Combattere

XXVIII Domenica T.O.

La liturgia della Parola di questa domenica esordisce in modo assai deciso: <In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele e Refidim> (Es 17, 8). Bisogna ricordare che Amalèk secondo quanto testimoniano le Genealogie (cfr. Gn 36) proviene dalla stirpe di Esaù, legato dunque agli Edomiti con cui condivide l’atavica inimicizia con Giacobbe. Il luogo dello scontro con Giosuè (Es 17, 8) è Refidim la cui etimologia – raphah+yadim – significa avere le mani deboli. La Mekhiltà indica un <rilassamento delle mani> e così ricorda che l’Avversario appare, non appena c’è un rilassamento. Al contrario, la preghiera secondo la parola del Signore Gesù – nel Vangelo – è una <necessità> che esige un buon allenamento nella perseveranza: <senza stancarsi mai> (Lc 18, 1). La parola della <vedova> che continua ad importunare il giudice è una parabola di questa capacità della preghiera: una preghiera capace  di piegare e rettificare il corso della storia, togliendo la presa al male proprio con un’attitudine di combattimento che non accetta nessuna forma di allentamento. Ritorniamo così ai tempi di Amalèk quando Mosè non lasciava cadere le sue mani mentre Giosué combatteva nella valle. Secondo la sapienza della Tradizione, la guerra contro il nemico di Dio esisterà sempre nella storia e <solo la potenza di chi ha aperto il mare, tramite il bastone di Mosé, può garantire la vittoria>1.

La lotta contro il volto di turno del nemico di Dio va fatta con perseveranza e senza arrendersi. Bisogna assiduamente perseverare nel perseguire ciò che sentiamo essere un bene necessario non solo per la nostra vita, ma – soprattutto – quando questo bene riguarda la vita e la felicità degli altri. L’apostolo Paolo si pone nella stessa linea dell’Esodo e nella stessa prospettiva di quel cammino che il Signore Gesù sta compiendo, con ferma decisione, verso Gerusalemme: <tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente> (2Tm 3, 14). Non è raro come, il  pensare alla preghiera, corrisponda ad immaginare una certa dimissione nei confronti della vita e della storia. Al contrario, la preghiera è il modo remoto e profondo di preparare al meglio tutti i passi che, nella vita e nella storia, siamo chiamati necessariamente a compiere perché siano autentici e duraturi.

Una nota assai significativa, nella conclusione della parabola, è il fatto che per la sua interpretazione il Signore Gesù ricorre a due domande e non a due affermazioni, quasi indicando che la preghiera – prima di essere una risposta appagante – è un interrogativo che interpella l’interezza della nostra umana esperienza, un’esperienza percepita e vissuta al massimo grado di estensione in relazione a Dio. Così conclude il Signore Gesù: <E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?>. Come se non bastasse c’è un altro punto interrogativo: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 7-8). La preghiera non consiste nelle belle parole o nei bei sentimenti, ma nella capacità di perseverare nelle battaglie della vita anche quando ci sentiamo terribilmente soli… e Dio sarà al nostro fianco senza mai sostituirsi a noi, al fine di permetterci di gustare l’onore del combattere e la gioia di vincere.


1. E. BIANCHI, Lontano da chi?, Gribaudi,  p. 203.

Combattre

XXIX Dimanche T.O. –

La liturgie de la Parole de ce dimanche débute de façon assez décisive : «  En ces jours, Amalek vint combattre Israël à Rephidim » ( Ex 17, 8 ). Il faut se rappeler que Amalek, selon les témoignages de la Généalogie ( cf Gn 36 ), provient de la lignée d’Esaü, lié donc aux Edomites avec qui il partage l’animosité ancestrale avec Jacob. Le lieu de la confrontation avec Josué ( Ex 17,8 ) est Rephidim dont l’étymologie –raphah+yadim – signifie avoir les mains faibles. La Mekhilta indique un « relâchement des mains » indiquant ainsi que l’Adversaire apparaît dès qu’il y a un relâchement. Au contraire, la prière, selon la parole du Seigneur Jésus – dans l’Evangile – est une «  nécessité » qui exige un bon entraînement dans la persévérance «  sans jamais se relâcher » ( Lc 18, 1 ). La parole de la «  veuve » qui continue à importuner le juge est une parabole de cette capacité de prière : une prière capable de plier et rectifier le cours de l’histoire, éliminant la prise au mal par une attitude de combat qui n’accepte aucune forme de relâchement. Retournons ainsi aux temps d’Amalek quand Moïse ne baissa pas les bras pendant que Josué combattait dans la vallée. Selon la sagesse de la Tradition, la guerre contre l’ennemi de Dieu existera toujours dans l’Histoire et «  seule la puissance de celui qui a ouvert la mer par le bâton de Moïse, peut garantir la victoire » 1.

La lutte contre la volte-face de l’ennemi de Dieu est faite avec persévérance et sans se rendre. Il faut persévérer assidûment dans la poursuite de ce que nous sentons être un bien nécessaire, non seulement pour notre vie, mais – surtout – lorsque ce bien concerne la vie et le bonheur des autres. L’apôtre Paul se situe dans la même ligne de l’Exode et dans la même perspective de ce chemin que le Seigneur Jésus accomplit, vers Jérusalem, avec une ferme décision : «  Pour toi, tiens-toi à ce que tu as appris et dont tu as acquis la certitude » ( 2 Th 3, 14 ). Il n’est pas rare  que penser à la prière corresponde à imaginer une certaine démission face à la vie et à l’Histoire. Au contraire, la prière est une façon profonde d’envisager la meilleure préparation possible de tous les pas que nous sommes nécessairement appelés à accomplir dans notre vie et notre Histoire, afin qu’ils soient authentiques et durables.

Une remarque assez significative, dans la conclusion de la parabole, est le fait que le Seigneur Jésus recourt, pour son interprétation, à deux questions et non à deux affirmations, indiquant ainsi que la prière – avant d’être une réponse épanouissante – est une interrogation qui interpelle l’intérêt de notre expérience humaine, une expérience perçue et vécue au plus haut point d’extension de la relation à Dieu. Ainsi conclut le Seigneur Jésus : «  Et Dieu ne ferait pas justice à ses élus, qui crient vers Lui jour et nuit ? ». Et, comme si cela ne suffisait pas, il y a un autre point d’interrogation : «  Mais, le Fils de l’homme, quand il viendra, trouvera-t-il la foi sur la terre ? » ( Lc 18, 7-8 ). La prière ne consiste pas dans de belles paroles ou de beaux sentiments, mais dans la capacité de persévérer dans la bataille de la vie même lorsque l’on se sent terriblement seuls…et Dieu sera à nos côtés sans jamais se substituer à nous, afin de nous permettre de savourer l’honneur du combat et la joie de vaincre.


1. E. BIANCHI, Lontano da chi?, Gribaudi, p. 203

Però

San Luca evangelista –

La prima lettura ci fa entrare con una tenerezza sofferta nella festa dell’evangelista Luca che, come discepolo dell’apostolo Paolo, è stato capace per così dire di mettere nero su bianco l’esperienza e il travaglio del suo maestro e iniziatore alla vita discepolare. In pochi versetti siamo messi di fronte alle gioie e alla sofferenza della testimonianza al Vangelo che accompagna la vita di chiunque accetta con autenticità di fare della propria vita un servizio di annuncio. Paolo non ha timore nel dichiarare che <Dema mi ha abbandonato> (2Tm 4, 10) come pure che <Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito tutti mi hanno abbandonato> (4, 16). Seppure l’apostolo con semplicità e chiarezza evochi i travagli del suo ministero non ne dimentica le gioie che sono rafforzate proprio da queste esperienze dure che gli permettono di sentire in modo ancora più forte e sensibile la gioia della comunione nell’apostolo cui è sottesa una vera fraternità fatta di complicità pastorale, ma prima di tutto di autentico affetto umano che si esprime in quel toccante sussulto che gli fa dire: <Solo Luca è con me> (4, 11).

La conclusione della prima lettura di questa festa ci apre in modo del tutto naturale ad accogliere la sfida di essere discepoli capace di riprendere ogni giorno la strada dell’annuncio e della testimonianza: <Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero> (4,17). In questo <però> così eloquente si esprime il travaglio di ogni discepolo di essere testimone generoso ed esigente senza mai essere petulante e colpevolizzante. Per questo la consegna del Signore a quanti invia davanti a sé per preparare il terreno all’accoglienza della sua parola suo in questi termini: <In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”> (Lc 10, 5). Si potrebbe riassumere così: però prima di annunciare il Vangelo bisogna saperne riconoscere la presenza della grazia che salva che è già là dove pensiamo di portarla.

Oggi facciamo memoria di questo discepolo capace di farci percepire il volto di Cristo con pennellate di colori forti e dolci al contempo e capaci, comunque, di scaldare il cuore. L’evangelista della nascita di Cristo e della Chiesa si rivela capace di darci il gusto degli inizi facendoci sentire in modo densissimo il profumo terapeutico e rigenerante della fecondità degli inizi che possono ritrovare la loro freschezza attraverso la gioia di sperimentare il dono di un perdono sempre possibile. La penna di Luca traccia i contorni di un volto di Cristo che riconosce in ogni volto un riflesso amabile dello stesso volto del Padre. In compagnia e alla scuola di Luca impariamo non solo a contemplare il volto di Dio nei tratti dolcissimi e amabili del volto di Cristo, ma impariamo altresì a vedere noi stessi come Dio ci vede. In tal senso la lettura del vangelo è sempre una scuola di contemplazione che, secondo l’intuizione di Luca, non è mai contemplazione mistificata ma è sempre mediata attraverso la capacità di porre il proprio sguardo sulla croce del Signore come icona di ogni umana sofferenza che richiede l’estrema compassione dell’amore.

Timore

XXVIII settimana T.O. –

Qualcuno sostiene di avere contato tutte le volte in cui nelle Scritture ritorna l’invito a non temere e a non avere paura! Secondo questo calcolo sarebbero trecentosessantacinque le volte in cui il Signore invita a non lasciarsi prendere dal panico… una per ogni giorno dell’anno. In questo modo sarebbe chiaro come il segno di una relazione con Dio autentica e reale si dedurrebbe da una capacità ad attraversare le non sempre facili acque della vita, con un senso di fiducia profonda. Il Signore Gesù fonda questa nostra fiducia nella consapevolezza di essere oggetto di una cura e di una benevolenza che ci precede e ci accompagna fino a dire che <Anche i capelli del vostro capo sono contati> e a rassicurarci sul fato che <valete più di molti passeri> (Lc 12, 7). Nondimeno quella cui il Vangelo ci esorta non è una fiducia inconsapevole e ingenua. Nello stesso passo veniamo energicamente esortati anche a maturare e coltivare un timore fatto di consapevolezza e di vigilanza su noi stessi: <Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete costui> (12, 5).

A questo punto bisognerebbe contare tutte le volte in cui le Scritture invitano a temere il Signore che, secondo gli Scritti, è il principio stesso della sapienza (Sir 1, 12). Non sarebbe impossibile, che l’invito a temere il Signore sia equivalente, se non numericamente almeno qualitativamente a quelli in cui siamo invitati a non avere paura. La sfida per ogni discepolo è quella di non essere schiavo, ma di essere profondamente libero e questo significa ogni giorno saper superare i condizionamenti che, attraverso la paura, rischiano di farci vivere in modo inadeguato alla nostra umanità e nondimeno saper scegliere quali limiti imporre e quali direzioni proporre alla propria vita.

Questo è stato il cammino, lungo e talora difficile e puntellato di non poche regressioni, del nostro padre Abramo. Riguardo a lui potremmo porci la stessa domanda che si pone l’apostolo: <Che cosa ha ottenuto?> (Rm 4, 1). Se rileggiamo la storia di fede di Abramo ci rendiamo conto che aldilà e al di sopra di tutto – persino della discendenza così a lungo attesa e sperata – il Patriarca è divenuto sempre di più libero nella fede e un uomo di fede sempre più libero e, perciò stesso, sempre più vero con se stesso e con gli altri. Infatti, la lunga attesa cui il Signore lo costringe è un modo per aiutare Abramo a prendere coscienza, sempre più chiaramente, di ciò che veramente abita e desidera il suo cuore. Questo suo cammino è anche il nostro! Siamo, infatti, chiamati a fare chiarezza nel nostro cuore e mettere sempre più <in piena luce> (Lc 12, 3) ciò che ci abita profondamente e veramente. Se ci nascondiamo saremo necessariamente scovati, se accettiamo di venire allo scoperto saremo sicuramente e dolcemente ricoperti da quel mando di misericordia e di benevolenza che non è mai connivenza con le tenebre della menzogna: <beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato> (Rm 4, 8), ancora più beati siamo quando il Signore si rivolge a noi chiamandoci <amici miei> (Lc 12, 4).

Sangue

XXVIII settimana T.O. –

Continua il tentativo di Paolo di illustrare il mistero di quel dono di salvezza che ci ha raggiunti e continua a raggiungere la vita di ciascuno di noi. L’apostolo insiste con forza quasi debba lottare contro le forme ricorrenti di una ricerca di merito che rischia di creare un’ansia di prestazione che, troppo facilmente, si rivela una frustrazione. Il concetto è assai chiaro: <sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù> (Rm 3, 24). Il dono di grazia che riceviamo gratuitamente attraverso Cristo Signore e in virtù del suo dono pasquale se ci raggiunge gratuitamente è invece pagato a caro prezzo dal Signore: <E’ lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della giustizia per la remissione dei peccati passati> (3, 25). Quando un ebreo parla di <sangue> in realtà non fa che parlare del dono della vita intesa nella sua interezza soprattutto per quanto riguarda il suo dono per una nobile causa.

È lo stesso Signore Gesù che nel Vangelo reagisce all’ostruzionismo spirituale di scribi e farisei evocando la necessità, per così dire, di fare i conti con il sangue: <perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dalla fondazione del mondo: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario> e il Signore sembra insistere: <Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione> (Lc 11, 50-51). La stupidità con cui i farisei e i dottori della legge reagiscono al discorso di Gesù, genera quel desiderio omicida che li porterà ad uccidere il Cristo. Il Signore Gesù pagherà con la vita, con il suo sangue, di cui ci nutriamo ogni volta che partecipiamo all’Eucaristia, il desiderio di voler mettere in comunione il popolo con Dio. Ma proprio la sua morte, proprio la sua croce diventerà quel ponte che consente ad ogni uomo di comunicare con il Padre. Il suo sangue ha spalancato le porte della casa di Dio perché tutti possano entrarvi.

Alla luce di tutto ciò possiamo comprendere meglio cosa significhi e cosa comporti la solenne e rivoluzionaria parola dell’apostolo Paolo: <Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge> (Rm 3, 28). Questo non significa incrociare le braccia, ma comporta la generosa decisione di dare la vita fino in fondo come risposta d’amore alla gratuità di un dono ricevuto e riofferto senza fare conto di quanto possa costare in termini di dedizione e persino di perdita. Ciò che il Signore Gesù disapprova assolutamente nella condotta degli scribi e dei farisei, è la dimenticanza di quella <clemenza di Dio> senza la quale nulla può essere giusto e santo. Dimenticare la clemenza e insistere sulle opere della Legge, non solo come espressione della propria fede – e questo non può che essere lodevole e degno – ma come parametro di giudizio della fede degli altri, non può che – ben diverso da quell’amabile <indipendentemente> appena evocato – portare inesorabilmente a condannare, uccidere e sottrarre <la chiave della conoscenza> (Lc 11, 52). La conoscenza di cui ci parla il Signore non è la fredda teologia che non si è mai tirata indietro nel costruire dorati e magnifici <sepolcri> (11, 47), ma è sempre congiunta – anzi è l’espressione più vera – all’amore.

Conversione

XXVIII settimana T.O. –

La parola un po’ offesa del dottore della Legge sembra irritare il Signore Gesù fino ad indurlo a rendere ancora più dura la sua parola: <Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi> (Lc 11, 45). La risposta non si fa attendere: <Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!> (Lc 11, 46). C’è ben altro che sentirsi offesi, quando c’è di mezzo la vita e la serenità di quanti sono gravati già in modo eccessivo dai pesi della vita. Secondo il modo di sentire di Cristo Signore, la relazione con Dio non dovrebbe mai diventare un ulteriore peso che gravi sulla vita già dura, difficile, esigente. Ciò che non bisogna <trascurare> (11, 42) mai è l’attenzione e la sensibilità alla sofferenza, alla fatica, al dolore. L’apostolo Paolo interroga quasi mettendo alla sbarra il piccolo dottore della Legge che si annida nel nostro cuore ogni volta che dimentichiamo la compassione: <O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione> (Rm 2, 4).

In questo contesto la conversione non è prima di tutto in relazione a Dio, ma riparte continuamente dalla capacità di convertire il proprio modo di porre lo sguardo sul fratello senza cedere alla tentazione di giudicare. Non si tratta di cedere ad un qualunquismo incapace di discernimento e di denuncia del male, ma la sfida è di non disgiungere mai il cammino della conversione dalla compassione che ci tiene al riparo dalla tendenza ad avere troppa attenzione per noi stessi e poco riguardo verso gli altri. Con tono assai forte, Paolo ci ricorda che ogni mancanza di compassione e di attenzione è una forma di bestemmia contro Dio, perché si dimentica l’essenza del modo divino di rapportarsi alle sue creature. E allora il principio si fa criterio di discernimento su se stessi prima che sugli altri: <Chiunque tu sai, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l’altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose> (2, 1).

Non si tratta certo di un invito alla complicità, ma di un pressante invito alla fraternità il cui primo passo è sentire e riconoscere di vivere le stesse fatiche, tanto da essere capaci di sostenersi generosamente nella fatica. Ciò da cui bisogna guardarsi è di cedere ad avere un <cuore duro e ostinato> (2, 5). Uno dei primi segni è di non amare né cercare <i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze> (Lc 11, 43) accettando invece di camminare e sedere sempre come e accanto agli altri in una parità che crea le condizioni di una conversione condivisa. Il primo passo è la libertà di essere in verità ciò che siamo senza più doversi continuamente nascondere e mascherarsi. Persino le tombe potranno diventare luoghi di risurrezione a condizioni che siano state luoghi di verità.

Completare

XXVIII settimana T.O. –

L’apostolo Paolo sembra fare fatica a mettere insieme l’annuncio della <salvezza di chiunque crede> (Rm 1, 16) con le imprescindibili esigenze della <giustizia di Dio> (1, 17) che ha anche il suo volto più oscuro: <l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia> (1, 18). Dobbiamo essere grati all’apostolo per il fatto di condividere con noi la fatica mai finita di tenere insieme l’annuncio, assolutamente gratuito ed universale, del dono della chiamata alla salvezza, e le esigenze di conversione e di rinnovamento della vita. Il salmo responsoriale ci aiuta a riprendere la strada dall’ammirazione, dalla gratitudine, dalla lode: <I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento> (Sal 18, 2). Lo dice l’apostolo con chiarezza: <Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute> (1, 20). Tra queste <opere da lui compiute> ci siamo anche noi, ciascuno di noi con la sua ricchezza e la sua povertà, con i nostri pregi e i nostri difetti. 

Romano Penna sottolinea l’importanza capitale di questo riferimento alla giustizia e all’ira senza tacere che <Tuttavia questa nozione giocò un ruolo fatale nell’intera storia della teologia>. E continua dicendo: <Dagli sviluppi successivi apparirà il paradosso dell’alternativa: i destinatari hanno già in mente una certa precomprensione della giustizia di Dio, ma Paolo la sovvertirà per proporre una nuova. Diciamo subito fin d’ora che la precomprensione dei destinatari connette la giustizia di Dio con la Legge, mentre l’apostolo opererà tra i due concetti una scandalosa disgiunzione>1. Nel Vangelo possiamo ben notare la preoccupazione che il Signore Gesù ha di completare senza mai identificare fino a ridurre il mistero intimo della fedeltà a Dio con la semplice osservanza di una serie di adempimenti: <Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro , ed ecco, per voi tutto sarà puro> (Lc 11, 41).

L’evangelista Luca ci fa cogliere un sentimento che attraversa il cuore di chi ha invitato il Signore Gesù nella sua casa: <si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima di pranzo> (11, 38). La meraviglia di questo pio fariseo si scontra con la meraviglia del Signore Gesù che mal sopporta quella cecità propria della devozione che si fa, troppo facilmente, giudizio malevolo sulla vita e le scelte degli altri. Per quanto accogliamo con gioia la sfida liberante del Vangelo, come fece il fariseo Paolo che donò la sua intera vita alla causa della libertà del Vangelo, dobbiamo pure riconoscere che non mai facile né scontato modulare e incarnare l’equilibrio necessario tra la libertà del cuore e la generosità della discepolanza. Questa non dovrebbe mai cedere alla trappola del comodo o, peggio ancora, dell’ipocrisia della libertà che non sarebbe altro che l’altra faccia della medaglia dell’ipocrisia della devozione. La sfida è completare senza mai accontentarsi di onorare solo una parte del nostro dovere di essere all’altezza della nostra dignità umana che dà gloria a Dio.


1. R. PENNA, Lettera ai Romani, EDB 2010, pp. 63-64.

Promesso

XXVIII settimana T.O. –

L’apostolo Paolo scrivendo ai Romani insiste, sin dalla prima riga, di questo testo fondamentale per l’intelligenza e la pratica della fede, su ciò che è stato <promesso> (Rm 1, 1). L’apostolo più “giudaico” come formazione teologica e pratica, si rivolge ai discepoli della comunità di Roma molti dei quali vengono da una delle comunità ebraica più insigne del tempo. Per questo l’apostolo fa appello all’orizzonte dell’attesa e della continua apertura al compimento delle divine promesse che caratterizza l’atteggiamento della tradizione di Israele. Il Signore Gesù sembra profondamente ferito dalla resistenza che i suoi interlocutori oppongono alla sua parola scambiando la promessa con il semplice soddisfacimento dei propri desideri e dei propri bisogni. Per questo si lamenta in modo acuto che interpella anche la nostra fede e il nostro modo di accogliere la grazia della chiamata ad accogliere il Vangelo come apertura al compimento delle promesse divine ben aldilà delle nostre stesse attese e speranze: <Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno…> (Lc 11, 29).

Le folle che si accalcano attorno a Gesù desiderano e si aspettano un segno forte ed inequivocabile che attesti la sua messianicità e coroni il felice matrimonio tra le loro attese e il compimento attraverso la presenza di Cristo in mezzo a loro. Il riferimento a Giona e alla regina di Saba diventa per il Signore il modo per richiamare l’attenzione dei suoi ascoltatori sul mistero della sua persona che non va accolta a partire dai propri bisogni e attese, ma come la via per ricentrare e ricomprendere i propri bisogni e le proprie attese. Quando Paolo inizia a scrivere la sua Lettera più impegnativa e chiara a livello teologico dopo avere evocato ciò che è stato <promesso> subito chiarisce la via della realizzazione di queste promesse: <riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti> (Rm 1, 3-4). Tutta la <grazia> (1, 5) di scoprirsi <chiamati> (1, 6) e <amati da Dio> (1, 7) radica nel mistero dell’incarnazione che si manifesta pienamente nell’esperienza pasquale di Cristo. 

Il <segno> è la carne di Cristo che si è donato per noi fino ad assumere la debolezza estrema della croce che si fa <giudizio> (Lc 11, 31-32) e parametro di ogni nostra ricerca e di ogni nostra apertura all’incontro con il Signore Gesù che fa fatto di Paolo non solo un apostolo, ma prima di tutto un <servo di Cristo Gesù> (Rm 1, 1) proprio come il suo Maestro e Signore. E’ come se oggi qualcuno scrivesse su un quotidiano di una delle grandi metropoli del mondo come Londra o New York parlando di ciò che è avvenuto in un angolo sconosciuto del pianeta. In una Roma pullulante di dottrine e di religioni che assicurano la salvezza e la felicità, Paolo scrive parlando di Gesù, del vangelo, della grazia, della chiamata con l’inconfondibile sigillo cristologico: l’incarnazione e il dono pasquale. Essere discepoli del Signore Gesù è comprendere il <segno> del suo abbassamento come la porta della vita che realizza ciò che è stato <promesso>.

Urgentismo

XXVIII Domenica T.O.

Il Signore Gesù non fa nessun gesto eclatante nei confronti di questi lebbrosi che, insieme, gli chiedono di essere guariti. Non solo nessun gesto “miracolante”, ma neppure l’uso di una parola potente che possa impressionare. C’è semplicemente il rimando alla normalità prevista dalla Torah: <Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti> (Lc 17, 14). Naaman si lamenta della grande semplicità del comando del profeta Eliseo tanto che, dopo un così lungo viaggio, <scese e si immerse nel Giordano sette volte> (2Re 5, 14). I lebbrosi che vanno incontro al Signore, invocandolo con urgenza, avrebbero da lamentarsi ancora di più. In realtà la guarigione di Naaman e dei dieci lebbrosi avviene non per la potenza di un gesto o per l’incantesimo di una parola, bensì per la capacità     di assumere, come parte della vita, la propria fragilità e la propria vulnerabilità. L’evangelista Luca sottolinea che i lebbrosi <mentre andavano, furono purificati>. Così come Naaman ritrovò <il corpo di un ragazzo> proprio nel momento in cui accettò di immergersi nel Giordano come un bambino che si mette a giocare con l’acqua.

Le aspettative di Naaman nei confronti di Eliseo e quelle dei lebbrosi che <dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!> (Lc 17, 13), devono essere purificate radicalmente per poter aprire la strada ad una guarigione che sia capace di toccare e trasformare tutta la persona. Il primo passo di questa purificazione è di non cedere alla fretta e di non lasciarsi prendere da un’urgenza eccessiva: ogni terapia non ha solo bisogno delle medicine, ma pure del tempo necessario perché esse possano fare effetto. Tutti e dieci i lebbrosi si mostrano capaci di obbedire alla parola del Signore Gesù, ma solo uno torna indietro per ringraziare. Per gli altri nove, in realtà, è avvenuta la guarigione senza che sia cambiata la percezione di Dio, tanto che riterranno che tutto sia avvenuto come previsto dalla Legge, dimenticandosi della relazione intercorsa con il Signore Gesù. Solo il samaritano si mostra sensibile alla possibilità di vivere la guarigione come possibilità di entrare in una relazione che sia meno <a distanza> (17, 12). Pertanto solo a questa distanza ravvicinata sarà possibile sperimentare, quanto e come, <la Parola di Dio non è incatenata> (2Tm 2, 9) e, per questo, capace di liberare pienamente.

È solo dopo questo cammino di ritorno che la parola può risuonare in tutta la sua forza e la sua pienezza: <Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!> (Lc 17, 19). Si potrebbe dire che, alla fine, si rivela come solo uno di questi lebbrosi desiderasse incontrare un salvatore mentre agli altri nove fosse sufficiente sperimentare un “salvataggio”. Se il salvataggio avviene sempre in una modalità di urgenza, la salvezza ha bisogno di tempi di realizzazione che sono i tempi propri di una relazione che matura. In tal senso il lebbroso samaritano è della stessa pasta della samaritana che tornerà al villaggio, senza più anfora, facilitando l’incontro di tutti con <il salvatore del mondo> (Gv 4, 42). Proprio perché samaritano, questo lebbroso comprende più profondamente degli altri che la dose di assoluta gratuità e benevolenza non è un diritto che viene dalle leggi del tempio, ma è il segno di un amore colmo di estrema compassione che cambia il cuore: <si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo> (Lc 17, 16). Per gli altri è stato sufficiente prostrarsi in quel tempio in cui il samaritano, in realtà, non poteva entrare. L’esperienza della guarigione conferma i nove lebbrosi nella loro attitudine religiosa, mentre apre per il samaritano la via dell’adesione personale… la porta della fede.

Très urgent

XXVIII Dimanche T.O. –

Le Seigneur Jésus ne fait aucun geste éclatant face à ces lépreux qui, ensemble, lui demandent d’être guéris. Non seulement aucun geste «  miraculeux », mais, pas non plus l’usage d’une parole puissante qui pourrait impressionner. C’est simplement le rappel à la normalité prévue par la Torah : «  Dès qu’il les vit, Jésus leur dit : «  Allez vous présenter aux prêtres » ( Lc 17, 14 ). Naaman se plaint de la grande simplicité du commandement du prophète Elisée, pourtant, à la fin, après un si long voyage, «  il descendit et s’immergea dans le Jourdain sept fois » ( 2 R 5, 14 ). Les lépreux qui vont à la rencontre du Seigneur, en l’invoquant avec urgence, auraient de quoi se lamenter encore d’avantage. En réalité, la guérison de Naman et des dix lépreux se réalise, non par la puissance d’un geste ou par l’incantation d’une parole, mais plutôt par la capacité d’assumer, comme faisant partie de la vie, leur propre fragilité et leur propre vulnérabilité. L’évangéliste Luc souligne que les lépreux «  furent purifiés alors qu’ils s’en allaient ». Tout comme Naaman qui retrouva «  le corps d’un jeune homme » juste au moment où il accepta de s’immerger dans le Jourdain comme un enfant qui se met à jouer avec l’eau.

Les attentes de Naaman face à Elisée et celles des lépreux qui «  disaient à haute voix : ‘ Jésus, Maître, aie pitié de nous ! «  ( Lc 17, 13 ), doivent être purifiées radicalement pour pouvoir ouvrir le chemin à une guérison capable de toucher et transformer toute la personne. Le premier pas de cette purification est de ne pas céder à la rapidité et de ne pas se laisser  prendre par une urgence excessive :  chaque thérapie a besoin, non seulement de médicaments, mais aussi du temps nécessaire pour qu’elle puisse agir. Tous les dix lépreux se montrent capables d’obéir à la parole du Seigneur Jésus, mais une seule retourne en arrière pour remercier.  En réalité, pour les autres neuf, la guérison est arrivée sans que la perception de Dieu soit changée, de telle façon qu’ils retiendront que tout est arrivé comme cela est prévu par la Loi, en oubliant la relation intervenue par le Seigneur Jésus. Seul le samaritain se montre sensible à la possibilité de vivre la guérison comme une opportunité d’entrer dans une relation qui soit moins «  à distance » ( 17, 12 ).  Pourtant, c’est seulement à cette distance rapprochée qu’il sera possible d’expérimenter, combien et comment, «  la Parole de Dieu n’est pas enchaînée » ( 2 Th 2, 9 ) et, pour cela, capable de libérer pleinement.

C’est seulement après ce chemin de retour que la parole peut résonner en  plénitude de toutes ses forces : «  Lève-toi et va ; ta foi t’a sauvé ! » ( Lc 17, 19 ). L’on pourrait dire, qu’à la fin, seul l’un de ces lépreux désirait rencontrer un sauveur, alors que  pour les neuf  autres, l’expérience d’un «  sauvetage » était suffisante. Si le sauvetage arrive toujours d’une façon urgente, le salut  a besoin d’un temps de réalisation, qui est le temps adéquat pour permettre à une relation de mûrir. Dans ce sens, le lépreux samaritain est de la même pâte que la samaritaine qui retourna au village, sans son amphore, facilitant la rencontre de tous  avec « le sauveur du monde » ( Jn 4, 42 ). Parce qu’il était samaritain, ce lépreux comprend plus profondément  que la dose d’écoute gratuite et bienveillante de la part des autres, n’est pas une droit qui vient des lois du temple, mais c’est le signe d’un amour, sommet d’une extrême compassion qui change le coeur : «  il se prosterna  aux pieds de Jésus, pour le remercier » (Lc 17, 16 ). Pour les autres, il était suffisant de se prosterner dans un temple où le samaritain, en réalité, ne pouvait entrer. L’expérience de guérison confirme les neuf lépreux dans leur attitude religieuse, alors que, pour le samaritain, elle ouvre  la voie de l’adhésion personnelle…la porte de la foi.