Perché?

XXIII settimana T.O. –

La domanda che il Signore Gesù lancia come sfida è una questione dolorosamente e perennemente aperta per tutta la vita: <Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?> (Lc 6, 46). Lungi da noi cercare di dare una risposta a questa domanda, ammassando semplicemente meriti e trasformando la nostra vita di discepoli in un’opera di beneficenza. Persino tanta beneficenza può nascondere un vuoto da riempire piuttosto che essere l’espressione autentica di un sentire profondo che diventa l’identità della nostra vita. Essere discepoli significa prima di tutto sprofondarsi letteralmente nell’ascolto e lasciare che le radici della propria vita raggiugano la sorgente che scaturisce dalla roccia e che non dipende dal tempo e dalle stagioni, ma rimane perennemente viva. Allora saremo <albero buono> (Lc 6, 43) e porteremo nel nostro cuore un vero <buon tesoro> (6, 45). Come ci ricorda l’apostolo ciò che fa la differenza è il riferimento della nostra vita: <Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori> (1Tm 1, 15) e lo fa con <misericordia> e <magnanimità> (1, 16).

Questo atteggiamento divino nei confronti di ciascuno di noi ci permette una coerenza altrimenti impossibile tanto che l’albero produce i suoi frutti, la casa dalle salde fondamenta resiste a tutte le intemperie e il Maestro genera dei discepoli che sono l’incarnazione della sua parola profonda e autorevole. Alla luce di questa parola che scuote le fondamenta della nostra vita perché ci interroga possiamo dire che tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare, ma il cuore. Il Signore Gesù apre per ciascuno un cammino di chiarezza interiore impossibile senza un serio impegno di chiarificazione: se siamo puri nel cuore lo saremo anche negli atti che il cuore ci ispirerà; se Dio non solo è di casa sulle nostre labbra, ma è l’ospite interiore più amato e accolto, allora le nostre parole saranno un riflesso della sua presenza.

Tra le prospettive possibili e le molteplici bellezze della parabola che la Liturgia ci offre possiamo sottolineare che una casa non è solo un luogo per se stessi, ma normalmente è un luogo condiviso anche quando non fosse ambito di quotidiana convivenza. Allora è molto bello fare memoria del passo che abbiamo ascoltato ieri circa la spinosa questione della pagliuzza e della trave. Un piccolo raccontino può aiutare a cogliere un nesso non immediato tra queste due parabole. <Due uomini dopo aver ascoltato la parabola della trave e della pagliuzza ne furono molto toccati. Allora uno di loro scardinò dal suo occhio la trave e, subito dopo, aiutò con la più grande delicatezza di questo mondo il suo amico a togliere dal suo una piccola pagliuzza. Finalmente ambedue ci videro bene e chiaramente e si chiesero cosa farne della pagliuzza e della trave. Decisero di costruire insieme una casa: la trave servì da struttura e la pagliuzza da copertura del tetto. Le pietre della muta comprensione furono cementate con la carità e le occasioni mancante nel reciproco amore furono trasformate da buchi in finestre da cui il sole della misericordia e del perdono poteva inondare e rallegrare l’interno della casa. Quando l’uragano si abbatté su quella casa essa non cadde perché era costruita bene>.

Ignoranza

XXIII settimana T.O. –

La confessione di Paolo apre il cuore alla speranza di poter uscire dal circolo vizioso dell’ipocrisia che, normalmente, non è altro che un modo di affrontare l’esigente sfida di riconoscere e di accogliere la propria debolezza e vulnerabilità: <Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù> (1Tm 1, 13-14). L’esperienza di Paolo è un reale cammino di purificazione interiore, un cammino che ha dovuto passare  attraverso una vera destrutturazione della propria immagine. Questa destrutturazione sarebbe stata impossibile senza una pericolosa caduta dal cavallo della propria superbia spirituale. Tutti ricordiamo il particolare narrato dagli Atti degli Apostoli secondo cui, la visione della luce divina, unita all’ascolto di una voce – quella di Gesù che si identifica con i suoi fratelli perseguitati – coincide con una cecità che dura per ben tre giorni. Solo nel momento in cui Paolo sperimenta e riconosce la sua cecità, potrà diventare veramente una guida per i suoi fratelli, non senza prima aver accettato di lasciarsi fraternamente guidare e illuminare da Anania.

Solo chi si conosce può avanzare nel cammino della vita e far avanzare gli altri offrendosi non tanto come guida, ma come compagno di cordata, attento prima di tutto al proprio passo e vigilando sul sereno cammino dei propri fratelli. Il segreto di una cordata che scala una montagna sta proprio nel fatto di avere una fiducia reciproca assoluta che si basa su un patto di solidarietà in base al quale, la propria prudenza e la propria perizia, sono il primo passo per la sicurezza e l’incolumità dell’altro. Perché una vetta sia raggiunta, insieme e felicemente, è necessario legarsi profondamente attorno al desiderio di raggiungere la stessa meta e nella capacità non solo di unire le proprie forze, ma anche di tenere presente le proprie debolezze cercando, in tutti i modi, di non farle diventare dei punti scoperti di vulnerabilità. Al contrario, un eccessivo amor proprio travia il modo di vedere e di valutare la realtà, tanto da mettere in pericolo la propria vita e quella degli altri.

La domanda posta dal Signore Gesù ai suoi discepoli non va accolta come un atto di sfiducia nelle nostre possibilità, ma come un avvertimento capace di metterci al riparo da errori di valutazione che possono porre,  noi stessi e gli altri, in situazione difficili non solo da gestire, ma da cui talora diventa impossibile uscire: <Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?> (Lc 6, 39). La parola del Signore non si ferma qui: <Un discepolo non è più del maestro, ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro> (6, 40). La differenza sta proprio nel grado di consapevolezza del lungo cammino che è stato necessario per ciascuno di noi, un cammino che non è mai finito! e che ci rende capaci non solo di comprendere, ma pure di solidarizzare con quello che è necessario agli altri. Il vero problema non è se si tratti di una <trave> o di <una pagliuzza> (6, 42), ma che si abbia uno sguardo giusto su se stessi che ci permetta di avere uno sguardo attento e delicato verso gli altri. Chi conosce personalmente la fatica della purificazione interiore non può che comprendere quanto, questo processo, possa essere duro anche per il proprio fratello tanto da testimoniare non la propria superiorità, bensì la gioia di essere stato accolto: <Rendo grazie a colui che mi ha reso forte> (1Tm 1, 12). 

Il modo perfetto

XXIII settimana T.O. –

Possiamo prendere in prestito le parole dell’apostolo Paolo per riprendere quelle così esigenti che il Signore Gesù ci rivolge, ancora una volta, nel suo Vangelo. Paolo continuando la sua esortazione ardente ai cristiani di Colossi arriva a dire con tutta semplicità ed efficacia: <Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto> (Col 3, 14). Se rileggiamo il testo della prima lettura e lo mettiamo in relazione alle parole infuocate del Vangelo possiamo veramente dire che ci viene posta innanzi la sfida, difficile e appassionante, di camminare ogni giorni per conformare la nostra vita a quello che potremmo definire “il modo perfetto”. Se ci lasciamo guidare dal modo di procedere sia di Paolo che del Signore Gesù, non ci resta che riconoscere come di <perfetto>, nella nostra vita come pure in quella degli altri, c’è ben poco. Non ci sono dubbi se l’unica via resta quella indicata con queste parole: <sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro> (3, 13).

Il Signore Gesù è ancora più “spietato” con i suoi discepoli, tra cui desideriamo essere annoverati e, si potrebbe persino dire, lo fa a più livelli. Prima di tutto la parola del Signore è esemplare: <E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro> (Lc 6, 31). In questo modo il Maestro stronca, alla radice, la tendenza così naturale cui fa riferimento l’apostolo: <se qualcuno avesse di che lamentarsi, nei riguardi di un altro> (Col 3, 13). All’istinto di immaginare fino a recriminare a partire da quello che l’altro avrebbe o non avrebbe dovuto fare nei nostri confronti bisogna opporre la scelta di esaminarci, attentamente e quasi severamente, su <come> avremmo desiderato si comportasse il fratello con cui siamo in conflitto o ci ha feriti. A pensarci bene il primo, forse il più importante, elemento di un simile modo di reagire è il fatto di doversi rendere conto che non sempre è facile trovare il <come> che sia soddisfacente per tutti e sicuro per ognuno. Prendere coscienza della fatica della carità che è prima di tutto la nostra fatica nella carità smorza le amarezze a attutisce le aspettative fino a dissolvere molte delle illusioni che ci facciamo su ciò che gli altri ci possono o ci devono dare. Così <il modo perfetto> di Paolo si invera nella prescrizione evangelica che sembra, fondamentalmente, avere a cuore di mettere in ordine la sequenza e la gerarchia: <Date e vi sarà dato…> (Lc 6, 38) … il resto verrà.

Davanti ad esigenze non certo facili l’apostolo Paolo da anche un consiglio che può sorprendere: <istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori> (Col 1, 16). Un ricordo mi sembra poter aiutare a comprendere questa parola. Tempi fa ero in Africa e rientravo in città dal monastero per riprendere il mio aereo. Le difficoltà della strada, tra buche e polverone, mi erano già note. Ma ogni tanto si incontravano auto, o bus o camion in panne con tutto ciò che questo comporta. Una pena per loro e un po’ di vergogna per me che viaggiavo in modo non comodo, ma mille volte più comodo. A un certo punto tre giovani ci fanno segno di fermarci e ci chiedono di salire sul retro dell’auto per andare a soccorrere qualcuno la cui auto si era rotta durante il viaggio. Le prospettive di questi giovani non erano certe rosee e penso ci fossero tutti i motivi per essere arrabbiati o almeno scoraggiati. Senonché dal retro si è levato l’inizio di un canto che ben presto si è trasformato in un vero concerto. Quei ragazzi per prima cosa si sono messi a cantare, quasi per raccogliere le forze e comunque non perdere il contatto con l’interezza della vita. Arrivati al punto in cui si trovava l’auto… in realtà c’era veramente poco da cantare, almeno a partire dai miei parametri. Chissà, forse prima di lanciarsi nella difficile opera del perdonare e del sopportare, sarà meglio cominciare a cantare… il resto verrà e sarà: <una misura buona, pigiata, colma e traboccante> (Lc 6, 38).

Sguardo

XXIII settimana T.O. –

L’esortazione dell’apostolo Paolo si fa vibrante e assume un tono quasi di urgenza. Vi è un processo in atto nella nostra vita di discepoli che non solo non va arrestato, ma nemmeno bisogna in alcun modo ritardare. L’apostolo riassume questo cammino ineludibile e necessario alla vita di ogni credente con una sorta di rammemorazione: <vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato> (Col 3, 9-10). Davanti alla bellezza esigente di un simile compito, la domanda sorge spontanea dal nostro cuore: <Come riuscire a dedicare tutte le nostre migliori energie a questo compito ineludibile di trasformazione interiore così da recuperare nella nostra vita e per la nostra vita l’immagine divina impressa nel più profondo della nostra umanità e che, pure, talora sembra così lontana dal nostro modo concreto di sentire e di vivere la nostra umanità?>.

Possiamo cogliere la risposta a questa domanda fondamentale negli <occhi> del Signore Gesù che si levano <verso i suoi discepoli> (Lc 6, 20) accendendo nei loro cuori la voglia di rimettersi ogni mattina alla sua sequela: <Beati voi, poveri… Ma guai a voi ricchi>! La versione lucana del testo più famoso di Matteo, ha il pregio di farci sentire in modo ancora più forte l’urgenza di un cammino di conversione che comincia e ricomincia ogni mattina con una sorta di esposizione. Si tratta, infatti, di esporre continuamente la nostra maniera di vivere allo sguardo di Cristo per lasciarci trasformare fino a rinunciare a tutto ciò che in noi può fare da ostacolo alla sua grazia. L’apostolo riprende i cataloghi dei vizi e delle virtù in voga ai suoi tempi ed esorta vivamente: <Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria> (Col 3, 5).

Il Signore Gesù ci indica la via regale perché questo processo di intima ed efficace trasformazione possa realmente compiersi nel cuore di tutti i suoi discepoli, non esclusi e primi fra tutti, coloro che ha appena chiamato ed eletto come <apostoli>. Il cammino è quello delle beatitudini che per Luca comprende la memoria del fatto che se si resta fuori da questo cammino tutto può diventare più complicato poiché ci si ritroverebbe nella logica della menzogna con se stessi e con gli altri. Non si tratta certo di canonizzare la miseria, ma di ricordare al cuore di tutti che il modo autentico di porsi nella vita è quello del povero che non pretende, ma attende per cui <rivolgete il pensiero alle cose di lassù> (Col 3, 2) per comprendere meglio e usare al meglio <quelle della terra>. Potremo leggere le beatitudini nello sguardo di Gesù prima di tutto alla cui luce potremo dare una nuova luminosità al nostro stesso sguardo attraverso cui saremo capaci di rivelare il nostro cuore. Normalmente si levano gli occhi verso il cielo – in atteggiamento sacerdotale – invece il Signore alza gli occhi verso i suoi discepoli manifestando così di essersi messo al di sotto di loro fino a riconoscere nei più poveri e nei più piccoli il luogo autentico della benedizione e della rivelazione dell’<uomo nuovo> di cui egli è l’archetipo. Non siamo chiamati a diventare certo la copia di nessuno, nemmeno di Gesù di Nazaret, ma la sua parola e i suoi gesti ci aiutano a camminare senza deviare verso il comodo e la superficialità.

Guariva tutti

XXIII settimana T.O. –

Se mettiamo in relazione stretta il primo e l’ultimo versetto del Vangelo di quest’oggi possiamo sentire con più forza il messaggio di liberazione e di coinvolgimento di cui siamo chiamati ad essere parte integrante. Il primo accenno riguarda la persona del Signore Gesù nella sua più profonda intimità di relazione al Padre che non è mai una forma di isolamento elitario e intimistico, ma diventa la fucina ardente in cui si forgiano i mezzi della nostra salvezza: <Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio> (Lc 6, 12). La conclusione del testo ci porta decisamente non solo <in un luogo pianeggiante> (6, 17), ma al cuore brulicante di necessità e di bisogni di una grande <folla> che <cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti> (6, 19). Se lasciamo interagire questi due versetti come fossero pietre focaie da cui sprigiona la scintilla necessaria ad assicurare la vita, possiamo dire che il frutto della preghiera del Signore Gesù è <una forza che guariva tutti>!

Tra questi due versetti si spalmano, per così dire, due racconti: il primo riguarda l’istituzione del gruppo dei Dodici, e il secondo rammenta, ancora una volta, la compassione con cui il Signore Gesù accompagna il cammino di tanta <gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone> (6, 17). A questo punto possiamo fermarci per un momento di rendimento di grazie e di lode facendo nostre le parole dell’apostolo Paolo: <Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi> (Col 2, 13, 14). Di questo mistero di compassione e di perdono, su cui si basa il nostro essenziale e irrinunciabile cammino di purificazione, i primi ad esserne beneficiari sono proprio gli apostoli.

L’elenco preciso, solenne, circostanziato fino ad essere lucido del nome – più profondamente della realtà – degli apostoli, termina in modo assai allarmante: <e Giuda Iscariota, che divenne il traditore> (Lc 6, 16). Si potrebbe dire che gli apostoli vengono citati, nominalmente, prima della folla cui il Signore offre il servizio della guarigione, non perché i discepoli associati in modo unico non abbiano bisogno di essere guariti e salvati, ma perché ne fanno un’esperienza talmente forte ed efficace da potere così farsi ministri e canali di quella medesima salvezza che passa sempre attraverso il perdono. La grazia che riceviamo diventa così un motivo in più per esaminare con attenzione lucida che cosa stiamo diventando… per non fare la fine di Giuda! Perché questo non avvenga, l’apostolo Paolo sembra indicarci una sorta di antidoto per evitare di essere avvelenati da ciò che, invece, ci viene dato per essere più facilmente salvati, si intende la vicinanza discepolare a Cristo Signore. Ecco, dunque, le parole di Paolo: <Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati dalla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo> (Col 2, 8). Che sia questa una spiegazione per capire come Giuda <divenne il traditore>? In ogni modo non dimentichiamo che, qualsiasi veleno abiti nel nostro cuore, il Signore Gesù <guariva tutti> e continua a farlo… se lo lasciamo fare!

Preludio

Natività di Maria –

La festa della Natività della Madre di Dio è una sorta di grande preludio alla gioia della natività del Signore. Fare memoria della natività di Maria non è semplicemente un atto di omaggio alla madre del Signore, ma è una rinnovata occasione per prendere coscienza che la nostra stessa vita di discepoli è chiamata a diventare un preludio e un’intima preparazione al radicarsi del Verbo attraverso l’ospitalità della nostra carne nella storia della nostra umanità. Le parole del profeta Michea ci portano direttamente al cuore del mistero di questa festa: <così piccola> (Mi 5, 1). Il profeta parla di Betlemme la città di Davide ove il più piccolo dei figli di Jesse sarà unto come re di Israele. A Betlemme, Maria dovrà recarsi per mettere al mondo il Figlio dell’Altissimo in un mistero di piccolezza che fa la differenza da tutte le altre attese messianiche unte di grandezza e di maestà. Tutto ciò non riguarda solo Maria, ma ciascuno di noi nella misura in cui vogliamo essere discepoli di Cristo.

L’apostolo Paolo ce lo ricorda con accenti forti: <noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno> (Rm 8, 28). Essere creati fa tutt’uno con l’essere chiamati e il sentirsi chiamati significa fare della propria vita una culla in cui il Verbo ancora si possa fare carne per manifestare al mondo il disegno amoroso di cui ogni uomo e ogni donna fa parte. La nascita della Vergine Maria rimanda ciascuno di noi a meditare sulla propria nascita e su ogni nascita: quando ci sporgiamo su una culla dobbiamo aprirci alla sorpresa di una vita che è una traccia nella storia della stessa vita di Dio.

Quella della Liturgia è una felice intuizione con la scelta di leggere l’elenco delle nascite a rappresentare i momenti in cui la creatività di Dio si insinua, in modo discreto ma decisivo, dentro le pieghe della storia. In ogni nascita umana si manifesta una forza straordinaria, incontenibile: il miracolo della vita si impone contro qualsiasi resistenza e difficoltà. Proprio in virtù della sua piccolezza, il nascituro è capace di afferrare la vita come diritto che gli spetta, come promessa che lo attende. Una speciale presenza di Dio accompagna il momento in cui una vita umana viene alla luce. Naturalmente tutto ciò risulta particolarmente vero per la nascita di Maria, la «madre» (Mt 1,18) del Signore. Come scrive Andrea di Creta: «Questo infatti è il giorno in cui il Creatore dell’universo ha costruito il suo tempio, oggi il giorno in cui, per un progetto stupendo, la creatura diventa la dimora prescelta del Creatore». Maria viene scelta da Dio per diventare «partecipe della radice» (Rm 11,17) santa, «dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16). «Per opera dello Spirito Santo» (1,18) questa sua umanità, ben radicata nella storia di Israele, diviene il luogo in cui si adempie «ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta» (1,22): si compie il mistero del «Dio con noi» (1,23).

La vicenda di Maria, il fiorire della sua umile esistenza, ci ricorda quale gioia oggi ci è lecito celebrare. Siamo anche noi umanità piccola, gettata in un fiume di storia che ci precede e ci sospinge. Ogni uomo e ogni donna che viene al mondo è un minuscolo ramo innestato – senza alcun preavviso – sul più grande tronco della generazione umana. Eppure, proprio dentro questo impasto di piccolezza e ordinarietà, germina qualcosa di unico e grande, perché ogni nascita è chiamata a realizzare uno «stupendo progetto», un frutto buono e gradito a Dio, che rimane fino a vita eterna. Questa fecondità viene «prima» (1,18) di ogni nostra pianificazione e di ogni nostra paura, anticipa qualsiasi successo o fallimento possiamo sperimentare. È un seme che a suo tempo «sarà grande» e saprà dilatarsi «fino agli estremi confini della terra» (Mic 4,3), che invano cerchiamo di raggiungere con le nostre forze.

Ambiguità

XXIII Domenica T.O.

L’invito alla saggezza con cui il Signore accompagna il cammino del discepolo è di notevole importanza per la nostra vita. Le parole di Gesù non sono prive di una certa ambiguità e starebbero bene in bocca ad uno di quei guru che abusano della buona volontà dei propri adepti per sottometterli interamente al loro arbitrio: <Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo> (Lc 14, 26). Questa parola che potrebbe far molto comodo ad una qualunque setta, nel vangelo ha un contesto assai significativo: <una folla numerosa andava con Gesù…> (Lc 14, 25). Non bisogna dimenticare che è proprio davanti all’entusiasmo da cui è attorniato Gesù che egli mette in chiaro le condizioni della sequela: non certo per spingere a seguirlo, quanto piuttosto per aiutare a comprendere meglio quelle che sono le esigenze della sequela stessa, senza cedere a pericolosi entusiasmi.

Le due parabole risuonano come invito a calcolare e a ponderare bene la propria generosità per non diventare ridicoli. Si tratta di vedere se si hanno <i mezzi> (14, 28), ma soprattutto – e più profondamente – se si hanno le attitudini. L’apostolo Paolo caratterizza le attitudini necessarie alla sequela di Cristo proprio a partire da una questione- assai pratica – insorta tra Filemone ed Onesimo, fino a trasformarla in una parabola del modo nuovo di impostare la vita alla luce del Vangelo: <perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario> (Fil 14). La Sapienza è ancora più chiara: <Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?> (Sap 9, 13). In questo la Parola di Dio sembra assolverci dall’eccessiva preoccupazione di definire, con ridicola chiarezza, cosa sia la volontà del Signore per e sulla nostra vita.

Il Signore Gesù mette in guardia da se stessi e dalle proprie ambiguità, coloro che lo seguono in così grande numero. Il tal modo il Maestro aiuta ciascuno a fare la tara persino delle proprie buone intuizioni confrontandosi seriamente e onestamente con le “esigenze evangeliche”. Queste esigenze vengono presentate in modo forte non per spingere il discepolo a tagliare radicalmente tutte le relazioni – così necessarie – della sua vita, ma per discernere la verità e la modalità del suo desiderio. A ben guardare non sono gli altri ad essere in questione – <suo padre, la madre…> – ma i propri attaccamenti. Essi ci rivelano le paure più profonde e ancestrali che ci spingono – spesso a nostra insaputa – a proiettare, nella nostra vita di discepolanza, le nostre più inveterate schiavitù.

Essere discepoli del Signore significa accettare e abbracciare, ogni giorno, un cammino di liberazione che esige una scelta forte di libertà, la quale non permette mai di ricadere in nessuna forma di schiavitù e, men che meno, in quelle così apparentemente spirituali che sono ancora più pericolose perché più subdole. Alla luce di tutto ciò, essere discepoli significa accogliere e portare la croce della propria vita come un punto interrogativo mai definitivamente superato, un punto che rimane sempre da attraversare e da cui lasciarsi mettere profondamente in questione. Del resto, non va mai dimenticato: <Quale uomo può conoscere il volere di Dio. Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?> (Sap 9, 13).

Ambiguïté

XXIII Dimanche T.O. –

L’invitation à la sagesse par laquelle le Seigneur accompagne le chemin des disciples est d’une remarquable importance pour notre vie. Les paroles de Jésus ne sont pas exemptées d’une certaine ambiguïté et trouveraient leur place dans la bouche de l’un de ces gourous qui abusent de la bonne volonté de leurs propres adeptes pour les soumettre entièrement à leur volonté : «  Si quelqu’un vient à moi et ne m’aime pas plus que son père, sa mère, sa femme, ses fils, ses frères et sœurs et même plus que sa propre vie, il ne peut être mon disciple » ( Lc 14, 26 ). Ces paroles qui pourraient être associées à n’importe quelle secte, ont un contexte assez significatif dans l’évangile : «  une foule nombreuse suivait Jésus… » (Lc 14, 25 ). Il ne faut pas oublier que c’est justement face à l’enthousiasme qui entoure Jésus qu’il clarifie les conditions pour le suivre : non pas, bien sûr pour les repousser, mais plutôt pour aider à mieux comprendre quelles sont les exigences de la condition de disciple sans céder aux enthousiasmes dangereux.

Les deux paraboles résonnent comme une invitation à calculer et à soupeser sa propre générosité pour ne pas devenir ridicule. Il s’agit de voir si l’on a «  les moyens » ( 14, 28 ), mais surtout – et plus profondément – si l’on en a les aptitudes. L’apôtre Paul caractérise les aptitudes nécessaires pour suivre le Christ à partir d’une question – très pratique -représentée par Philémon et Onésime, pour la transformer en une parabole nouvelle à la lumière de l’Evangile : «  Afin que le bien que tu fais ne soit pas forcé, mais volontaire » ( Phi 14 ). La Sagesse est encore plus claire : «  Qui peut imaginer ce que veut le Seigneur ? » ( Sag 9, 14). En cela, la Parole de Dieu semble nous absoudre de l’excessive préoccupation de définir, par une clarté ridicule,  de ce qu’est la volonté du Seigneur pour et sur notre vie.

Le Seigneur Jésus  met en garde de soi-même et des propres ambiguïtés, ceux qui le suivent en si grand nombre. Ainsi, le Maître aide chacun à faire  la part des choses jusqu’à ses propres bonnes intuitions en les confrontant sérieusement et honnêtement aux «  exigences évangéliques ». Ces exigences sont présentées de façon forte, non pour pousser le disciple à couper toutes les relations – si nécessaires –  de sa vie, mais pour discerner la vérité et  la consistance  de son désir. A bien y regarder, ce ne sont pas les autres qui posent question – «  son père, la mère… » – mais les attachements mêmes. Ceux-ci nous révèlent les peurs les plus profondes et ancestrales qui nous poussent  – souvent à  notre insu –  à projeter, dans notre vie de disciple, nos esclavages les plus invétérés.

Être disciples du Seigneur, signifie accepter et embrasser, chaque jour, un chemin de libération qui exige un choix de liberté, qui ne permet jamais de retomber dans aucune forme d’esclavage, et moins encore, dans ces asservissements apparemment spirituels qui sont encore plus dangereux, car plus sournois. A la lumière de tout cela, être disciples, signifie accueillir et porter la croix de sa propre vie comme un point d’interrogation jamais définitivement dépassé, un point que l’on doit toujours traverser et qui doit nous remettre profondément en question. En plus, il ne faut jamais oublier : « Quel homme peut connaître la volonté de Dieu. Qui peut imaginer ce que veut le Seigneur ? » ( Sag 9, 13 ).

Sebbene

XXII settimana T.O. –

La domanda posta dai farisei ai discepoli del Signore, in realtà chiama in causa lo stesso Maestro. La provocazione suona in questi termini: <Perché fate in giorno di sabato quello che non è lecito?> (Lc 6, 2). La risposta a questa domanda potrebbe essere tratta dalla prima lettura: <ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui> (Col 1, 22). L’apostolo Paolo proclama con solennità quello che potremmo definire lo statuto della nostra libertà che è legata al fatto di essere intimamente uniti a Cristo Signore e al suo mistero di filiazione al Padre di tutti, nello stesso tempo non dimentica, certo, di ricordare ai cristiani di Colossi come a noi la condizione fondamentale perché tutto ciò possa realizzarsi realmente: <purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo> (1, 23). A partire da queste parole di Paolo possiamo intendere tutta la forza e la carica quasi rivoluzionaria o almeno decisamente destabilizzante della parola di Cristo: <Il Figlio dell’uomo è signore del sabato> (Lc 6, 5).

In realtà l’istituzione del riposo sabbatico rappresenta il sigillo di tutta l’opera della creazione che, nelle Scritture, non è presentata come un atto di potenza soverchiante di Dio, ma come un tenerissimo gesto d’amore attraverso cui l’Altissimo partecipa e condivide la sua stessa vita con le creature e, in modo del tutto particolare, con la nostra umanità. L’istituzione del sabato alla fine dell’opera della creazione sembra essere la garanzia perché la potenza della creazione non scivoli mai in un abuso di potere di nessun tipo. Il creatore e le sue creature che si riposano sono l’icona del senso profondo della creazione che ha come fine la condivisione della gioia di poter vivere e sperare insieme senza mai presumere di poter esercitare una funzione di potenza se non nella logica della gratuità e del dono.

L’esempio che viene evocato dal Signore Gesù per giustificare i suoi discepoli riporta a Davide il quale <entrò nella casa di Dio, prese i pani dell’offerta, ne mangiò e ne diede ai suoi compagni, sebbene non sia lecito mangiarli se non ai soli sacerdoti?> (6, 4). In questo <sebbene> è racchiuso il nocciolo della sfida che il credente è chiamato ad accogliere ogni giorno nella sua vita personale e comunitaria al fine di non trasformare i doni ricevuti da Dio in catene che bloccano o almeno impoveriscono il dinamismo della vita che sta a cuore al nostro Dio e rappresenta il desiderio più vivo e più vero che il suo cuore ha nei nostri confronti. L’evocazione della figura controversa del <Figlio dell’uomo> in cui il Signore Gesù sembra identificare se stesso già prelude alla Pasqua e in certo modo già dice come il vero <sabato> è quello in cui si è capaci di cessare da ogni forma di egoismo per entrare nella logica stessa della creazione e continuarla nella propria vita: donarsi senza misura per fa crescere la vita dentro di noi e attorno a noi. Tutto ciò <sebbene> non sia sempre facile comprendere concretamente che cosa questo significa e meno ancora che cosa concretamente possa o debba significare. Ogni legge è donata a favore della libertà e della vita non per impedirla o mortificarla e questa è la grande <speranza del Vangelo> (Col 1, 23). Le parole e i gesti di Gesù invitano anche noi a prendere posto nella vita  non come essere “servili” ma da “signori”. Ogni atto di libertà trova la sua prova di autenticità nella misura in cui si rivela come un dono di liberazione.

Corpo

XXII settimana T.O. –

La solenne affermazione dell’apostolo ci porta a guardare le cose da un punto di vista più ampio: <Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono> (Col 1, 17). A partire da questa considerazione di fondo, che tocca l’essenza che sta alla base della creazione e presiede al processo di ogni autentica ricreazione, siamo chiamati a riconsiderare tutte le nostre pratiche e le nostre abitudini nel cammino spirituale. Se l’apostolo ci riporta all’essenza, il Signore Gesù ci riconduce all’essenziale: <E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi> (Lc 5, 37). Non sfugge al Signore Gesù una difficoltà che incontriamo continuamente nella nostra vita: <Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole”> (5, 39). Eppure, non bisogna mai dimenticare che se c’è un <prima> ci può essere sempre un “dopo”. Se la vita ci ha sorpreso favorevolmente fino ad oggi, sarà capace di sorprenderci ancora. Per questo non c’è bisogno di ridurre continuamente la realtà a ciò che di essa conosciamo già per aprirci, invece, a ciò che di essa potremo scoprire non solo nel senso della decadenza, ma dell’incremento e del miglioramento.

La prima diatriba del Signore Gesù con i farisei e gli scribi riguarda la pratica del digiuno quale simbolo di un atteggiamento nei confronti della vita in relazione a Dio e ai fratelli: <I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!> (Lc 5, 33). La reazione del Signore Gesù sembra, in realtà non rispondere alla provocazione, o, almeno, non lo fa in modo preciso e consequenziale, ricorrendo all’immagine dello <sposo> (5, 34) che evoca un modo di pensare e di vivere il rapporto con Dio nella linea dei profeti – in particolare Isaia ed Osea – i quali, con la loro parola e la loro esperienza personale, comunicano un modo di pensare a Dio meno legalistico e più intimo. L’apostolo Paolo ci fa sentire in modo ancora più essenziale questo respiro quando dice con accenti di commozione: <E’ piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sua quelle che stanno nei cieli> (Col 1, 19-20).

Alla preoccupazione degli scribi e dei farisei sembra seguire quella ben più ampia, profonda, intima, usata dal Signore Gesù che richiede una partecipazione e un coinvolgimento personale in cui ciascuno è chiamato a vivere in relazione a Cristo Signore come il <capo del corpo> (1, 18) in una intimità essenziale capace di riconciliare in modo così radicale da risultare una rinnovata creazione capace di rifondare, attraverso la relazione con l’Altissimo, le relazioni tra fratelli in modo non rammendato né rimandato, ma rinnovato e aperto a nuovi gusti e a nuove esperienze. Infatti, non bisogna mai dimenticare che <Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”> (Lc 5, 39).