Convertire… in meraviglia

II settimana T.Q.

Le ultime parole della prima lettura riascoltate in un Venerdì di Quaresima ci portano direttamente sotto la croce del Signore: <lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con le maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua> (Gen 37, 23-24). La figura di Giuseppe e la sua storia così piena di malintesi e di dolore ci aiuta a preparare il cuore alla comprensione del mistero e dello scandalo pasquale: <Passarono alcuni mercanti madianiti; essi tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla cisterna e per venti sicli d’argento vendettero Giuseppe agli Ismaeliti. Così Giuseppe fu condotto in Egitto> (37, 28). Il salmo ci aiuta ad interpretare il racconto: <Davanti a loro mandò un uomo, Giuseppe, venduto come schiavo> (Sal 104, 17). Non è difficile immaginare quante volte il Signore Gesù deve aver letto e meditato la storia di Giuseppe preparandosi a vivere la sua propria storia in cui il malinteso e il rifiuto avrebbero avuto un così grande ruolo. La parabola raccontata dal Signore Gesù ci fa entrare nella comprensione che il Signore stesso ha del suo cammino verso la Pasqua e, al contempo, ci pone una domanda seria ed esigente: <Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?> (Mt 21, 40).

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo stare molto attenti per non firmare la nostra condanna per mancanza di consapevolezza e di vigilanza su noi stessi: <Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo> (Mt 21, 41). Eppure, sembra che l’attenzione del Signore Gesù vada oltre e si fa invito ad aguzzare lo sguardo e l’attenzione del cuore: <La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi> (21, 42). Questo versetto del salterio sarà un ritornello insistente nei giorni della ritrovata gioia pasquale ed è la memoria non solo delle meraviglie della risurrezione del Signore dalla morte, ma, in questo mistero, è la continua meraviglia per tutti quegli scarti di umanità che diventano il luogo privilegiato di elezione e di amore da parte di Dio a confusione di quanti coltivano la logica del semplice profitto personale. 

I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo sono sufficientemente furbi per capire che la parabola li riguarda profondamente eppure <ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta> (Mt 21, 46). A noi di scegliere se stare dalla parte della folla, che intuisce in Gesù il profeta dei tempi e dei modi nuovi di vivere veramente ed esigentemente da <fratelli> (Gen 37, 4), oppure di lasciarci dominare dalla cultura dello scarto che, infine, rischia di avvelenare la nostra stessa vita. Lavorare non solo per se stessi, ma per la gioia di tutti, diventa una vera rivoluzione che può veramente cambiare radicalmente e durevolmente il cammino della storia. Fare della propria vita non semplicemente un’esperienza tesa a coronare i nostri desideri e a soddisfare i nostri bisogni, ma un luogo in cui si possa veramente e gioiosamente condividere la mensa della vita come fratelli. Non bisogna dimenticare che fratelli non si nasce ma si diventa e questo cammino esige una disponibilità ad uscire da se stessi talora molto costosa oltre che sempre faticosa.

Sabato – 22 Marzo

Convertire… in corrente

II settimana T.Q.

La parola del profeta Geremia è la chiave di lettura per comprendere il senso più profondo della parabola raccontata dal Signore Gesù. In realtà, la differenza fondamentale tra quell’<uomo ricco> Lc 16, 19) e il <povero di nome Lazzaro> (16, 20) sta proprio nel <cuore> che, secondo la parola del profeta <difficilmente guarisce> (Ger 17, 9). Il fatto che sia difficile guarire il cuore non significa che non lo si possa guarire. Per farlo bisogna accettare, per rimanere nella parabola vegetale usata da Geremia, di impegnarsi quotidianamente nello stendere le proprie radici esistenziali <verso la corrente> (17, 8). Ciò che il ricco sembra non fare è di dare alla sua vita una corrente, richiudendola in una sorta di stagno ove l’acqua non scorre più, tanto da imputridire. Quella <porta> (Lc 16, 20) così scrupolosamente sbarrata per preservare la propria serenità e il proprio comodo, in realtà, non fa altro che interrompere il flusso della vita. Invece Lazzaro, pur nella sua estrema indigenza, sembra mantenersi vivo tanto che i <cani venivano a leccare le sue piaghe> (16, 21).

Certamente la parabola evangelica ci esorta ad essere attenti a coloro che stanno alla porta della nostra vita e ci chiedono condivisione e attenzione, ma ancora più urgentemente il Signore Gesù ci chiede di non dimenticare che la vitalità del nostro cuore e la sua salute spirituale è direttamente proporzionale alla sua capacità di non separarsi dalla corrente della vita. Anche a livello fisiologico il ruolo del cuore è di pompare il sangue per assicurare che la vita circoli. Dal punto di vista spirituale bisogna continuamente vigilare di non rinchiudersi per lasciare che la vita circoli e questo significa accettare che la vita disturbi e ci chieda continuamente il coraggio di fare un passo in più verso la corrente della vita per non rimanere inesorabilmente isolati. Da questo punto di vista le parole di Abramo più che una punizione non solo altro che una constatazione: <Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi> (16, 26).

Nell’iconografia orientale il giudizio finale è spesso rappresentato come un fiume di fuoco che sgorga dal trono di Cristo e sulle cui due sponde si tengono i salvati e i reprobi. La domanda si pone: <Perché gli uni sono bruciati da questo fuoco e gli altri ne sono rallegrati?>. Così risponde Michel Quenot: <Questo fuoco è l’amore di Dio. Quanti hanno amato lasciando che il calore dello Spirito radicasse nella loro vita, stanno tranquillamente accanto al fuoco, poiché il fuoco non brucia il fuoco. Quanti, invece, hanno coltivato l’odio, l’indifferenza verso gli altri fino ad indurire il loro cuore rendendolo sempre più freddo, non sopportano l’ardore del fuoco che li brucia. Così l’amore di Dio diventa il loro giudizio>1.


1. M. QUENOT, Personne n’a jamais parlé comme Lui, Saint Maurice 2010, p. 126.

Dare un nome

San Giuseppe.

Nell’annunciazione a Giuseppe secondo Matteo, l’angelo senza nome aiuta quest’uomo a passare dalla paura di dover rinunciare al suo sogno d’amore con Maria, alla gioia di poter sognare ancora più in grande. A Giuseppe viene data l’opportunità di iscrivere il suo amore in modo ancora più radicale nel disegno globale dell’amore tra Dio e l’umanità, tanto da diventare una storia assolutamente unica e non solo rara: <ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati> (Mt 1, 21). Dare il nome, nella tradizione biblica, ha un senso profondissimo e altissimo che suppone un’intimità di desiderio e di destino condiviso. In Giuseppe contempliamo il mistero della redenzione di ogni sogno della nostra umanità chiamato a trasfigurarsi in segno di un amore più grande che ci precede e ci accompagna. Per Giuseppe, l’accoglienza di Gesù come suo figlio e di Maria, non più solo come sua sposa amata e desiderata, ma come il segno di un compimento ben più grande della bellezza del proprio piccolo grande amore, è stata una vera trasfigurazione. Così il desiderio di ogni uomo di farsi un nome fino alla totale confusione di Babele si trasforma nella semplice accettazione di “dare un nome” attraverso la propria carne, il proprio sangue eppure ben più in là della propria carne e del proprio sangue perché <Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura> (Rm 4, 16).

Giuseppe incarna la possibilità che una creatura possa diventare icona dello stesso Creatore accettando e impegnandosi radicalmente in una cura che esige la castità di chi accetta di superare ogni forma di possesso sull’altro: <Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio> (2Sam 7, 14). Non c’è proprio spazio per una condiscendenza malaticcia che, come dice Claudel, parlando di Giuseppe <fa sorridere gli uomini superiori>. Il parallelo con Abramo va pesato con la memoria di ciò che avvenne sul monte Moria e di ciò che avvenne nel cuore di Giuseppe, quando dovette rivedere il suo sogno senza rinunciarvi, non senza rinunciare. In Giuseppe, padre del Signore, possiamo contemplare non un’umanità dimezzata dalla rinuncia al coronamento di un sogno d’amore secondo il proprio desiderio e le proprie prospettive, ma un’umanità portata a compimento attraverso un’accoglienza generosa del bisogno e della necessità dell’altro – la madre e il bambino – che rende quest’uomo persona fino in fondo.

Leggendo i Vangeli certamente scopriamo sempre di più e sempre meglio il volto e i sentimenti del Signore Gesù, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che l’umanità di Cristo fu forgiata alla scuola di questo padre che seppe portare, fino in fondo, il peso del proprio ruolo senza mai imporsi eppure accompagnando senza mai tirarsi indietro. La tradizione non ci tramanda neppure una parola di Giuseppe, forse perché molte delle sue parole – almeno le più importanti – sono quelle che amò ripetere il Signore confermandole sempre con quei gesti appresi nell’intimità virile e tenera della casa e della bottega di Nazaret.

Convertire… in spada

II settimana T.Q.

Le ultime parole della prima lettura rischiano di toglierci il sonno: <Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato> (Is 1, 20). Certamente è una minaccia, ma, ancor più certamente, questa parola rappresenta un’opportunità per dare alla propria vita una direzione sempre più capace di dare senso e profondo significato all’esistenza di tutti e di ciascuno. La spada minacciosa può e forse deve diventare il taglio necessario alla nostra vita per prendere decisamente una direzione chiara e operativa. Allora le parole del profeta arrivano direttamente al cuore del nostro combattimento quotidiano e vi portano la luce di un ordine continuamente desiderato e quotidianamente ritrovato: <Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova> (1, 16-17). Il cammino quaresimale è l’occasione propizia per trovare la forza e la decisione di fare tutta una serie di scelte che rimettono ordine nella nostra esistenza. Solo così potremo assumere come criterio per le nostre scelte e come orientamento per i nostri cammini l’attenzione e la cura del più debole senza dimenticare di avere occhi e cuore per la parte più debole di noi stessi.

Il Signore Gesù è capace di dare ancora più concretezza al taglio necessario per essere fedeli al suo Vangelo. Si tratta di tagliare ogni inutile ricerca dell’apparenza e, soprattutto, bisogna dare sempre più spazio alla cura della serenità nostra e dei nostri fratelli e sorelle, cercando radicalmente di non cadere nella trappola dell’ipocrisia mascherata di inutile devozione: <Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato> (Mt 23, 11). Questa parola del Signore non vuole certo essere una “pia esortazione”, è, invece, un’orientazione chiara del cammino discepolare continuamente chiamato a misurarsi con le esigenze di una rinuncia a se stessi e alla propria tendenza a mettersi al centro, per affrontare il buon combattimento di un continuo ri-orientamento della vita attraverso scelte concrete di decentramento. Come discepoli del Signore siamo chiamati ogni giorno a tagliare con tutto ciò che ci induce esigere titoli che ci permettano di legare <fardelli pesanti e difficili da portare> (23, 4).

La spada della conversione è posta nelle mani della nostra decisione per recidere le funi che legano, appesantiscono, paralizzano una vita di comunione e di solidarietà radicale che si gioca nella convinzione profonda di essere tutti e sempre fratelli senza presumere di essere <guide> (23, 10) di nessuno. Il Signore non ha certo paura né di affrontarci né, tantomeno, di essere affrontato, ma ci sfida alla relazione: <Su, venite e discutiamo> (Is 1, 18). Il primo passo per ogni cammino di conversione è la capacità e la volontà di liberare la parola accettando il rischio di una relazione che può richiederci di riconoscere i nostri limiti fino a richiederci un passo ulteriore nel coraggio e nell’umiltà: <Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve>!

Convertire… in consapevolezza

II settimana T.Q.

Questa nuova tappa del nostro cammino quaresimale, si apre all’insegna di una crescita in consapevolezza che ci mette in grado di fare un passo ulteriore nella capacità di decisione. Il profeta Daniele si fa interprete di quello che, in termini moderni, chiameremmo stream of consciousness. Non è raro, ed è altamente importante, che ci troviamo, talora, di fronte alla nostra coscienza con un senso di vergogna di e di smarrimento davanti a ciò che non siamo riusciti a fare e a ciò che, nonostante tutte le nostre buone intenzioni e decisioni sempre rimandate, non siamo riusciti a mettere in atto nella nostra vita. La preghiera diventa terapeutica perché ci permette da una parte di nominare la nostra debolezza e guardare in faccia la nostra fragilità senza paura e con lucidità e, dall’altra, ci aiuta a non rassegnarci a noi stessi. Il profeta Daniele ci offre il vocabolario della presa di coscienza, senza dimenticare di assicurarci la sintassi della fede in Dio e in noi stessi come soggetti che restano sempre capaci di cambiamento e di miglioramento. Se la parola che ci tocca forse di più perché ci rappresenta è questa: <Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri principi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te> non va sottovalutata l’ultima parola che non è su noi stessi e suona come una professione di fede: <al Signore, nostro Dio, la misericordia e il perdono, perché ci siamo ribellati contro di lui> (Dn 9, 8). Non è certo un caso che il testo cominci proprio così: <Signore Dio, grande e tremendo, che sei fedele all’alleanza e benevolo verso coloro che ti amano e osservano i tuoi comandamenti> (9, 4).

La parola del Signore Gesù sembra indicarci la strada per uscire da questo impasse di <vergogna> (9, 7) attraverso un recupero di dinamismo e di creatività. Tutto ciò si fa esortazione a sognare su noi stessi come capaci di andare oltre gli stretti confini – perlopiù asfissianti – di noi stessi: <Siate misericordiosi, come il padre vostro è misericordioso> (Lc 6, 36) Questa parola del Signore è una parola medica che dà sollievo alla nostra più antica e profonda ferita. Quella di esserci convinti attraverso l’esperienza delle nostre fragilità, di non essere in grado di assomigliare a Dio la cui immagine pure sentiamo essere il segreto e l’essenza più profonda della nostra identità. Pertanto il Signore ci sprona a credere che siamo capaci di essere come Dio e non nella logica della tentazione diabolica che ci fa immaginare chissà quali privilegi e chissà quali potenze, ma nella logica di un amore capace di dono unilaterale e assoluto: <Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurata a voi in cambio> (6, 38).

L’invito all’amore fa tutt’uno con l’invito a perdonare senza misura e senza calcolo non come “operazione virtuosa”, ma come recupero delle proprie “possibilità divine”. Il nostro cammino quaresimale continua all’insegna di una profonda consapevolezza dei nostri limiti intimamente e radicalmente connessa all’invincibile coscienza del mistero divino che ci abita così profondamente da essere il trampolino sempre possibile della speranza non solo per noi stessi, ma per tutti: <Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati> (6, 37). Se noi svuotiamo davanti a Dio il sacco del nostro cuore, l’Altissimo lo riempirà di un amore debordante, un amore che colmerà il nostro vuoto e ci permetterà di farci canali di benevolenza e di perdono.

Convertire… il fuori

II Domenica T.Q. 

Questa seconda grande tappa del nostro quaresimale è ritmata da una memoria che si fa monito o, più precisamente, indicazione di rotta: <Dio condusse fuori Abram e gli disse: “Guarda in cielo…> (Gn 15, 5). Non sembra poi così diverso quello che fa il Signore Gesù con i suoi discepoli quando: <prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare> (Lc 9, 28). L’accostamento dei due testi ci aiuta a comprendere meglio il senso di uno degli elementi caratteristici del cammino quaresimale che, unitamente al digiuno e all’elemosina, è proprio la preghiera. Questa sembra non essere altro che il consenso della nostra umanità ad uscire fuori dai confini della propria abitudine per aprirsi al <cielo> e per salire con la dovuta fatica <il monte>. Sia per Abram che per Gesù e i suoi discepoli si tratta in realtà di acconsentire ad una trasfigurazione – termine che Luca non usa – del proprio sguardo attraverso cui leggere la realtà con un’intelligenza nuova.

Lo sguardo trasfigurato è propriamente quello degli innamorati o di una puerpera nei confronti del proprio neonato… si tratta di una capacità di vedere oltre fino a cogliere ciò che gli altri non possono nemmeno immaginare. Se questo è il lato stupendo dell’amore, non bisogna mai dimenticare che entrare in questo modo di guardare che riflette il modo abituale con cui l’Altissimo ci guarda e ci trasfigura continuamente, non bisogna dimenticare che vi è connessa la necessità di una immolazione imprescindibile. Per Abram nella notte del passaggio di Dio come Signore della sua vita come per i discepoli nella notte di condivisione della preghiera del loro Maestro c’è un passo da fare che esige la disponibilità a immolare il proprio modo di pensare e persino di avere paura. Il <terrore> (Gn 15, 12) che assale Abram non è poi molto diverso della <paura> (Lc 9, 34) che stringe il cuore dei discepoli davanti a quello strano discorso che Gesù intesse con Mosè ed Elia circa quel <suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme> (Lc 9, 31).

L’apostolo Paolo conosce bene quanto sia difficile entrare e rimanere nel cammino pasquale tanto da implorare i suo fratelli nella fede <con le lacrime agli occhi> perché nessuno imiti o si lasci ammaliare dai <nemici della croce di Cristo> (Fil 3, 18). In questa seconda domenica di quaresima ci è chiesto di fare un ulteriore passo <fuori> per ascendere con Gesù verso <il monte> che già prefigura il Calvario che diventa il trampolino imprescindibile per sperimentare la gioia di avere la <cittadinanza nei cieli> (3, 20).

Convertir… dehors

II Dimanche T.Q. –

Cette seconde grande étape de notre Carême est rythmée par un souvenir qui devient un avertissement, ou plus précisément une indication d’itinéraire : «  Dieu conduisit Abraham dehors et lui dit : «  Regarde le ciel… » ( Gn 15, 5 ). Ce n’est pas tellement différent de ce que fait le Seigneur Jésus avec ses disciples lorsqu’ « il prit avec lui Pierre, Jean et Jacques et grimpa sur la montagne pour prier » ( Lc 9, 28 ). Le rapprochement des deux textes nous aide à mieux comprendre le sens de l’un des éléments caractéristiques du chemin de Carême qui, avec le jeûne et l’aumône est vraiment la prière. Cela semble ne rien être d’autre que le consentement de notre humanité à sortir au-delà des frontières de notre propre confort pour s’ouvrir au « ciel » et grimper avec l’effort exigé sur « la montagne ». Que ce soit pour Abraham ou pour Jésus et ses disciples, il s’agit en réalité de consentir à une transfiguration – expression que Luc n’emploie pas – de notre regard pour y lire la réalité avec une nouvelle intelligence.

Le regard transfiguré est justement celui des amoureux ou d’une jeune mère face à son nouveau-né…il s’agit d’une capacité de voir plus loin, jusqu’à découvrir ce que les autres ne peuvent même pas imaginer. Si cela est le côté merveilleux de l’amour, il ne faut jamais oublier qu’entrer dans cette manière de voir, reflet du regard du Très-haut qui nous transfigure continuellement, nécessite l’indispensable connexion d’une immolation Pour Abraham, dans la nuit du passage de Dieu comme Seigneur de sa vie, tout comme pour les disciples pendant la nuit de partage de la prière avec leur Maître, il y a un pas à faire qui exige la disponibilité d’immoler sa propre façon de penser et même d’avoir peur. La «  terreur » ( Gn 15, 12 ) qui assaille Abraham n’est pas très différente de la «  peur » ( Lc 9, 34 ) qui étreint le coeur des disciples face à l’étrange discours que Jésus  entretient avec Moïse et Elie concernant  «  son exode, qu’il voulait accomplir vers Jérusalem » ( Lc 9, 31 ).

L’apôtre Paul connaît bien la difficulté d’entrer et de rester sur le chemin pascal jusqu’à implorer ses frères dans la foi «  les larmes aux yeux » afin que personne n’imite ou se laisse fasciner par «  les ennemis de la croix du Christ » ( Ph 3, 18 ). En ce deuxième dimanche de Carême, il nous est demandé de faire un pas supplémentaire «  au dehors » pour monter avec Jésus  vers «  la montagne » qui préfigure déjà le Calvaire qui devient le tremplin indispensable pour expérimenter la joie d’avoir la «  citoyenneté dans les cieux » ( 3, 20 ).

Convertire… in pratica

I settimana T.Q.

Questa prima settimana di quaresima termina con la ripresa della conclusione del discorso della montagna. Le parole rivolte dal Signore Gesù sul monte aprono ai discepoli, di ogni luogo e di ogni tempo, un orizzonte amplissimo. A ciascuno è offerta la sfida di una vita beata che non ha nulla a che vedere con un modo di vivere spensierato e autoreferenziale. Al contrario, si tratta di camminare, giorno dopo giorno, in una comunione con l’Altissimo capace di renderci veramente e visibilmente suoi figli: <Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste> (Mt 5, 48). Potremmo chiudere il cerchio di questa parola conclusiva del discorso della Montagna annodandolo alle prime parole pronunciate dal Signore Gesù e così verrebbe fuori un’esortazione che potrebbe suonare così: <Siate beati come è beato il Padre vostro che è nei cieli>! Si tratta di una beatitudine che passa attraverso la disposizione ad essere capaci di andare oltre ogni barriera relazionale, sperando contro ogni evidenza e capaci di offrire un perdono che, prima di liberare l’altro, libera il nostro stesso cuore da legami ammalati e ammalanti.

La parola del Signore Gesù ci potrà sembrare forse troppo esigente, in realtà è sommamente liberante: <Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete?> (5, 46). Non si tratta qui di una <ricompensa> intesa come premio di consolazione o di riconoscimento, ma di una ricompensa beatificante capace di farci sentire all’altezza della nostra umanità formata ad immagine e somiglianza di Dio. L’Altissimo non trae la propria consistenza e non matura le proprie scelte in modo condizionato dalla risposta o dal risultato, ma in modo libero e in obbedienza al proprio cuore. La parola del Deuteronomio non lascia scampo: <Oggi il Signore, tuo Dio, ti comanda di mettere in pratica queste leggi e queste norme> (Dt 26, 16). Si tratta di essere capaci di azione proprio per imitare il Creatore e Signore della nostra vita che continuamente sostiene la nostra esistenza e non ritrae il suo soffio di creazione che ci permette di vivere, di amare, di scegliere, di desiderare.

Nella fatica del desiderio che è la nostra stessa avventura umana, non possiamo disperdere le forze, ma abbiamo il dovere – per noi e per gli altri – di ottimizzare il flusso della nostra energia senza disperdere il dono che abbiamo ricevuto e di cui siamo responsabili e questo si rende praticabile e possibile ad una condizione: <solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e ascolterai la sua voce> (Dt 26, 17). Amare perfino l’inamabile significa inserire nel mondo una logica più potente e più efficace di ogni sospetto e di ogni male. All’equilibrio contabile di un amore da “bancomat”, il Signore Gesù oppone il disequilibrio del dare, del pregare, del porgere, del benedire, del prestare, del fare per primi e solo per fedeltà a quell’immagine che portiamo dentro di noi e che ci forma da dentro tanto da non lasciarci deformare da ciò che avviene fuori di noi. Tutto questo nell’<oggi> concreto delle esigenze del presente dell’amore assoluto e incarnato che trova il suo fondamento e le proprie ragioni solo nel cuore.

Convertire… in riflessione

I settimana T.Q.

Nella liturgia della parola di oggi sembra proprio che il Signore inviti ciascuno di noi ad un “sacrificio” del tutto particolare: il “sacrificium intellectus”. Non si tratta di rinunciare a pensare con la propria testa, ma a pensare di più che con la testa: convertire in ri-flessione tutte le nostre idee preconcette e i nostri chiodi fissi. Il profeta Ezechiele, nella prima lettura, si mette dalla parte di Dio e ne considera l’atteggiamento benevolo verso chi è in grado di cambiare e di passare dal male al bene: <Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà> (Ez 18, 28). Lo sguardo del profeta sull’uomo è come totalmente conquistato da questa innata capacità di riflessione che riflette la divina capacità di Dio stesso di ri-flettere e di cambiare.

Questa riflessione – ri/flessione – non è altro che la capacità propriamente divino-umana di uscire dalla propria rigidità per piegarsi – flettersi – sul reale con la dolce grazia e, al contempo, rigorosa esattezza di uno specchio. Lo specchio che permette di riflettere il reale permettendo di riflettere sul reale è uno strumento di orientamento – ad esempio nella navigazione per tenere sott’occhio le stelle – e la riflessione è ciò che può dare e rettificare l’orientamento degli atteggiamenti: <Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione> (Mt 5, 25).

Il Signore Gesù, con il realismo proprio dell’evangelo, non si scandalizza di nulla e riconosce la possibilità che l’uomo arrivi ad <uccidere> (Mt 5, 21), ad insultare l’altro chiamandolo <stupido> (Mt 5, 22). Così pure contempla la possibilità di accostarsi all’altare di Dio avendo non solo un dono per Dio ma anche <qualcosa contro> (Mt 5, 23) il fratello. Al Signore Gesù non sfugge nemmeno la possibilità – da Lui stesso sperimentata in prima persona – di avere un <avversario> (Mt 5, 25). Tutto questo – sembra dirci il Signore – è possibile e non c’è da meravigliarsi che accada. Fa parte del concreto e del quotidiano in ogni tempo e per ogni persona ma tutto questo può portare ad una rigidità inflessibile oppure ad una rinnovata e approfondita volontà di riflettere. Ogni inimicizia, infatti, è il frutto di un profondo – talora profondissimo – baratro di incomprensione! Ogni <avversario> (Mt 5, 25) è una creatura della chiusura su se stessi che non rende possibile – talora nostro malgrado – di rendere l’ad-versario un con-versario. Come, infatti, dimenticare che i nemici sono solo degli amici mancati e verso cui l’unico sentimento che non riusciamo a nutrire è proprio l’indifferenza?

Il Signore Gesù ci vuole oggi mettere in guardia dal risultato tremendo a cui l’incapacità di cambiare direzione per mancanza di riflessione può infine portare: <egli morirà> (Ez 18, 25). Il vero pericolo della nostra vita rischia di non essere quello di <uccidere> (Mt 5, 21) ma quello altrettanto grave del suicidio. Ogni volta che ci separiamo dal fratello non facciamo che condannare noi stessi ad una solitudine mortifera. Forse se Caino avesse riflettuto sul suo stato d’animo e prima di presentarsi <davanti all’altare> (Mt 5, 23) di Dio si fosse presentato a suo fratello Abele per riconciliarsi con lui accettando semplicemente la sua esistenza… la storia dell’umanità sarebbe stata e sarebbe ancora diversa. Ora tocca a noi di invertire la rotta della storia. Cominciamo a riflettere, nella nostra vita, la strada tracciata tra le stelle attraverso lo specchio ben pulito del nostro cuore.

Convertire… in più

I settimana T.Q.

Il Signore Gesù ci chiede una conversione del cuore che tocca le profondità della nostra intelligenza. Il santo viaggio che stiamo interiormente vivendo per camminare e salire verso la Pasqua del Signore ci chiede di elevare sempre di più i criteri di discernimento su cui rinnovare continuamente la nostra vita. L’invito del Signore Gesù è una spinta a lasciarci sempre più formare dal nostro incontro con lo sguardo trasformante del Padre in cui ritroviamo la nostra più vera identità: <Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono> (Mt 7, 11). Il salmista mette sulla nostra bocca la parola più adatta per ringraziare e per prendere coscienza di questo continuo flusso di grazia che anima e assicura il flusso di vita che da Dio, continuamente, ci viene donato per continuare a camminare in quello che potremmo definire il processo di recupero della nostra somiglianza filiale: <Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza> (Sal 137, 3).

L’atteggiamento e le parole con cui Ester1 si rivolge al Signore suo Dio per impetrare la sua misericordia a favore del popolo minacciato di morte ci aiutano ad imparare l’alfabeto della preghiera senza il quale non possiamo scrivere una pagina di vita in cui si possa leggere un tratto di quella storia di misericordia e di amore che segna e sostiene lo stesso mistero della vita. Ester prima di tutto <si prostrò a terra con le sue ancelle da mattina a sera> (Est 4, 17p) e solo poi gridò al Signore <Vieni in soccorso…> (4, 17gg). Potremmo definire questo momento come il “Getsemani” di Ester la quale – per tre giorni – deve gestire e attraversare, consapevolmente e integralmente, la sua <angoscia>. Il testo greco esplicita in modo psicologico l’angoscia della regina, mentre la tradizione ebraica ne affida l’evocazione al segno eloquente del digiuno, la cui cifra si può solo dedurre per contrasto da ciò che avviene dopo: <quando ebbe finito di pregare, ella si tolse gli abiti servili e si rivesti di quelli sontuosi>.

La preghiera di Ester – nel testo ebraico – fa tutt’uno con il suo corpo e non ha bisogno di essere esplicitata ulteriormente. Ester sembra aver appreso in modo raffinato, alla scuola di Egai, a usare la grammatica del suo corpo come un vero e proprio mezzo di comunicazione con la propria interiorità e con il mondo circostante usandone i vari linguaggi e miscelando sapientemente le diverse tonalità. Nei suoi gesti, che il testo greco esplicita in modo accurato, la regina Ester mostra di avere piena consapevolezza di non accordare a se stessa un valore speciale tanto da rischiare la sua vita senza neanche sentire di avere, per questo, un particolare merito. La domanda del Signore Gesù e il suo camminare deciso verso la consumazione della sua Pasqua ci interrogano e ci atterrano: <Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?> (Mt 7, 9).

Per avere il coraggio di una preghiera audace bisogna imitare Ester che trova la forza e lo stile della sua preghiera <dai libri dei miei antenati> (4, 17aa). Ester cerca le parole e i modi della preghiera, non è una temeraria, ma è una donna in ricerca, in cammino, in ascolto… una donna che sa tendere la mano della sua povertà fino a lasciarla riempire da Dio con una misura traboccante di passione e di compassione di cui si fa canale per tutti.


1. Fratel MichaelDavide, La parabola di Ester. Con il male si scherza, San Paolo 2014.