397.

N’abandonne pas

XXX Dimanche T.O. –

La catéchèse du Seigneur Jésus sur la prière continue et, à l’image de la veuve qui s’oppose au juge inéquitable, s’ajoute aujourd’hui un autre contraste : celui du pharisien et du publicain. La liturgie byzantine dédie le premier dimanche du Triduum – dimanche qui prépare au Grand Carême –  justement à la contemplation de ces deux figures dans lesquelles, chaque fidèle, est appelé à se mirer pour faire le point sur sa propre disponibilité à la conversion. Le premier pas de tout chemin sérieux de conversion ne peut qu’être la conscience d’en avoir réellement besoin : «  Le publicain, au contraire, en se tenant à distance n’osa même pas lever les yeux vers le ciel, mais se battait la coulpe en disant : «  O Dieu, aie pitié de moi pécheur » ( Lc 18, 13 ). La liturgie byzantine prie de même en essayant de prépare le coeur des fidèles au combat spirituel du Carême : «  Avec une âme humble, le publicain, en gémissant, trouva le Seigneur favorable, et fut sauvé, mais le pharisien transforme de façon inquiétante la justice par ses paroles grandiloquentes. Fuyons ô fidèles, les propos arrogants du pharisien et ses titres de pureté  qui imitent à juste titre l’unité et les sentiments du publicain qui  ont obtenu miséricorde »1

Dans la seconde lecture de ce dimanche, c’est l’apôtre Paul qui devient un exemple pour chacun de nous, et, dans un certain sens, nous redonne confiance afin que notre petit ou grand pharisien intérieur puisse non seulement se convertir réellement, mais transformer le zèle de l’auto- exaltation en zèle de service et d’amour jusqu’à pouvoir dire : «  j’ai mené le bon combat, j’ai terminé la course, j’ai conservé la foi » ( 2 Th 4, 7). Ce qui rend chacun de nous capables de vivre de fond en comble – et pleinement – son propre chemin jusqu’à  rejoindre et mériter la «  couronne »  ( 4, 8 )   c’est ce que le Siracide nous rappelle comme principe premier  de la relation avec notre humanité et notre Créateur : «  Le Seigneur est juge et il n’ a aucun égard au rang des personnes » ( Sir  35, 15 ). Cette parole du Siracide nous aide à comprendre en quoi consiste le vrai drame du pharisien. A  force d’auto-certification, il se met à la place de Dieu jusqu’à regarder les autres comme s’il était à la place que seul le Très-Haut détient : «  …ni comme ce publicain » ( Lc 18, 11 ).

Paul nous rappelle, non seulement par la parole, mais avant tout par le témoignage de sa vie, qu’il est possible de laisser émerger en nous la figure du publicain que nous sommes au contraire du pharisien qui cherche toujours à occuper toute la scène. La prière humble « ne sera pas consolée » et « n’abandonnera pas » – tant que le Très-Haut n’est pas intervenu » ( Sir 35, 21 ) – pour recomposer les bonnes proportions de notre façon de nous considérer en apprenant que nous ne pouvons en aucune façon nous faire les juges des autres. Comme nous le rappelle le Seigneur Jésus : chacun peut faire l’expérience d’être «  justifié » ( Lc 18, 14 )  seulement dans la mesure où il reconnaît de ne pas être juste, mais d’être aimé et pardonné. Voici pourquoi la prière du pauvre «  pénétrera les nues » et rend capables de regarder et de se laisser regarder dans la limpide lumière divine.


1. Anthologhion , II, p.397 .

Carne

XXIX settimana T.O. –

Per ben otto volte compare nella prima lettura di quest’oggi il termine <carne> che <tende alla morte> (Rm 8, 6). L’apostolo mette in chiara evidenza un conflitto tra carne e Spirito <dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi> (8, 9). In questo dinamismo di comunicazione di grazia tra l’energia divina e la nostra carne siamo chiamati a diventare sempre di più un <corpo> (8, 10) in cui si manifesti il più pienamente possibile il dono di partecipazione alla stessa vita di Dio. Come spiega un filosofo contemporaneo: <La carne la cui realtà è finita presenta due caratteri correlativi. Da una parte, le impressioni di cui è costituita sono tonalità affettive di ordine negativo, quale il malessere legato al bisogno, l’insoddisfazione, il desiderio e le molteplici forme e sfumature del dolore e della sofferenza di cui la carne è il luogo principale di esperienza. In tutte queste tonalità, il loro tenore sofferente e spiacevole esprime il senso di mancanza fondamentale che riguarda la carne in quanto essa è incapace di essere sufficiente a se stessa. Ma vi è pure un secondo tratto proprio ad ogni carne, il suo dinamismo attraverso cui si sforza di trasformare il malessere nel benessere di un desiderio provvisoriamente colmato>1.

Di questo dinamismo è garante il nostro rapporto con il mistero di Cristo Signore: <E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi> (Rm 8, 11). Nel Vangelo il Signore Gesù ci ricorda che questo processo interiore di crescita e di conformazione esige profonda e radicale attenzione e non può essere mai per così dire “liquidato” con un giudizio che si lasci completamente conquistare dalle apparenze e dalle esteriorità. Per ben due volte, il Signore Gesù dice energicamente “no” alla logica “carnale” dei suoi interlocutori, i quali non riescono a vedere le persone che sono coinvolte e segnate dagli avvenimenti di cui parlano: <No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo> (Lc 13, 5). La parabola apre il cuore e lo sguardo su un modo diverso di considerare e di giudicare che implica sempre la disponibilità a coinvolgersi in prima persona come l’anonimo contadino in cui si nasconde il volto e l’attitudine di Cristo stesso: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e vi avrò messo il concime> (13, 8). Potremmo dire che la carne si fa corpo in cui si manifesta l’opera dello Spirito di Dio che anima e divinizza la nostra vita, proprio nella misura in cui invece di accontentarsi di guardare e di giudicare, accetta di coinvolgersi e di rischiare in prima persona. Come discepoli siamo così chiamati, ogni giorno, a prendere sempre più coscienza di questa presenza dello Spirito che è come la terra per un albero: non è un’eccezione o una realtà passeggera, bensì è l’humus di cui viviamo tanto che la sua azione va continuamente ravvivata e sempre meglio accolta e custodita.


1. M. HENRY, Paroles du Christ, Seuil, Paris 2002, pp. 8-9.