Fratelli tutti

Maria Madre della Chiesa –

Non siamo ancora abituati a vivere questa memoria mariana istituita da papa Francesco per il giorno dopo la solennità della Pentecoste. Il testo degli Atti degli Apostoli proposto per la Liturgia della Parola risuona come una sorta di protocollo per la vita della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo: <Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi> (At 1, 13). Laddove i Dodici, quasi certamente accompagnati e non solo serviti dalle donne, avevano vissuto il momento della cena pasquale alla vigilia della passione del Signore, il nucleo fondamentale della prima comunità dei discepoli del Crocifisso Risorto, attende il dono promesso dello Spirito. Secondo la cronologia lucana, se la comunione nella carità è il frutto più maturo dell’effusione dello Spirito, ne è pure la premessa essenziale: <Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui> (1, 14).

Questa memoria voluta da papa Francesco per l’intera Chiesa cattolica assume un significato emblematico alla luce dell’ultima enciclica di papa Francesco firmata sulla tomba del Poverello alla vigilia della sua festa: <”Fratelli tutti, scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui”. Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita>. 

Il seme di questa universale fraternità è stato fatto cadere si piedi della croce del nostro amato Signore nel momento in cui redasse il suo testamento di tenerezza con la penna della croce e l’inchiostro indelebile del suo sangue versato: <Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé> (Gv 19, 25-27. 

All’indomani dello spegnimento del cero pasquale, che ha rallegrato con la sua colonna di luce le nostre assemblee liturgiche, siamo chiamati a ritornare sotto l’albero della croce. Là possiamo cogliere il frutto non proibito di una tenerezza e di un amore che sono l’univo vero antidoto ad ogni tentazione di regressione all’autoreferenzialità mortifera. La <paura> (Gen 3, 10) sperimentata dalla nostra umanità subito dopo aver acconsentito alla suggestione di potersi dare la pienezza di vita prendendola con le proprie mani, si trasforma in <stupore> (Mc 16, 8) rinnovato. Dopo aver celebrato di nuovo la Pasqua, riprendiamo il nostro cammino nel tempo ordinario nello stupore di un amore che non si lascia vincere da nessuna <paura> perché radicato nella bellezza di camminare insieme e nella promessa che siamo comunque sorelle tutte e fratelli tutti.

Il tuo nome è Altro, alleluia!

PENTECOSTE

La promessa che il Signore Gesù fa ai suoi discepoli alla vigilia della sua passione oggi risuona al nostro cuore in tutta la sua forza e profondità: <Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre>. Ogni volta che facciamo esperienza di altro al di fuori di noi, ogni volta che ci apriamo all’altro… è Pentecoste. La maturità del dono pasquale di Cristo Risorto è come un frutto che finalmente si fa cogliere e, volentieri, si fa gustare per trasmettere ad altri quella vita che ha saputo accogliere in sé. Infatti, l’esperienza non certo vuole morire, con se stessa, ma, per sua natura, chiede di essere trasmessa gioiosamente. Meditando sul mistero della Pentecoste, Antonio da Padova così contempla: <Un rombo accompagna l’arrivo di colui che veniva ad ammaestrare i fedeli. Notate quanto questo si accorda con ciò che leggiamo nell’Esodo: “Appunto il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo fu scosso da tremore” (19,16). Il primo giorno fu l’Incarnazione di Cristo; il secondo fu la sua Passione; il terzo giorno, è la missione dello Spirito Santo. Questo giorno sta arrivando: si sente il tuono, si ode un suono fortissimo; i lampi brillano – i miracoli degli apostoli – una nube densa – la compunzione del cuore e la penitenza – copre il monte, il popolo di Gerusalemme>1.

In realtà, siamo al cinquantesimo giorno dopo la Pasqua di risurrezione, ma viviamo, ancora una volta e in modo ancora più intenso, la grazia del primo e del terzo, del settimo e dell’ottavo giorno che simbolicamente rimandano sempre ad un passaggio della grazia che ci permette di accogliere i doni divini per farli fruttificare nella nostra vita. La mattina di Pentecoste è per la Chiesa l’inizio del suo porsi al cuore dell’umanità come sale e come lievito, capaci di scomparire senza per questo essere assenti. Dopo il trauma della passione e lo shock della risurrezione, finalmente gli apostoli vengono spinti fuori dal cenacolo per rivelarsi come la Chiesa che sta sulla soglia ove l’incontro e il confronto generoso con l’altro è obbligato e desiderato. Proprio quando lo Spirito promesso dal Risorto finalmente <riempì tutta la casa dove stavano> (At 2, 2), i discepoli non sentono più il bisogno di trattenersi all’interno, ma vengono come catapultati all’esterno per farsi prossimi a tutti. 

La vita irrompe come <un rombo dal cielo> (At 2, 2) perché viene da oltre noi stessi e le nostre storie penetrando magnificamente nella nostra esistenza! La vita fa irruzione come <come vento gagliardo> (2, 2) e penetra in ogni angolo più recondito del nostro cuore scuotendoci fin nelle pieghe più nascoste. La vita è come <lingue di fuoco> (2, 3) e si comunica a noi come particella divina che attende di assumere i tratti di un volto preciso, il nostro e un timbro speciale quello della <nostra lingua nativa> (2, 8) che ci definisce fino in fondo, consegnandoci all’altro in dono d’amore gratuito, totale… e in tutta la sua vulnerabilità. Portando a compimento i giorni della letizia pasquale, siamo richiamati all’urgenza di fare posto a quel principio Altro che è la presenza dello Spirito del Risorto al cuore della nostra vita di credenti, presenza che fa di noi il Corpo di Cristo, la Chiesa che non è mai per se stessa, ma per il mondo!


1. ANTONIO DA PADOVA, Omelie per la domenica e le solennità dei santi.

Ton nom est Autre, alléluia !

PENTECOTE –

La promesse que le Seigneur Jésus fait à ses disciples à la veille de sa passion, résonne aujourd’hui dans notre coeur avec toute sa force et sa profondeur : «  Si vous m’aimez, vous observerez mes commandements ; et moi, je prierai le Père et il vous donnera un autre Paraclet pour qu’il reste avec vous pour toujours ». Chaque fois que nous faisons l’expérience de quelque chose d’autre, en dehors de nous, chaque fois que nous nous ouvrons à l’autre…c’est la Pentecôte. La maturité du don pascal du Christ ressuscité est comme un fruit qui se laisse finalement cueillir et, qui, volontiers se laisse goûter pour transmettre aux autres cette vie qu’il a su accueillir en lui. En fait, l’expérience ne cherche pas à disparaître par elle-même, mais, par sa nature, elle demande à être transmise joyeusement. En méditant sur le mystère de la Pentecôte, voici la contemplation d’’Antoine de Padoue : «  Un grondement accompagna l’arrivée de celui qui venait enseigner les fidèles. Remarquez comme cela correspond à ce que nous lisons dans l ‘Exode : «  Dès le troisième jour, à l’aube, il y eut des tonnerres, des lumières et une nuée dense sur la montagne et un son très fort de trompette : tout le peuple fut secoué par des tremblements » ( 19, 16 ). Le premier jour fut l’Incarnation du Christ ; le second fut sa Passion ; le troisième jour est la mission du Saint Esprit. Ce jour est en train d’arriver : l’on entend le tonnerre, l’on perçoit un bruit très fort ; les lumières brillent – les miracles des apôtres – une nuée dense – le mélange du coeur et de la pénitence – couvre la montagne, le peuple de Jérusalem »1.

En réalité, nous sommes au cinquantième jour après la Pâque de la Résurrection, mais nous vivons, encore une fois et de façon plus intense, la grâce du premier et du troisième, du septième et du huitième jour qui, nous renvoient  toujours symboliquement  à un passage de la grâce qui nous permet d’accueillir les dons divins pour les faire fructifier dans notre vie. Le matin de Pentecôte est pour l’Église, le début de sa façon d’être au coeur de l’humanité comme le sel et le levain, capables de disparaître sans pour cela être absents. Après le traumatisme de la passion et le choc de la résurrection, les apôtres sont finalement poussés hors du Cénacle pour révéler au début de l’Église combien la rencontre et la confrontation généreuse avec l’autre est obligée et désirée. Au moment où l’Esprit promis par le Ressuscité «  remplit toute la maison où ils se trouvaient » ( Ac 2, 2 ), les disciples n’éprouvent plus le besoin de se tenir à l’intérieur, mais sont comme catapultés à l’extérieur pour se faire proches de tous.

La vie fait irruption comme «  un grondement du ciel » ( Ac 2,2) car elle vient de plus loin que nous et nos histoires pénètrent magnifiquement dans notre existence ! La vie fait irruption comme «  un vent impétueux » ( 2,2 ) et il pénètre dans chaque angle le plus reculé de notre coeur nous secouant jusque dans les replis les plus cachés. La vie est comme des «  langues de feu » ( 2, 3 ) et se communique à nous comme une parcelle divine qui attend d’assumer les traits d’un visage précis, le nôtre a un timbre spécial : celui de «  notre langue maternelle » ( 2, 8 ) qui nous définit entièrement, s’offrant à l’autre en un don d’amour gratuit, total…dans toute la vulnérabilité. En accomplissant les jours de la joie pascale, nous sommes rappelés à l’urgence de laisser une place à ce fondement de l’Autre qui est la présence de l’Esprit du Ressuscité au coeur de notre vie de croyants, présence qui fait de nous le Corps du Christ, l’Église qui n’est jamais pour elle-même, mais pour le monde !


1. ANTOINE DE PADOUE, Omelie pour le dimanche et les solennités des saints.

Il tuo nome è Affitto, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Alla vigilia di Pentecoste ci congediamo dalla rilettura annuale degli Atti degli Apostoli con quest’immagine apparentemente così prosaica, Alla eppure così densa di significato: <Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento> (At 28, 30-31). In questa vita siamo veramente tutti <in affitto> e sta a noi – al nostro impegno quotidiano – di trasformare il piccolo spazio della nostra esistenza in un luogo di accoglienza in cui la testimonianza discepolare possa fluire <con tutta franchezza e senza impedimento>. Gli Atti degli Apostoli si concludono con una nota di serenità e contrassegnati da una radicale fiducia nel mondo in cui siamo chiamati a vivere e testimoniare. Sappiamo tutti che ben presto per Paolo sarebbe stata la spada a recidere la sua testa come per Pietro, la tradizione attesta la crocifissione, eppure Luca vuole congedarsi dal lettore della prima parte della storia della Chiesa in modo sereno. Certo, potranno accadere cose anche molto dure, ma non c’è nessun contesto, per quanto possa essere sfavorevole, che possa impedire l’accoglienza e l’annuncio.

Alla vigilia di Pentecoste ci congediamo dalla rilettura annuale del Vangelo secondo Giovanni con una nota che, in realtà, invece di chiudere apre ad orizzonti infiniti di esperienza e di testimonianza possibili: <Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere> (Gv 21, 25). Accanto a Paolo e Pietro ricompare la figura dell’altro discepolo <colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”> (21, 20). In questo modo delicato, ma così efficace, il quarto Vangelo ci ricorda come la storia di ogni discepolo è unica tanto da dover evitare ogni comparazione per essere invece fedeli fino in fondo a se stessi e al proprio personale cammino. La reazione del Signore alla domanda di Pietro non lascia dubbi: <Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi> (21, 22).

In questa vita siamo <in affitto> non solo per ciò che concerne l’esistenza, ma pure per quanto riguarda la nostra vita di discepoli del cui percorso non siamo padroni, ma umile e amorosi servitori. I primi passi della Chiesa dopo la risurrezione del Signore e la possibilità di riascoltare le parole di Gesù in particolare quelle pronunciate nel Cenacolo possono e devono fare di noi dei testimoni sereni e affidabili di quel dono ricevuto che esige la fedeltà e la passione di una sequela che si rinnova ogni mattina… come l’amore… come la vita. Già le fiamme della Pentecoste riempiono l’aria e il fuoco che abbiamo acceso nella notte di Pasqua si comunica a ciascuno con tutta la sua forza e in una differenza e unicità che sono il miracolo di cui siamo ancora responsabili finché egli <venga> a riprendere possesso della casa <in affitto> che siamo noi.

Il tuo nome è Custodia, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Le ultime parole della prima lettura sono di certo già una prima conclusione – peraltro lasciata volutamente aperta dal redattore degli Atti degli Apostoli – del cammino dell’apostolo la cui situazione viene presentata da Festo ai suoi illustri ospiti: <Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio di Augusto, e così, ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare> (At 25, 21). Festo crede fermamente di essere lui a tenere in custodia Paolo, ma gli sfugge che l’apostolo vive sotto una custodia ben più sicura di quella che prepara l’incontro con l’imperatore. Festo non riesce tanto a capacitarsi di ciò che è veramente in gioco: <ma non portarono alcuna accusa di quei crimini che io immaginavo; avevano con lui alcune questioni relative alla loro religione e a un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere vivo> (25, 19). Davanti a tutto ciò Festo non può che rimanere <perplesso> (25, 20). Infatti, il mistero della risurrezione del Signore non è un’evidenza da sbandierare, ma un’esperienza da assumere fino a lasciare che la sua logica trasformi radicalmente la vita.

Mentre il tempo pasquale si avvia verso il compimento della Pentecoste, ritorniamo ai luoghi amati dal Signore Gesù che evocano i cammini all’aria aperta sotto il sole di Galilea reso ancora più amabile e profumato dalla brezza del lago di Tiberiade. Il Risorto non è un concetto, non è un’astrazione, non è un fantasma… è un compagno di strada che interpella ancora una volta la libertà del nostro cuore per fare il punto del nostro essere discepoli nell’amore. La domanda si fa non solo seria, ma quasi scorticante dopo tutto quello che è successo nei giorni della Pasqua: <Simone, figlio di Giovanni, mi ami?> (Gv 21, 16). Comincia così uno dei dialoghi più difficili della storia in cui il Signore Gesù adatta il suo desiderio alla nostra capacità reale di rispondere e di corrispondere. Alla fine, è il Signore ad arrendersi a Pietro: <Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?> (21, 17).

Paolo e Pietro sono i nostri compagni privilegiati in questo ultimo scorcio del tempo pasquale. Queste due colonne su cui poggia la fede della Chiesa di Roma che presiede alla carità di tutte le Chiese, non sono né di uguale grandezza, né dello stesso spessore, né sono fatte dello stesso materiale umano. La Chiesa di Cristo in cui ciascun discepolo è chiamato a vivere la sua avventura di discepolato non ha un’architettura esteticamente perfetta, ma si rivela attraverso forme tanto imperfette quanto capaci di lasciarsi custodire e guidare verso lidi inimmaginati e verso destini non voluti eppure così amorevolmente assunti… almeno alla fine della corsa. Le parole di Gesù a Simon Pietro permettono di fare un salto magnifico che trasforma le tre domande in una sorta di dichiarazione d’amore non fatta di sentimenti e di slanci, ma di un semplice consenso alla vita che diventa consenso alla morte: <… e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi> (21, 18). L’ultima parola rifonda le prime e le porta a pienezza: <Seguimi>. Non c’è nulla da aggiungere e c’è tutto da assumere in una custodia dell’amore che rimane un mistero… insondabile e prezioso.

Il tuo nome è Speranza, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Il grido dell’apostolo attraversa i secoli e giunge, con la stessa forza e intensità di duemila anni fa, alle nostre orecchie: <Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti> (At 23, 6). Questa parola di Paolo ha l’effetto di una bomba lanciata in una piazza affollata tanto che <scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise> (23, 7). La risurrezione è motivo di divisione e di contrapposizione non solo tra i farisei e i sadducei del tempo di Gesù, ma pure tra quanti, in ogni tempo, hanno bisogno di una speranza e chi, invece, essendo sicuri e ricchi, sono sufficienti a se stessi e non hanno bisogno di nessun dono. Al contrario, il Signore, persino in quella che possiamo definire la sua preghiera testamentaria, manifesta un profondo bisogno di condivisione che si fa pressante invocazione al cospetto del Padre suo perché vi sia una piena partecipazione anche per noi del preziosissimo dono della sua comunione divina: <E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me> (Gv 17, 22-23).

In questa supplica accorata del Signore possiamo sentire in che cosa consista il fondamento di quella speranza nella risurrezione che se ci è promesso come frutto di eternità, fiorisce e germoglia già in questo tempo nella misura in cui accettiamo l’esodo quotidiano dalla nostra autoreferenzialità per vivere fondati su quell’amore che ci accompagna in modo così radicale da essere <prima della creazione del mondo> (17, 24). Ciò che già mette in moto il linguaggio e la realtà della risurrezione che speriamo, è la decisione che sta alla base ed è la motivazione fondamentale dell’offerta pasquale di Cristo Signore: <E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro> (17, 26).

Come scrive Elisabetta della Trinità: <Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che noi siamo là dove egli è. E questo non solo nell’eternità, ma già in questo tempo che è l’eternità già cominciata, ma sempre in progresso>. La preghiera del Signore accompagna il cammino della Chiesa chiamata ad essere, sempre di più e sempre meglio, sacramento di salvezza fino ad essere capace come Gesù stesso di abbracciare con l’amore tutta l’umanità. Nella preghiera del Signore, la Chiesa e ciascun discepolo è contemplato e abbracciato in totalità, non escluse le povertà e le fragilità. Attraverso la luce e la cura della preghiera, persino la debolezza può diventare una porta di salvezza e un indizio di risurrezione rendendo ciascuno di noi più umani e più miti. Il primo passo sembra essere quello di diventare più oranti. Possa capitare anche a noi ciò che accadde per Paolo che fu visitato ancora una volta da una parola che rischiara ogni notte: <Coraggio!> (At 22, 11). Si tratta del coraggio necessario a rinnovare ogni mattina la speranza radicata nell’esperienza di un amore sempre antico e sempre nuovo.

Il tuo nome è Potenza, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

L’apostolo Paolo non smette di evocare la sua passione apostolica che diventa per i discepoli una vera e propria eredità da accogliere e da custodire: <Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato, tra le lacrime, di ammonire ciascuno di voi> (At 20, 31). È proprio da questa passione amorevole che nasce la conoscenza e l’esperienza di una forza che radica nel profondo del cuore e si diffonde, a partire dalla propria vita, al mondo che ci circonda con un senso di fiducia radicale. Da questa fiducia, in cui si invera una fede autentica e vitale, nasce un affidamento generoso e abbandonato: <E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati> (20, 32). Mentre la sua esperienza sta per essere segnata in modo drammatico dall’attraversamento di una fragilità a tratti inquietante, il Signore Gesù non ha nessun timore nel parlare di <potenza>. Si tratta della potenza che viene dalla certezza di essere in profonda relazione con qualcuno, tanto che l’estrema debolezza diventa il luogo in cui si manifesta il meglio delle possibilità più impensate e inimmaginate.

Credere che la relazione intima con il Signore abbia <la potenza di edificare> è, di certo, una premessa, ma è pure la conseguenza più forte del fatto di sentire che non siamo soli soprattutto quando tutto sembrerebbe dire il contrario. Il Signore Gesù sta in mezzo tra il Padre e i suoi discepoli e in questo modo rivela dove sta il segreto e la causa interiore della sua croce: <Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura> (Gv 17, 12). Nessuna preoccupazione per il proprio destino e una profonda attenzione alla vita e alla felicità dei discepoli i quali diventano il soggetto di ogni pensiero e di ogni desiderio. Tutto questo mentre il tempo della passione e dell’estrema solitudine sono già in atto: <per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità> (17, 19).

Al Signore che si prepara al suo ultimo combattimento contro il <potere delle tenebre> (Lc 22, 53) non sfugge il pericolo che incombe sui discepoli… su di noi. Per questo prega con ardore: <Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno> (Gv 17, 15). Il segno di una vittoria o di una sconfitta dell’opera del Maligno nella vita dei discepoli è la partecipazione alla gioia che anima la vita intima della relazioni divine: <perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia> (17, 13). Paradossalmente il Maligno, che pure promette tanti piaceri, è sommamente triste per quella sua incapacità radicale a pensarsi solo in un modo autoreferenziale e solipsistico con cui cerca di contaminare la nostra umanità creata, invece, ad immagine e somiglianza del Dio sempre in comunione.

Il tuo nome è Costrizione, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

L’apostolo Paolo non ha nessuna remora nel riconoscere la duplice causa di tutto il suo cammino di fede e di apostolato. Alla base della generosa sequela di Paolo e della sua ardente testimonianza vi è l’intuizione profonda nata da quell’incontro sulla via di Damasco che gli ha cambiato la vita. Questo non toglie che ad orientare e, per molti aspetti, a limitare il suo percorso sono tutta una serie di costrizioni che, accolte in modo maturo e lucido, sono diventate per l’apostolo delle vere occasioni di crescita senza nulla togliere alla loro dose di amarezza e di dolore. Questa coscienza completa e non parziale diventa per Paolo una vera e propria confessione: <ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei; non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile> (At 20, 19-20). Pertanto, vi è un passo in più che viene compiuto da Paolo ed è un passo che potremmo definire di alta consapevolezza: <Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà> (20, 22).

Nella stessa linea e in modo ancora più radicale si muove il Signore Gesù che, dopo aver parlato a lungo ai suoi discepoli, per prepararli alla Pasqua e aprirli gradualmente al dono di una presenza ancora più intima di quella che avevano sperimentato accanto al loro Maestro con la venuta dello Spirito Santo, si rivolge direttamente al Padre suo per parlare dei suoi discepoli… di noi, quasi per creare un legame così forte che la morte stessa e il terribile scandalo della croce non potranno né spezzare, né incrinare: <Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te> (Gv 17, 1). Mentre ci lasciamo conquistare da questa preghiera del Signore, che è una vera e propria elevazione della sua anima verso il Padre, non dobbiamo dimenticare tutto quello che, nel Cenacolo, è stato fatto e detto. Si tratta di mantenere viva la memoria di tutto ciò che è accaduto, dalla lavanda dei piedi, allo svelamento del tradimento di Giuda e dell’abbandono da parte di tutti, dell’inaccoglienza della sua parola e della sua persona dai notabili del popolo i quali, per difendere l’onore di Dio secondo il loro modo di sentire, lo condanneranno alla morte più dura perché la più infamante per un credente e per un uomo giusto: la croce.

Come Paolo fa memoria del suo ardente ministero: <testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore> (At 20, 21), così il Signore Gesù sembra quasi voler ricordare a se stesso: <Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo> (Gv 17, 6). Sembra che l’annuncio e la testimonianza del dono offerto di una relazione con Dio capace di metterci in una condizione di più profonda e autentica umanità, si debba scontrare necessariamente con tutta una serie di costrizioni che, in realtà, rendono ancora più chiaro l’amore di cui si vorrebbe rendere partecipe ogni creatura: <Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono del mondo, e io vengo a te> (17, 10). L’identità non è più il risultato di un processo di differenziazione aggressiva, ma è il frutto di una comunione attraversata fino ad essere immensamente amata. Non si tratta di una dipendenza mortificante, ma di una <umiltà> (At 20, 19) corroborante capace di una certa fierezza che nasce dalla consapevolezza profonda di come la propria consistenza radica in una relazione che pacifica e libera così da poter accogliere le costrizioni della vita come un luogo sponsale e non come un passaggio fallimentare.

Il tuo nome è Adesso, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

La reazione del Signore Gesù ci stupisce non poco con questa domanda che ci tocca e ci interpella: <Adesso credete?> (Gv 16, 31). Mentre il Signore continua a parlare di sé, sempre in relazione al Padre suo e cercando di preparare il cuore dei discepoli a ciò che sta per accadere nella Pasqua imminente, i discepoli sembrano accontentarsi di aver capito in senso teorico il mistero di Cristo. Per questo il Signore reagisce e lo fa in modo assai forte ed esplicito. Con tono deciso e appassionato il Maestro cerca di far comprendere che non si sta parlando di una teoria, ma il suo desiderio è di mettere le basi di un vissuto che sia veramente un’esperienza condivisa: <Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me> (16, 32). A questo punto possiamo intuire la portata della domanda che l’apostolo pone non solo ai discepoli di Efeso, ma pure a noi: <Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?> (At 19, 2). La risposta non deve sorprenderci più di tanto perché, in realtà, potrebbe essere la stessa risposta di tanti credenti e praticanti dei nostri giorni: <Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo> (19, 2).

Anche a noi può succedere di accontentarci di vivere nella logica del <battesimo di Giovanni> (19, 3) attraverso cui ci concentriamo su quella che potremmo definire un generoso impegno a diventare “più bravi” tanto da sentirci soddisfatti del nostro cammino. Lo Spirito del Risorto, invece, ci dà la possibilità e rappresenta la sfida a portarci un poco oltre: <non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue e a profetare> (19, 6). L’incontro con il Signore Risorto e l’apertura radicale a ricevere e a lasciarsi guidare e trasformare dal suo Spirito, porta la vita più lontano e fa salpare la nostra esperienza di fede verso profondità non ancora esplorate. Questo andare più lontano esige una capacità di rischiare <adesso> senza accomodarsi su ciò che ci sembra finalmente di aver capito tanto da essere, più una sfida già superata che non una sfida in atto.

Ed ecco le parole del Signore Gesù diventano una consolazione ed una spada: <Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!> (Gv 16, 33). La grande eredità che ci viene lasciata dal Signore è la sua vittoria sul quel modo di vivere, di pensare, di credere, di amare cui rischiamo di esserci così abituati da non essere più in grado di andare oltre. Prevedendo e prevenendo la nostra fragilità discepolare, il Cristo ci vaccina contro la disperazione con una rivelazione: <Il Padre è con me!>. Non abbiamo dunque più bisogno di temere di giocarci fino in fondo in quelle che sono le sfide del nostro quotidiano perché siamo certi di una compagnia che riscatta la nostra vita da ogni forma di fuga, né in avanti né all’indietro.

Il tuo nome è Benedizione, alleluia!

Ascensione del Signore

Il Signore Gesù si separa dai suoi discepoli nell’atto di benedirli e proprio <Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo> (Lc 24, 51). Quella del Signore Gesù è una benedizione che mantiene e, nello stesso tempo, trasforma la relazione tra i discepoli e il loro Maestro. Il segno distintivo di questo nuovo modo di comunione sono la gioia e l’adorazione: segni esterni di una vita ormai tutta segnata dalla capacità di benedire e di ringraziare. Il Signore ritorna nel seno del Padre dopo aver rivelato, nel mistero della sua incarnazione, pienamente manifestatosi nel mistero pasquale, quale amore il Padre ha per il mondo di cui noi siamo parte. Il Verbo torna <in cielo> con il nostro corpo preparando così un posto, uno spazio, una possibilità di “essere” – per la nostra umanità – al cuore stesso della vita divina. In tal modo la benedizione delle origini sulla creazione intera oggi raggiunge la sua pienezza e il suo culmine, toccando il cuore delle creature e dando a ciascuno di noi la gioia di poter sperare in un compimento che tocchi l’interezza del nostro essere e la totalità della nostra storia.

Il mistero dell’ascensione suona allora come una vera e urgente chiamata a partecipare del medesimo amore che unisce il Padre e il Figlio ed è continuamente riversato nei nostri cuori con, e nella potenza dello Spirito. Si tratta di un amore sufficientemente decentrato da se stesso che consente l’assenza sensibile di Cristo senza renderlo per nulla assente dalla nostra vita, anzi, così tanto presente ed efficace da poter assicurare che ormai <abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente> (Eb 10, 19-20). Questa certezza interiore di comunione, che si fa partecipazione serena e libera alla stessa vita di Dio, ci permette di rispondere alla benedizione con l’adorazione che si fa fervida attesa del dono che viene dall’alto e che ci permette di orientare la nostra vita sempre oltre, il dono dello Spirito.

A noi, quindi, è ora richiesto di rivivere, nella nostra vita, l’esperienza degli apostoli amando di dimorare nel tempio interiore del nostro cuore per potervi ricevere il dono della vita nuova: di una vita risorta. Al cuore della nostra fede condivisa vi è una certezza che nasce da una promessa: <Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo> (At 1, 11). La gioia dell’Ascensione è una gioia che libera il cuore perché non lo incatena nemmeno ad un’esperienza compiuta di Dio, ma lo spinge verso quell’oltre di cui è rimando il simbolo del <cielo>. Non ci è chiesto di distaccarci o disinteressarci della vita quotidiana, ci è semplicemente dato di essere profondamente coinvolti e, allo stesso tempo, profondamente liberi, perché chiaramente orientati così da essere tanto coinvolti, quanto assolutamente distaccati da ogni paura di fallire o di soffrire. L’amore non passa, si invera! A noi è chiesto di essere testimoni della potenza della misericordia e del perdono che abbiamo appreso dalle parole e dai gesti del Maestro e di cui ora, in attesa del suo mite e festoso ritorno, siamo chiamati ad essere testimoni possibilmente credibili, ma soprattutto testimoni interessanti per quella gioia sottile e contagiosa che dovrebbe segnare e contraddistinguere il nostro tratto, tanto da riconoscervi uno sprazzo di cielo… sempre così vicino e così lontano.