Convertire… vivere

III settimana T.Q.

Il libro del Deuteronomio non si accontenta di ribadire la necessità e le modalità di una promettente relazione con il Signore Dio che sia salvifica, ma né indica la motivazione più profonda e più attraente: <perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi> (Dt 4, 1). Queste parole del Deuteronomio possono offrirci un elemento in più per accogliere la parola del Signore Gesù che rischia di sembrarci troppo dura ed esigente: <Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli> (Mt 5, 19). Solo nella misura in cui diventiamo capaci di cogliere la portata dei minimi gesti e delle piccole scelte della nostra esistenza quotidiana, siamo capaci di creare uno spazio sempre più dilatato e adeguato per la vita. Inoltre, è proprio vero che la vita è sempre un’esperienza che, se autentica, non può che essere vissuta pienamente e condivisa generosamente. Una forma necessaria di condivisione è proprio la trasmissione che riguarda non solo la vita come possibilità biologica, ma prima ancora come bagaglio di sapienza. In tal senso l’esortazione finale della prima lettura tocca in modo particolare la nostra generazione tentata di consumismo esistenziale tanto da essere poco preoccupata di lasciare un’eredità vivibile: <Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita> e aggiunge <le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli> (Dt 4, 9).

Il cammino della conversione, per cui ci impegniamo in modo particolare nel tempo quaresimale, non è una mortificazione fine a se stessa, ma un vero processo di dilatazione che esige la decisione verso quel <pieno compimento> (Mt 5, 17) che se è tutto donato è sempre tutto da compiere nella verità e nella realtà concreta della vita di ogni giorno. Il ritornello del Deuteronomio ci richiama alla concretezza per evitare ogni deriva ideologica e illusoria: <Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli> (Dt 4, 6). La parola del Deuteronomio cerca di arginare in tutti i modi quel morbo che rischia di paralizzare fino ad uccidere la vita di relazione con Dio, con se stessi e con gli altri: si tratta della dimenticanza! Il primo sintomo dell’insorgere di questa malattia, che può veramente mettere in pericolo il nostro cammino di fede, è un senso di distanza. 

Al contrario di ciò, il Deuteronomio insiste nel sottolineare come la storia della salvezza, che passa attraverso un continuo rinnovarsi dell’Alleanza, si basa su una diversa percezione della relazione tra l’Altissimo e la nostra umanità ed è questo che fa la differenza. Nella prima lettura il messaggio è chiaro: <Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?> (Dt 4, 7). A partire da questa parola del Deuteronomio, potremmo così dire che il ruolo del Signore Gesù non è quello di sostituire, né tantomeno di <abolire> (Mt 5, 17) quanto, piuttosto, di dare <compimento> a questa inenarrabile esperienza di prossimità e di vicinanza. Eppure, come ogni vicinanza che ci è dato di sperimentare nelle nostre umane relazioni, siamo chiamati a prendere coscienza – talora così dolorosamente – di differenze profonde che bisogna imparare ad accettare e di cui bisogna portare il peso con amore e con rispetto.

Messia?

Annunciazione del Signore –

La solennità dell’Annunciazione del Signore si sposa con i profumi della primavera e ci riporta all’inizio di quel mistero di rivelazione in Cristo dell’amore del Padre che segna la nostra esperienza di Dio e la rifonda. Come il profeta Isaia anche noi spesso abbiamo quasi paura di osare l’audacia di chiedere per comprendere meglio e convertire la nostra vita per renderla sempre più conforme al cuore dell’Altissimo: <Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore> (Is 7, 12). Acaz sembra spaventato all’idea di poter dialogare con Dio secondo l’invito del profeta. Nel momento dell’annunciazione, Maria non teme, invece, di porre domande a Gabriele senza aver paura né di manifestare il suo turbamento, né di porre le domande che sorgono nel suo cuore davanti ad un annuncio che stravolge la sua vita: <Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?> (Lc 1, 34). Maria diventa l’icona della nostra chiamata ad essere credenti perché capaci di aprirci fino a lasciarci disturbare e cambiare dall’<impossibile> (1, 37). Ciò che Gabriele annuncia a Maria non è il privilegio della sua divina maternità, quanto piuttosto la sorprendente bellezza di un Dio che vuole essere <con noi> (Is 8, 10) aspettando di essere accolto da noi per essere ridonato a tutti. La parola della Lettera agli Ebrei suona come un monito: <è impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati> (Eb 10, 4).

Le parole di Maria sono diventate un modello di adesione per ogni discepolo: <Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola> (Lc 1, 38). In questa identificazione di Maria nella figura della <serva del Signore> si fa spazio all’incarnazione – nel senso più lato che può avere questo termine – di Colui che si rivelerà come Messia-Servo spogliato di ogni falsa attesa messianica infarcita di potere e di riscossa. Come spiega Raimon Panikkar in Maria si supera quella <messianite> che è <un’antica malattia ebraica, una sorta di cronica infiammazione delle ghiandole ebraiche della speranza>. Parlando degli esseni di Qumran che incarnavano l’attesa messianica più pura ma anche più aggressiva dei tempi di Gesù, Panikkar annota: <Essi andarono nel deserto per pregare, anzi per spronare Dio, o piuttosto il Messia, a venire giù dal cielo attraverso l’ascesi, la continenza, l’osservanza minuziosa di tutti i comandamenti e i divieti della Bibbia>. La conclusione sembra strana: <Sfortunatamente la cosa non è riuscita>1. Ed è così perché l’incarnazione del Verbo nel seno e nella vita di Maria si rivela come un’operazione non ascetica e non asettica, ma assolutamente ordinaria e discreta tanto che il peccato che ci ha allontanato da Dio può essere giustamente inteso come una <diminuzione del divino in ciascun uomo, la contrazione dell’infinito in ogni situazione>2. Con l’assenso di Maria alle parole dell’angelo tutto cambia perché la presenza di Dio è di nuovo accolta in tutta la sua differenza senza essere percepita più come estranea, ma come la realtà più intima, la più familiare, la più carnale proprio come una madre avverte nel proprio corpo il mistero del crescere di un corpo diverso e per nulla estraneo. Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei può dire con entusiasmo: <Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo una volta per sempre> (Eb 10, 10). Ora tocca a noi!


1. R. PANIKKAR, Parliamo dello stesso Dio?, Jaca Book, Milano 2014, p. 37

2. Ibidem, p. 66. 

Convertire… il pensiero

III settimana T.Q.

Il cammino del Signore Gesù e il suo mistero pasquale, in cui si rivela integralmente il suo ministero salvifico per tutta l’umanità, risultano chiaro sin dall’inizio tanto che il suo destino di croce più che una sorpresa è il coronamento di un processo: <passando in mezzo a loro, si mise in cammino> (Lc 4, 30). Siamo a Nazaret in occasione del ritorno di Gesù nella sua terra e tra i suoi concittadini nella pienezza della sua coscienza e agli inizi ardenti della sua predicazione. Le cose sono dure sin da subito, tanto che <Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù> (4, 29). In un modo diverso – ma non poi così diverso – si ripete la tentazione del diavolo che lo aveva condotto in alto spingendolo a buttarsi giù per dimostrare di essere una persona straordinaria. Alle grandi dimostrazioni sembra proprio che il Signore preferisca i passi semplici di un cammino ordinario, banale, e per molti aspetti, scontato. A confermare questa attitudine interiore, nemica di ogni spettacolarità, il Signore evoca le figure della vedova di Sarèpta e quella di Naaman il Siro. Questa donna incontrata per strada dal profeta Elia diventa il segno di una capacità di assumere il reale con una docilità così profonda da andare oltre l’evidenza fino a cambiarlo. La memoria di Naaman il Siro ci riporta al mistero di una guarigione necessaria da ogni inutile attesa di straordinarietà che riempie di sdegno Naaman: <Ecco, io pensavo…> (2Re 5, 11).

Sicuramente anche gli abitanti di Nazaret pensavano tante cose di Gesù e su Gesù tanto da aspettarsi ben più di un semplice commento alla Parola di Dio del giorno. Eppure, per il Signore sembra bastare questo: riprendere a camminare, ogni giorno, con un’intelligenza sempre più profonda delle Scritture che permette di impastare, quotidianamente, il pane dell’esistenza fino a farlo lievitare nella pazienza delle piccole cose, cuocerlo nel forno della pazienza quotidiana e condividerlo come il nutrimento di ogni giorno per il passo di ogni giorno. Ad aiutare Naaman in quest’accoglienza dell’ordinarietà sono proprio i suoi servi: <Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: “Bagnati e sarai purificato”> (5, 13). A questa parola accorata dei servi sembra fare eco quella rivolta dal Signore Gesù ai suoi vicini di casa: <In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria> (Lc 4, 24).

Infatti, non si tratta di sedurre, né di attrarre, né, tantomeno, di ammaliare, bensì di vivere a servizio della verità intesa come intelligenza semplice del reale, in cui siamo chiamati ad accogliere le indicazioni per il nostro cammino di obbedienza e di purificazione. Senza dubbio l’evocazione di Naaman è un modo per preparare i catecumeni al battesimo e aiutare i battezzati a non dimenticare di doversi immergere ogni giorno nei battesimi quotidiani che la vita richiede e cui, talora, obbliga fino a farci ritornare ad avere sono solo <un corpo di ragazzo> (5, 14), ma un animo di piccolo che si sa consegnare. Nel quotidiano della nostra vita siamo chiamati a scegliere tra la fiducia e la pretesa, tra la consegna vivificante di noi stessi e il ripiegamento mortifero su noi stessi.

Convertire… in concime

III Domenica T.Q. 

Al cuore di uno dei testi fondamentali della Rivelazione come è il momento in cui l’Altissimo prende nome e si fa conoscere al suo servo Mosè, proprio di lui si dice che <si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio> (Es 3, 6). L’apostolo Paolo conclude la sua esortazione con una sorta di messa in guardia: <Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere> (1Cor 10, 12). Il Signore Gesù con la sua parola e, ancor prima, con il suo atteggiamento e il suo modo di porsi davanti agli avvenimenti della storia, cerca di farci passare da una paura sterilizzante e paralizzante ad una capacità di essere realmente responsabili nei confronti del nostro interiore cammino di trasformazione: <No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo> (Lc 13, 5). Questa parola del Signore Gesù non è una minaccia è, invece, una risposta a quanti se sentono in diritto di <riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici> (13, 1).

Il Signore Gesù reagisce in modo assai severo a quella tendenza con cui le sventure altrui rischiano di diventare una sorta di autocertificazione e di condanna dell’operato degli altri. La parabola che viene raccontata non è altro che la conferma di quello stesso atteggiamento rivelato a Mosè sul Sinai nella linea di una benevolenza di amplissimo respiro. Di ciò si fa interprete questo misterioso e così amabile vignaiolo: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime> (13, 8). Già nel deserto l’Altissimo sembra non avere trovato una risposta più belle di quella che garantisce una compagnia fedele e coinvolta con la storia di ciascuno: <Il Signore Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi> (Es 3, 15).

Da notare che la rivelazione del Nome a Mosè avviene solo quando questo servo di Dio ha accettato di pascolare e di prendersi cura del gregge di Ietro, di un gregge non suo dopo il fallimento del suo essere dapprima principe e poi “giustiziere”. Così il vignaiolo si mostra capace di prendersi cura di un albero che non gli appartiene su cui riversa tutte le sue cure in modo non solo gratuito, ma anche appassionato.

Convertir… en compost

III Dimanche T.Q. –

Au coeur de l’un des textes fondamentaux de la Révélation, comme l’est ce moment où le Très-Haut se nomme et se fait connaître à son serviteur, l’on dit de celui-ci qu’« il se couvrit le visage, car il avait peur de regarder vers Dieu » ( Ex 3, 6 ). L’apôtre Paul conclut son exhortation par une sorte de mise en garde : «  Ainsi donc, que celui qui se flatte d’être debout, prenne garde de tomber » ( 1 Co 10, 12 ).  Le Seigneur Jésus par sa parole, et avant encore, par son attachement et sa façon de se tenir face aux événements de l’Histoire, cherche de nous faire passer d’une peur stérilisante et paralysante à une capacité d’être réellement responsables face à notre chemin de transformation intérieure : «  Non, je vous le dis, mais si vous ne faites pénitence, vous périrez tous pareillement » ( Lc 13, 5 ). Cette parole du Seigneur Jésus n’est pas une menace, mais, au contraire, une réponse à ceux qui se sentent en droit de « rapporter à Jésus ce qui était arrivé aux Galiléens dont Pilate avait mêlé le sang  à celui de leurs victimes » ( 13, 1 ).

Le Seigneur Jésus réagit de façon assez sévère à cette tendance de considérer les aventures des uns comme une sorte d’auto-certification et de condamnation des œuvres des autres. La parabole qui est racontée, n’est rien d’autre que la confirmation de ce même attachement révélé à Moïse sur le Mont Sinaï dans le sens de la bienveillance  d’un souffle d’une grande ampleur. Ce mystérieux et si aimable vigneron en est l’interprète : «  Maître, laisse-le encore cette année, le temps que j’y creuse tout autour et que j’y mette du compost » ( 13, 8 ). Au désert, déjà, le Très-Haut semble ne pas avoir de plus belle réponse que celle qui garantit une compagnie fidèle et impliquée dans l’histoire de chacun : «  Le Seigneur, Dieu de vos Pères, Dieu d’Abraham, d’Isaac, et de Jacob, m’a envoyé vers vous » ( Ex 3, 15 ).

Il est à noter que la révélation  du Nom à Moïse advient seulement lorsque ce serviteur de Dieu a accepté, après son état de prince et celui de «  justicier », d’emmener en pâturage et de prendre soin d’un troupeau qui n’est pas le sien, mais celui de Jéthro.  Ainsi, le vigneron se montre également capable de s’occuper d’un arbre qui ne lui appartient pas, mais dont il prend soin de manière non seulement gratuite, mais aussi de façon passionnée.

Convertire… la verga

II settimana T.Q.

Il profeta Michea si profonde in una supplica che sembra profetizzare la decisione del figlio minore della parabola ormai sprofondato nell’umiliazione della miseria e della perdita di dignità: <Pasci il tuo popolo con la tua verga, il gregge della tua eredità, che sta solitario nella foresta tra fertili campagne> (Mi 7, 14). Al culmine della sua umiliazione, non disgiunta da una certa depressione, il figlio minore <ritornò in sé> e prese la decisione della sua vita: <Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: “Padre ho peccato contro il Cielo e davanti a te> (Lc 15, 17-18). Possiamo ben immaginare quali fossero i pensieri e i timori di questo figlio che non si sente più <degno di essere chiamato tuo figlio> (15, 19). Nella più nera disperazione, la sua grande speranza sarà stata la <verga> di un padre che lo avrebbe giustamente punito purché lo avesse riaccolto non tanto tra le sue braccia, ma nella sua casa dove c’è <pane in abbondanza> (15, 17). Il pane sembra essere diventato il pensiero fisso di questo giovane cui vengono negate quelle stesse <carrube di cui si nutrivano i porci> (15, 16). Eppure, il ritorno a casa coincide con la grande sorpresa del ritorno tra le braccia di un padre che è ferito non dalla mancanza di rispetto del proprio figlio, quanto piuttosto dal fatto che uno dei suoi figli rischia di sperperare non tanto il patrimonio, quanto la sua stessa vita.

Al cuore della terza parabola della misericordia, quasi come spartiacque tra la storia del figlio minore e quella del figlio maggiore, Luca incastona la perla di un primo piano sul volto e sul cuore del vero protagonista: <Quando ancora era lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si getto al collo e lo baciò> (15, 20). In un solo versetto ci viene svelato il volto di Dio e viene tracciato l’esigente cammino di conversione cui ciascuno di noi è chiamato per essere veramente figli di Dio. Eppure, sembra ricordarci il vangelo, non basta recuperare come il figlio minore o mantenere come il figlio maggiore il proprio statuto filiale, se questo non genera la capacità e la creatività di essere fratelli. Sembra proprio che sia la mancanza di compassione fraterna ad addolorare il cuore di questo padre piuttosto che la mancanza di rispetto verso la sua autorità paterna.

All’immagine così materna di un padre che accoglie nel suo seno il figlio che torna da lontano, si affianca un’immagine più drammatica che rischia di riguardarci ancora di più: <Suo padre allora uscì a supplicarlo> (15, 28) di ricordare quel legame di fratellanza che è indistruttibile quanto quello della figliolanza: <perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato> (15, 32). Non basta che il Padre ci ritrovi, è necessario che ci ritroviamo reciprocamente fino ad accettare di ricominciare a camminare fraternamente trasformando ogni giorno la <verga> (Mi 7, 14) in <compassione> (Lc 15, 20). La misericordia, diventa così più che una parola, diventa uno stile in cui la miseria e il cuore non sono che una sola cosa, quasi invocandosi reciprocamente, e riesce a mettere insieme gli <umiliati dalla vita> e la bellezza come amava ripetere Camus facendone i poli di un’esigente e difficile fedeltà alla nostra opera di umanizzazione. In tal modo ci viene ricordato, come si indicano le porte di sicurezza prima di decollare, che per quanto si possa cadere in basso, non si può mai cadere più in basso che nelle braccia di Dio che <perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità> (Sal 102, 3).

Convertire… in meraviglia

II settimana T.Q.

Le ultime parole della prima lettura riascoltate in un Venerdì di Quaresima ci portano direttamente sotto la croce del Signore: <lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua> (Gen 37, 23-24). La figura di Giuseppe e la sua storia così piena di malintesi e di dolore ci aiuta a preparare il cuore alla comprensione del mistero e dello scandalo pasquale: <Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto> (37, 28). Il salmo ci aiuta ad interpretare il racconto: <Davanti a loro mandò un uomo, Giuseppe, venduto come schiavo> (Sal 104, 17). Non è difficile immaginare quante volte il Signore Gesù deve aver letto e meditato la storia di Giuseppe preparandosi a vivere la sua propria storia in cui il malinteso e il rifiuto avrebbero avuto un così grande ruolo. La parabola raccontata dal Signore Gesù ci fa entrare nella comprensione che il Signore stesso ha del suo cammino verso la Pasqua e, al contempo, ci pone una domanda seria ed esigente: <Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?> (Mt 21, 40).

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo stare molto attenti per non firmare la nostra condanna per mancanza di consapevolezza e di vigilanza su noi stessi: <Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo> (Mt 21, 41). Eppure, sembra che l’attenzione del Signore Gesù vada oltre e si fa invito ad aguzzare lo sguardo e l’attenzione del cuore: <La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi> (21, 42). Questo versetto del salterio sarà un ritornello insistente nei giorni della ritrovata gioia pasquale ed è la memoria non solo delle meraviglie della risurrezione del Signore dalla morte, ma, in questo mistero, è la continua meraviglia per tutti quegli scarti di umanità che diventano il luogo privilegiato di elezione e di amore da parte di Dio a confusione di quanti coltivano la logica del semplice profitto personale. 

I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo sono sufficientemente furbi per capire che la parabola li riguarda profondamente eppure <ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta> (Mt 21, 46). A noi di scegliere se stare dalla parte della folla, che intuisce in Gesù il profeta dei tempi e dei modi nuovi di vivere veramente ed esigentemente da <fratelli> (Gen 37, 4), oppure di lasciarci dominare dalla cultura dello scarto che, infine, rischia di avvelenare la nostra stessa vita. Lavorare non solo per se stessi, ma per la gioia di tutti, diventa una vera rivoluzione che può veramente cambiare radicalmente e durevolmente il cammino della storia. Fare della propria vita non semplicemente un’esperienza tesa a coronare i nostri desideri e a soddisfare i nostri bisogni, ma un luogo in cui si possa veramente e gioiosamente condividere la mensa della vita come fratelli. Non bisogna dimenticare che fratelli non si nasce ma si diventa e questo cammino esige una disponibilità ad uscire da se stessi talora molto costosa oltre che sempre faticosa.

Sabato – 22 Marzo

Convertire… in corrente

II settimana T.Q.

La parola del profeta Geremia è la chiave di lettura per comprendere il senso più profondo della parabola raccontata dal Signore Gesù. In realtà, la differenza fondamentale tra quell’<uomo ricco> Lc 16, 19) e il <povero di nome Lazzaro> (16, 20) sta proprio nel <cuore> che, secondo la parola del profeta <difficilmente guarisce> (Ger 17, 9). Il fatto che sia difficile guarire il cuore non significa che non lo si possa guarire. Per farlo bisogna accettare, per rimanere nella parabola vegetale usata da Geremia, di impegnarsi quotidianamente nello stendere le proprie radici esistenziali <verso la corrente> (17, 8). Ciò che il ricco sembra non fare è di dare alla sua vita una corrente, richiudendola in una sorta di stagno ove l’acqua non scorre più, tanto da imputridire. Quella <porta> (Lc 16, 20) così scrupolosamente sbarrata per preservare la propria serenità e il proprio comodo, in realtà, non fa altro che interrompere il flusso della vita. Invece Lazzaro, pur nella sua estrema indigenza, sembra mantenersi vivo tanto che i <cani venivano a leccare le sue piaghe> (16, 21).

Certamente la parabola evangelica ci esorta ad essere attenti a coloro che stanno alla porta della nostra vita e ci chiedono condivisione e attenzione, ma ancora più urgentemente il Signore Gesù ci chiede di non dimenticare che la vitalità del nostro cuore e la sua salute spirituale è direttamente proporzionale alla sua capacità di non separarsi dalla corrente della vita. Anche a livello fisiologico il ruolo del cuore è di pompare il sangue per assicurare che la vita circoli. Dal punto di vista spirituale bisogna continuamente vigilare di non rinchiudersi per lasciare che la vita circoli e questo significa accettare che la vita disturbi e ci chieda continuamente il coraggio di fare un passo in più verso la corrente della vita per non rimanere inesorabilmente isolati. Da questo punto di vista le parole di Abramo più che una punizione non solo altro che una constatazione: <Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi> (16, 26).

Nell’iconografia orientale il giudizio finale è spesso rappresentato come un fiume di fuoco che sgorga dal trono di Cristo e sulle cui due sponde si tengono i salvati e i reprobi. La domanda si pone: <Perché gli uni sono bruciati da questo fuoco e gli altri ne sono rallegrati?>. Così risponde Michel Quenot: <Questo fuoco è l’amore di Dio. Quanti hanno amato lasciando che il calore dello Spirito radicasse nella loro vita, stanno tranquillamente accanto al fuoco, poiché il fuoco non brucia il fuoco. Quanti, invece, hanno coltivato l’odio, l’indifferenza verso gli altri fino ad indurire il loro cuore rendendolo sempre più freddo, non sopportano l’ardore del fuoco che li brucia. Così l’amore di Dio diventa il loro giudizio>1.


1. M. QUENOT, Personne n’a jamais parlé comme Lui, Saint Maurice 2010, p. 126.

Dare un nome

San Giuseppe.

Nell’annunciazione a Giuseppe secondo Matteo, l’angelo senza nome aiuta quest’uomo a passare dalla paura di dover rinunciare al suo sogno d’amore con Maria, alla gioia di poter sognare ancora più in grande. A Giuseppe viene data l’opportunità di iscrivere il suo amore in modo ancora più radicale nel disegno globale dell’amore tra Dio e l’umanità, tanto da diventare una storia assolutamente unica e non solo rara: <ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati> (Mt 1, 21). Dare il nome, nella tradizione biblica, ha un senso profondissimo e altissimo che suppone un’intimità di desiderio e di destino condiviso. In Giuseppe contempliamo il mistero della redenzione di ogni sogno della nostra umanità chiamato a trasfigurarsi in segno di un amore più grande che ci precede e ci accompagna. Per Giuseppe, l’accoglienza di Gesù come suo figlio e di Maria, non più solo come sua sposa amata e desiderata, ma come il segno di un compimento ben più grande della bellezza del proprio piccolo grande amore, è stata una vera trasfigurazione. Così il desiderio di ogni uomo di farsi un nome fino alla totale confusione di Babele si trasforma nella semplice accettazione di “dare un nome” attraverso la propria carne, il proprio sangue eppure ben più in là della propria carne e del proprio sangue perché <Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura> (Rm 4, 16).

Giuseppe incarna la possibilità che una creatura possa diventare icona dello stesso Creatore accettando e impegnandosi radicalmente in una cura che esige la castità di chi accetta di superare ogni forma di possesso sull’altro: <Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio> (2Sam 7, 14). Non c’è proprio spazio per una condiscendenza malaticcia che, come dice Claudel, parlando di Giuseppe <fa sorridere gli uomini superiori>. Il parallelo con Abramo va pesato con la memoria di ciò che avvenne sul monte Moria e di ciò che avvenne nel cuore di Giuseppe, quando dovette rivedere il suo sogno senza rinunciarvi, non senza rinunciare. In Giuseppe, padre del Signore, possiamo contemplare non un’umanità dimezzata dalla rinuncia al coronamento di un sogno d’amore secondo il proprio desiderio e le proprie prospettive, ma un’umanità portata a compimento attraverso un’accoglienza generosa del bisogno e della necessità dell’altro – la madre e il bambino – che rende quest’uomo persona fino in fondo.

Leggendo i Vangeli certamente scopriamo sempre di più e sempre meglio il volto e i sentimenti del Signore Gesù, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che l’umanità di Cristo fu forgiata alla scuola di questo padre che seppe portare, fino in fondo, il peso del proprio ruolo senza mai imporsi eppure accompagnando senza mai tirarsi indietro. La tradizione non ci tramanda neppure una parola di Giuseppe, forse perché molte delle sue parole – almeno le più importanti – sono quelle che amò ripetere il Signore confermandole sempre con quei gesti appresi nell’intimità virile e tenera della casa e della bottega di Nazaret.

Convertire… in spada

II settimana T.Q.

Le ultime parole della prima lettura rischiano di toglierci il sonno: <Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato> (Is 1, 20). Certamente è una minaccia, ma, ancor più certamente, questa parola rappresenta un’opportunità per dare alla propria vita una direzione sempre più capace di dare senso e profondo significato all’esistenza di tutti e di ciascuno. La spada minacciosa può e forse deve diventare il taglio necessario alla nostra vita per prendere decisamente una direzione chiara e operativa. Allora le parole del profeta arrivano direttamente al cuore del nostro combattimento quotidiano e vi portano la luce di un ordine continuamente desiderato e quotidianamente ritrovato: <Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova> (1, 16-17). Il cammino quaresimale è l’occasione propizia per trovare la forza e la decisione di fare tutta una serie di scelte che rimettono ordine nella nostra esistenza. Solo così potremo assumere come criterio per le nostre scelte e come orientamento per i nostri cammini l’attenzione e la cura del più debole senza dimenticare di avere occhi e cuore per la parte più debole di noi stessi.

Il Signore Gesù è capace di dare ancora più concretezza al taglio necessario per essere fedeli al suo Vangelo. Si tratta di tagliare ogni inutile ricerca dell’apparenza e, soprattutto, bisogna dare sempre più spazio alla cura della serenità nostra e dei nostri fratelli e sorelle, cercando radicalmente di non cadere nella trappola dell’ipocrisia mascherata di inutile devozione: <Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato> (Mt 23, 11). Questa parola del Signore non vuole certo essere una “pia esortazione”, è, invece, un’orientazione chiara del cammino discepolare continuamente chiamato a misurarsi con le esigenze di una rinuncia a se stessi e alla propria tendenza a mettersi al centro, per affrontare il buon combattimento di un continuo ri-orientamento della vita attraverso scelte concrete di decentramento. Come discepoli del Signore siamo chiamati ogni giorno a tagliare con tutto ciò che ci induce esigere titoli che ci permettano di legare <fardelli pesanti e difficili da portare> (23, 4).

La spada della conversione è posta nelle mani della nostra decisione per recidere le funi che legano, appesantiscono, paralizzano una vita di comunione e di solidarietà radicale che si gioca nella convinzione profonda di essere tutti e sempre fratelli senza presumere di essere <guide> (23, 10) di nessuno. Il Signore non ha certo paura né di affrontarci né, tantomeno, di essere affrontato, ma ci sfida alla relazione: <Su, venite e discutiamo> (Is 1, 18). Il primo passo per ogni cammino di conversione è la capacità e la volontà di liberare la parola accettando il rischio di una relazione che può richiederci di riconoscere i nostri limiti fino a richiederci un passo ulteriore nel coraggio e nell’umiltà: <Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve>!