Il tuo nome è Cominciare, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Non dobbiamo affatto sottovalutare quanto ci viene ricordato dagli Atti degli Apostoli: <Ma alcuni di loro, gente di Cipro e di Cirene, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, annunciando che Gesù è il Signore> (At 11, 20). Sembra che l’allargamento dell’annuncio della salvezza in Cristo riservata fino a questo momento solo ai <Giudei> (11, 19) non sia stata una scelta fatta a tavolino né, tantomeno, una decisione calata dall’alto con un crisma di autorità incontestabile. La predicazione rivolta a tutti cui dobbiamo l’identità di Chiesa che ci sembra oramai la più naturale e la più scontata, nasce da un semplice moto dell’animo di alcuni discepoli che interroga gli apostoli e non li allarma. Siamo chiamati a conservare bene la memoria di questo passaggio epocale nella storia della prima comunità cristiana per non temere, a nostra volta, di cominciare nuovi percorsi e di inaugurare nuovi metodi senza aspettare che questi vengano calati dall’alto con rassicurazione previe e sigilli di autenticazione che solo la vita può dare in modo autenticamente evangelico.

Inoltre, questo passaggio epocale deve rimanere per i pastori della Chiesa un punto di riferimento e un modello di discernimento: non sempre sono i pastori ad intuire le vie migliori e quelle necessarie perché la salvezza sia offerta ad un numero crescente di persone. Il testo degli Atti degli apostoli annota con semplicità che <Questa notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, e mandarono Barnaba ad Antiochia> (11, 22). In questo contesto di allargamento dell’orizzonte della predicazione e della missione sembra che si faccia spazio la necessità di un apostolo come Paolo tanto che, proprio in questo frangente, e sempre per un’ispirazione e spinta interiore: <Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo> (11, 25).

Mentre contempliamo il mistero dell’allargamento degli orizzonti della Chiesa di Cristo possiamo sentire tutta la forza e la bellezza della parola del Signore Gesù: <Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono> (Gv 10, 27). Per il Signore non sembra sufficiente fare memoria della nostra sequela, ma ci tiene a sottolineare il suo essere totalmente per noi: <Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano> (10, 28). Eppure, non dobbiamo mai dimenticare che la <mano> del Signore è amplissima ed è capace di racchiudere persino le stelle e le galassie tanto da desiderare che la Chiesa sia sempre più un popolo capace di contenere tutti i popoli, tutte le culture, tutte le sensibilità. La gioia del Vangelo è una letizia che trova il suo segreto della vita nella capacità e quasi nel piacere di ricominciare continuamente lasciandosi interpellare, scuotere e cambiare da quelle che sono le realtà e le necessità che bussano al cuore e chiedono non una semplice tolleranza compassionevole, ma un’accoglienza piena fatta di riconoscimento e di reciproco arricchimento.

Il tuo nome è Cammino, alleluia!

IV Settimana di Pasqua –

Questa quarta settimana di Pasqua, quando il cammino verso la Pentecoste è già a metà, è contrassegnata da una particolare compagnia che è quella del pastore, bello, buono e vero. Il bel Pastore si fa guida verso la pienezza non solo della gioia pasquale, ma della stessa nostra esistenza sempre più vissuta vicina a Cristo Signore. Gesù parla di se stesso attraverso una <similitudine> e sembra che coloro che l’ascoltano – stranamente – <non capirono di che cosa parlava loro> (Gv 10, 6). Questa incomprensione induce il Signore a riprendere il discorso e a ribadire la stessa cosa attraverso l’uso di un’altra immagine: <In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore> (10, 7). L’immagine della porta evoca sempre la necessità e la possibilità di passare da fuori a dentro e viceversa e non fa che rafforzare quella caratteristica del pastore appena evocata: <E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti ad esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce> (10, 4). Come spiega un pastore del popolo di Dio, Gregorio Magno: <La conoscenza precede sempre l’amore della verità. Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche quella dell’amore; non solo del credere, ma anche dell’operare. […] Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S’infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s’infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare>1.

Questa espressione gregoriana <amare sarà già un camminare> è ciò che Pietro, sempre più docile alla grazia della Spirito che anima e guida il cammino della Chiesa, impara a mettere sempre più in pratica assumendolo come un criterio di discernimento pastorale e spirituale la cui importanza è non solo sempre utile, ma anche sempre attuale. Per giustificarsi davanti a quanti lo <rimproveravano> (At 11, 2) per essere entrato nella casa di Cornelio, Pietro dice con tutta semplicità che <Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitazione> (11, 12). Inoltre, l’apostolo condivide non solo la sua esperienza esteriore, ma pure le sue intuizioni più profonde e il suo lavorio interiore per cercare di discernere i nuovi cammini aperti dal Signore alla sua Chiesa: <Mi ricordai allora di quella parola del Signore…> (11, 16). Ciò che forse stentavano a capire quanti ascoltavano la similitudine raccontata dal Signore e facevano fatica ad accettare i primi cristiani provenienti dal giudaismo, era la preoccupazione del pastore ad educare le sue pecore a non temere, anzi a godere, della possibilità di mettersi in cammino alla scoperta di nuovi pascoli e di sempre più chiare e fresche sorgenti. Anche oggi come discepoli e come Chiesa siamo spinti <fuori> (Gv 10, 4) dal chiuso dei nostri recinti poiché <Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano> (10, 9)


1. GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, 14.

Il tuo nome è Figlio, alleluia!

IV Domenica di Pasqua –

Durante la Veglia Pasquale abbiamo ancora una volta – come ogni anno – letto il racconto della prova di Abramo cui il Signore chiede di offrire in olocausto il proprio figlio. Il testo ebraico è costruito su una simpatica quanto drammatica ambiguità poiché lo stesso termine – tal’ja – che indica l’agnello rischia di indicare anche il figlio. Così al cuore del tempo pasquale il mistero del Figlio e dell’Agnello ci vengono riproposti magnificamente dalla Liturgia. Nel breve Vangelo di questa domenica colui che, indirettamente nei versetti che leggiamo quest’anno, si considera pastore in quanto ha delle pecore che ne ascoltano la voce e lo <seguono> (Gv 10, 27). Quando parla di se stesso in realtà lo fa riferendosi in modo forte a quel Padre che in un solo versetto viene evocato per ben tre volte: <Il Padre mio che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola> (Gv 10, 30).

In questa unità di comunione sostanziale sta il fondamento di quel cammino verso l’unità e la condivisione di un medesimo respiro cui è chiamata tutta l’umanità nella misura in cui si lascia guidare come suo <pastore> (Ap 7, 17) da colui che si è fatto amorevolmente <Agnello>. Ancora una volta la Liturgia crea una magnifica corrispondenza: se per tre volte nel Vangelo viene evocato il Padre, per tre volte, nella prima lettura si parla dell’Agnello che è, esattamente, quel Figlio che ci apre ad una comunione e relazione con Dio definitivamente riscattata da ogni ombra di paure e di servitù per aprirci allo spirito della figliolanza in cui ci sentiamo e siamo veramente liberi. La visione del veggente di Patmos diventa così un’iniezione di speranza: <vidi: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello> (7, 9).

Spesso nell’Apocalisse troviamo piuttosto l’attitudine dello stare prostrati in adorazione, qui invece l’attitudine è quella che indica la libertà e la dignità che, proprio in virtù del mistero pasquale di Cristo Signore, ci rende vittorioso su ogni forma di paura e di diminuzione di dignità: <avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani>. A questo punto potremmo riprendere quella che si potrebbe intendere come un’acclamazione nel ritmo narrativo della prima lettura: <si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero> (At 13, 48). Verrebbe da chiedersi in che cosa <credettero>? Dovremmo chiederci in che cosa noi stessi crediamo e forse la risposta è che il senso profondo della nostra fede in Cristo, morto e risorto, è sentirci sempre di più veramente figli del Padre tanto da lasciarci portare nella sua <mano> (Gv 10, 29) con una fiducia e un’allegrezza impareggiabili. È il Signore Gesù che posa ciascuno di noi nella grande mano di Dio dopo averci portato amorevolmente sulle sue spalle di buon pastore e facendoci così ritrovare la strada perduta della fiducia, della gioia, della speranza… in una parola della figliolanza proprio nel turbine della <grande tribolazione> (Ap 7, 14). L’esperienza che siamo chiamata a fare riposando nella grande e dolce mano del Padre è questa: <Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi> (Ap 7, 17).

Ton nom est Fils, alléluia !

IV Dimanche de Pâques –

Pendant la Vigile Pascale, nous avons, une fois encore, – comme chaque année – lu le récit de l’épreuve d’Abraham à qui le Seigneur demande d’offrir en holocauste son propre fils. Le texte hébraïque est construit sur une affinité ambiguë, combien dramatique, car la même expression – tal’ja – indiquant l’agneau risque de signifier aussi le fils. Ainsi, au coeur du temps pascal, le mystère du Fils et de l’Agneau nous est reproposé magnifiquement par la Liturgie. Dans le bref Evangile de ce dimanche, celui qui se considère indirectement comme berger dans les versets que nous lisons cette année, a des brebis qui écoutent sa voix et «  le suivent » ( Jn 10, 27 ). Lorsqu’il parle de lui-même, il fait référence, en réalité, de manière forte, à ce Père qui est évoqué trois fois en un seul verset : « Mon Père qui me les a données est le plus grand de tous et nul ne peut rien arracher de la main du Père, le Père et moi ne sommes qu’un » ( Jn 10, 30 ).

Dans cette unité de communion essentielle réside le fondement de ce chemin vers l’unité et le partage d’une même respiration  qui concerne toute l’humanité, dans la mesure où elle se laisse guider par son «  pasteur » ( Ap 7, 17 ) qui s’est fait amoureusement «  Agneau ». Une fois encore la Liturgie crée une magnifique correspondance : si, le Père est évoqué trois fois dans l’Evangile, dans la première lecture, l’on parle trois fois de l’Agneau qui est exactement ce Fils qui nous invite à une communion avec Dieu, relation définitivement rachetée de toute ombre de peur et de servitude pour nous ouvrir à l’esprit de la filiation où nous nous sentons et sommes vraiment libres. La vision du voyageur de Patmos devient ainsi une initiation d’espérance : « Voici qu’apparut à mes yeux une foule immense, impossible à dénombrer, de toute nation, race, peuple et langue : debout devant le trône et devant l’Agneau » ( 7, 9 ).

Souvent, nous trouvons dans l’Apocalypse plutôt l’attitude de la prostration en adoration, mais ici, au contraire, l’attitude est celle qui indique la liberté et la dignité qui, en vertu du mystère pascale du Christ Seigneur, nous rend victorieux de toute forme de peur et d’anéantissement de dignité : « vêtus de robes blanches, des palmes à la main ». Nous pourrions maintenant reprendre ce que l’on pourrait considérer comme une acclamation du rythme narratif de la première lecture : « Tout joyeux, ils se mirent à glorifier la parole du Seigneur, et tous ceux qui étaient destinés à la vie éternelle crurent » ( Ac 13, 48 ). L’on pourrait se demander en quoi «  ils crurent » ? Nous devrions nous demander en quoi, nous-mêmes nous croyons et la réponse est, sans doute, que le sens profond de notre foi en Christ, mort et ressuscité, est de nous sentir  vraiment toujours d’avantage fils du Père en nous laissant porter dans sa «  main » ( Jn 10, 29 ) avec une confiance et une joie incomparable. C’est le Seigneur Jésus qui pose chacun de nous dans la grande main de Dieu après nous avoir portés amoureusement sur ses épaules de bon pasteur et nous avoir fait retrouver ainsi le chemin perdu de la foi, de la joie, de l’espérance…par une parole de filiation au milieu des tourments de la «  grande tribulation » ( Ap 7, 14 ). L’expérience que nous sommes appelés à faire en reposant dans la grande et douce main du Père est celle-ci : « Dieu essuiera toute larme de leurs yeux » ( Ap 7, 17 ).

Il tuo nome è Gazzella, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

Concludiamo la lettura del capitolo sesto di Giovanni e se, guardiamo bene il testo, possiamo dire che la poesia dell’inizio si trasforma sotto i nostri occhi in dramma della fine. Il finissimo gesto di compassione e di amore con cui il Signore Gesù prende l’iniziativi di condividere, al massimo delle possibilità, il poco pane disponibile, ci porta, dopo un lungo discorso – che in realtà è una vera a propria catechesi – verso quella domanda che, benevolmente evitata all’inizio, viene posta così radicalmente alla fine: <Volete andarvene anche voi?> (Gv 6, 67). È questa domanda che, ogni anno, la Liturgia sembra porre volutamente alla comunità dei credenti che rivivono, insieme ai neofiti, l’avventura della mistagogia proprio alla vigilia della domenica del “buon Pastore”. Se non sappiamo rispondere fino in fondo a questa domanda che il Signore pone <ai Dodici> e, attraverso di essi, alla Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo, sarà quasi impossibile saper riconoscere la voce e metterci sui passi di Cristo Risorto. Rischia di essere quasi impossibile agire come le pecore fanno con il pastore di cui conoscono l’odore e di cui, alla fine, hanno addosso lo stesso odore segno di una condivisione profonda e intima di un medesimo destino.

La risposta di Simon Pietro, almeno per questa volta, è più che felice: <Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio> (6, 68-69). Riconoscere in Gesù <il santo di Dio>, significa non solo onorarlo con la propria fede, rinnovando la propria disponibilità a seguirlo, ma comporta un passo ulteriore. Ciò che è <santo> è ciò che pur entrando in contatto e in comunione con noi, è sempre oltre noi stessi ed esige una coscienza di differenza radicale che fa la qualità della relazione unica, una relazione che l’Altissimo ci ha offerto in Cristo Gesù che ha dato la sua vita per noi come un pezzo di pane che si lascia mangiare e metabolizzare per dare vita. Riconoscere nel mistero pasquale il Cristo, significato nel sacramento dell’Eucaristia, significa ritornare continuamente al fondamento della nostra intimità con Dio che si radica in una differenza assoluta.

Allora le immagini della prima lettura ci possono offrire un ulteriore aiuto per dare contenuto all’intuizione e alla confessione di Simon Pietro. E’ proprio l’apostolo Pietro che compie due miracoli ravvicinati, entrambi con il sapore di un invito pressante a rimettersi in piedi e a riprendere il cammino: c’è Enea che <da otto anni giaceva su una barella perché era paralitico> (At 9, 33), e c’è Tabità che Pietro richiama dal sonno e dall’immobilità della morte riportandola ad onorare pienamente il significato del suo nome: <Gazzella> (9, 36). In realtà la vera Gazzella, che ci precede continuamente e ci chiede di stare al suo passo camminando alacremente nelle vie della santità, è Cristo Signore. Per questo lo riconosciamo con Pietro <il Santo di Dio> e ci rimettiamo alla sua sequela quasi volando perché sappiamo che egli sempre ci precederà senza mai seminarci.

Il tuo nome è Vita, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La nota con cui si conclude il testo del Vangelo che leggiamo nella Liturgia di oggi evoca le <cose> che il Signore Gesù avrebbe detto insegnando <nella sinagoga a Cafarnao> (Gv 6, 59). Le parole che il Signore ci dona, in realtà, sono ben più che delle parole, esse – infatti – ci trasmettono la vita e la tengono continuamente viva dentro di noi perché possa crescere e raggiungere la sua pienezza. Allora possiamo veramente dire che il pane moltiplicato per la folla è segno di quella vita donata. Il Signore Gesù spinge le immagini ancora più lontano e, per certi aspetti, persino troppo lontano: <se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita> (Gv 6, 53). La domanda si pone in modo del tutto naturale e, per molti versi, si fa necessaria: “Di quale vita si tratta?”. La risposta del Signore Gesù sembra persino anticipare la questione: <Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda> (6, 54-55).

Non è difficile immaginare l’imbarazzo e la fatica degli ascoltatori di Gesù davanti a immagini così forti che risvegliano tutta una serie di attenzioni e di preoccupazioni rituali e spirituali che hanno a che fare con le carni macellate e, soprattutto, rapportate con il sangue, non solo degli animali, ma anche con quello degli umani. Una serie di tabù che, in realtà, custodisce il mistero della vita ed evita che si attenti alla sua sacralità. Eppure, sembra che il Signore Gesù voglia condurre i suoi ascoltatori proprio sulla soglia di questa comprensione forte del mistero di una vita donata e condivisa, con una radicalità e una generosità tali da abbattere ogni schema religioso di auto-protezione per trasformarlo in un invito al rischio del dono. Il segreto di tutto ciò risiede e si radica nella stessa vita di Dio: <Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me> (6, 57).

Attraverso queste parole, che il Signore Gesù pronuncia nella sinagoga di Cafarnao, possiamo capire meglio che cosa realmente sia avvenuto a Saulo <mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco> (At 9, 3). C’è qualcosa che stravolge completamente e definitivamente il modo di sentire, di vivere e di imporre la relazione con Dio. Mentre Saulo si reca a Damasco per imprigionare i discepoli del Signore Gesù, è avvolto da <una luce> che lo obbliga a cambiare completamente il suo modo di vedere e di giudicare. Una luce che lo rende prima di tutto cieco e poi riaprire gli occhi del suo cuore ricominciando tutto daccapo. Lo stesso Signore narra, al timoroso Anania, che cosa è avvenuto nel cuore del temuto persecutore: <ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché recuperasse la vista> (9, 12). Il passaggio di Saulo, che, come tutti i farisei, hanno una grande devozione per gli angeli e si fanno scrupolo di difendere i diritti di Dio anche a costo della vita propria ed altrui, è una sorta di conversione all’<uomo>. Ciò che sigilla la trasformazione del cuore di Saulo è quell’uomo che gli viene incontro come fratello e gli apre una nuova via di comprensione del mistero stesso di Dio su cui l’apostolo rifletterà per il resto della sua vita. Servire Dio trasformando la nostra relazione con Lui in carne e sangue, in una vita vera e piena, una vita che sa riceversi con gratitudine e ridonarsi con generosità. Tutto cambia: invece di essere noi ad offrire a Dio qualcosa, è Lui che si offre a noi e ci mostra così la <Via> (At 9, 2) per fare altrettanto.

Il tuo nome è Carro, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La parola del Signore rivolta alla folla che ha appena sfamata, è la chiave per entrare nella comprensione profonda di quanto avviene su quella strada che <va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza> (At 8, 26). Quella strada è caratterizzata da una nota inconfondibile: <è deserta>! Nel Vangelo, il Signore Gesù ci ricorda quello che può essere considerato una sorta di principio fondamentale della nostra relazione con Dio: <Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno> (Gv 6, 44). Come il Signore Gesù ha nutrito la folla e l’ha resa capace non solo di mangiare, ma anche di parlare e di interagire, così Filippo è invitato dal Signore a farsi carico di questo eunuco che sembra specchiarsi nel servo sofferente di cui si parla nel racconto che sta leggendo mentre torna a casa. Il primo passo necessario perché l’eunuco possa ricevere consolazione e conforto è legato alla disponibilità di Filippo di farsi mediazione di salvezza: <Va’ avanti e accostati a quel carro> (At 8, 29).

L’evangelizzazione, nel senso più pieno del termine, di questo funzionario regale comincia, ancora una volta, con un primo passo che viene fatto da Filippo su ispirazione dello Spirito. Si tratta di prevenire i fratelli che camminano sulle strade della vita tanto da diventare, prima di tutto, loro compagni di viaggio e, solo dopo, persino loro guide. Così la domanda posta da Filippo rende possibile un’altra domanda che viene avanzata dall’eunuco: <E come potrei capire se nessuno mi guida?> (At 8, 31). Il testo degli Atti ci dice che <Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù> (8, 35). Si potrebbe dire che non è possibile annunciare il mistero di Gesù – e condividere la liberazione che ci viene dal suo Vangelo – se non si è capaci di prendere spunto dalla vita e, in particolare, se non si sa partire dalla sofferenza reale che attraversa il vissuto di ciascuno.

Il <carro> su cui Filippo deve salire è, certamente, la vita di questo funzionario regale che però è – prima di tutto – un <eunuco> conquistato da un passo del profeta il quale, non certo per caso, parla di <umiliazione> (8, 33). Solo quando la sofferenza sarà stata assunta e redenta nel mistero di Cristo Signore, allora si potrà <fermare il carro> (8, 38) e scendere insieme nell’acqua per vivere l’esperienza del battesimo. E’ questo il modo per salire – ormai – sull’unico carro che può condurre verso gli spazi più ampi della vita, quella vita  e che è lo stesso mistero di Cristo. Egli è <il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia> (Gv 6, 50) e possa risalire verso un di più di vita… come una pianta <recisa dalla terra> (At 8, 13) che, al primo sole – e dopo le prime piogge – non solo germina di nuovo, ma è persino più forte e più bella. Vi è pure un’altra domanda che rimane aperta e che apre la generosa condivisione del dono della salvezza e della vita: <che cosa impedisce che io sia battezzato?> (8, 37). La questione si porrà altre due volte (At 10, 47; 11, 17) a motivo della circoncisione, ritenuta essenziale per entrare nella vita del popolo di Dio. La parola profetica continua a far sognare e a far camminare: <E tutti saranno istruiti da Dio> (Gv 6, 45). Sul carro regale di Cristo Risorto che è il talamo della sua croce… c’è posto per tutti… per tutto!

Il tuo nome è Gioia, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La prima lettura ci mette di fronte, per la prima volta in modo così intenso, non solo al dramma della persecuzione, ma anche a quella che potremmo definire la grazia della persecuzione. La morte di Stefano rappresenta nella storia della Chiesa, a partire da ciò che è stato vissuto dalla prima comunità cristiana, un momento importantissimo: ai discepoli è riservata la stessa sorte del loro maestro e questo invece di indebolire non fa che rafforzare ulteriormente la loro testimonianza e il loro entusiasmo. Se le prime parole evocano la <violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme> (At 8, 1), le ultime parole sono invece: <E vi fu grande gioia in quella città> (8, 8). Tra la persecuzione e la gioia. Forse sarebbe meglio dire che la gioia è frutto della persecuzione nella misura in cui si sa accogliere il mistero della dispersione che diventa una sorta di necessità e quasi condizione per l’ampliarsi dell’evangelizzazione: <Quelli però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola> (8, 4).

Il vento della Pentecoste sembra che continui a spazzare il cielo della storia attraverso il vento della persecuzione che permette comunque, in un modo o nell’altro, che il polline del Vangelo fecondi i fiori della nostra umanità, sempre più lontano e sempre più in alto, diventando promessa di un raccolto più che abbondante. Il Signore Gesù si fa nutrimento della nostra gioia e della nostra pienezza di vita: <E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno> (Gv 6, 39). Il destino di risurrezione è il desiderio del Padre per ciascuno dei suoi figli; pertanto, questa risurrezione non è rimandata in un lontano futuro, ma è l’esperienza di una relazione con Cristo Signore che ci fa partecipi della stessa vita divina. Sembra che il Signore Gesù abbia bisogno di ribadirlo: <Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno> (6. 40).

La salvezza si riceve da un altro come un sorriso perché radica nella stessa vita della Trinità e sgorga dalla stessa intimità divina: è relazione, dialogo, condivisione, comunione allo stesso pane, fraternità che nasce e si rafforza nella condivisione dei propri bisogni e delle proprie necessità. Essere salvati ed essere inondati di gioia è semplice come un “buongiorno” o un “ciao” pieno di allegra tenerezza. La gioia pasquale è come il lievito impastato con la nostra vita quotidiana e persino banale perché la nostra esistenza sia contrassegnata da una libertà capace di dilatare gli spazi della comunione e della condivisione. La gioia è più che un sentimento, è il frutto di un lungo lavoro su se stessi il quale comincia sempre con l’aratro di una volontà che sa sarchiare la terra del cuore per fare spazio a solchi capaci di accogliere e custodire il seme del Vangelo come premessa necessaria per il raccolto di una carità sempre più ampia e autentica. Gioia non è che il volto di un amore sempre più dato persino nella persecuzione dell’incomprensione o del rifiuto.

Il tuo nome è Gloria, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

Possiamo dare un contenuto preciso a quanto ci viene raccontato dagli Atti degli Apostoli in riferimento a Stefano che <pieno di Spirito Santo, fissando il cielo vide la gloria di Dio, e Gesù che stava alla destra di Dio> (At 7, 55). Ciò che Stefano contempla è ciò che egli stesso, in prima persona sta per vivere affrontando, serenamente e con coraggio, la sua stessa morte in tutto simile a quella del suo Signore. Ciò che destabilizza il Sinedrio, nella testimonianza che Stefano porta al Signore Gesù da lui riconosciuto come il Messia atteso, è il fatto che il dono promesso da Dio al suo popolo si è dato in modo molto diverso da quelle che erano le attese messianiche. Sentiamo l’eco di questa profonda differenza nella discussione che si instaura dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci. La folla rammenta a Gesù che <I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”> (Gv 6, 31). Dicendo questo la folla avanza una sottile pretesa nei confronti del Signore che potremmo tradurre così: “Continua a nutrirci senza che dobbiamo faticare”. Attorno al pane e ai pesci nasce una discussione analoga a quella sorta al pozzo di Giacobbe con la Samaritana che chiede al Signore di risparmiarle finalmente quella pena quotidiana di dover andare e venire dal pozzo per attingere acqua.

Il <pane dal cielo> diventa nell’annuncio del Signore qualcosa di completamente nuovo: <il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo> (6, 33). Come la Samaritana accanto al pozzo così la folla sulla riva del lago: <Signore, dacci sempre questo pane> (6, 34). La folla fa fatica a comprendere che il Signore ha moltiplicato il pane non perché è uno che dà il pane, ma perché si fa pane fino a dire con solennità poco compresa perché troppo impegnativa nelle sue conseguenze esistenziali: <Io sono il pane della vita> (6, 35). Il passaggio dall’essere semplicemente parte di una folla beneficata ad essere discepoli capaci ormai di spezzare il pane della propria vita, sta proprio nel comprendere questa differenza fondamentale il tra il dare il pane e farsi pane.

Stefano lo ha compreso in modo preciso tanto da lasciare che la sua vita sia presa e macinata sotto le pietre della lapidazione che lo rendono in tutto e per tutto simile al suo Maestro tanto da dire le sue stesse parole non prima di aver acconsentito ad essere trattato allo stesso modo: <Signore, non imputare loro questo peccato> (At 7, 60). Stefano fa interamente sue le parole del Salmo: <Io confido nel Signore. Esulterò e gioirò per la tua grazia> (Sal 30, 7-8). Ora tocca a noi di smettere di discutere per cominciare, invece, a panificare per donare la nostra vita come dono che rallegra e conforta i nostri fratelli e sorelle in umanità. La celebrazione dell’Eucaristia non è altro che questo consenso del nostro cuore ad essere trasformati in ciò che mangiamo accettando di essere a nostra volta consumati dalla fame degli altri… secondo il loro gusto e il loro bisogno. Per riprendere un testo di Ireneo di Lione: <La gloria di Dio è l’uomo che vive>. Potremmo aggiungere: la gloria di Dio è l’uomo che si fa pane come il suo Signore: questa è l’unica nostra gloria.

Il tuo nome è Rabbì, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La domanda che la folla rivolge al Signore Gesù rivela come la gente avverta la necessità della sua presenza: <Rabbì, quando sei venuto qua?> (Gv 6, 25). Quando poniamo a qualcuno domande di questo tipo non facciamo che manifestare – tra le righe del nostro discorso – quanto abbiamo bisogno di questa presenza per vivere meglio, per sentirci più vivi e per avvertire quel conforto di cui abbiamo bisogno. Quello che avviene dopo la moltiplicazione e la condivisione dei pani e dei pesci, è una sorta di inseguimento tanto che <Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù>. Questa ricerca non è assolutamente vana perché <Lo trovarono al di là del mare> (6, 24-25). Questo rincorrersi un po’ ci stupisce… sia da parte della folla, sia da parte del Signore Gesù che sembra giocare a nascondino. Il motivo di tutto questo movimento può essere colto come un simbolo della preoccupazione da parte del Signore che la gente sfamata con i pani e i pesci tanto da essere rinfrancata e rafforzata da questo cibo, non si accomodi, ma, al contrario, si metta in cammino; non si fermi nella sua ricerca, ma la porti avanti con passione e decisione.

Il nome con cui la gente indica il Signore è <Rabbì>! E il Signore come maestro si fa seguire fino a farsi inseguire per obbligare ciascuno a fare un lungo e necessario percorso per verificare se e fino a che punto questa ricerca e questa devozione discepolare siano autentiche. Alla fine di questo lungo capitolo il risultato più significativo sarà proprio la constatazione che se tutti hanno mangiato, non tutti si aprono alla fede sapendone assumere tutte le esigenze connesse. Nel gran movimento di barche – tra gente che salpa e gente che approda – si inserisce la parola esigente del Signore: <In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati>. Questo ha una conseguenza assai chiara che fa la differenza: <Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà> (6, 26-27). Potremmo tradurre tutto questo come una provocazione da parte del Signore: “se mi volete come rabbì, dovete imparare ad essere docili e non semplicemente grati”.

La figura di <Stefano, pieno di grazia e di potenza> (At 6, 8) diventa così icona del discepolo autentico che si fa in tutto conforme, non solo agli insegnamenti del maestro, ma soprattutto al suo stile e al suo modello di vita. Il segno di questa intima docilità che si fa conformazione nella vita e nella morte, è la condivisione della stessa sorte che crea lo stesso atteggiamento di rifiuto: <Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio> (6, 11). In realtà Stefano non ha mai detto – come del resto il suo Signore e Maestro – nessuna parola blasfema, ma ha messo in crisi quel sistema di controllo e di potere che è l’unica vera blasfemia perché è il risultato dell’idolatria di se stessi.