Diminutivo

XXXIV settimana T.O.

Siamo rapiti da questo sguardo del Signore Gesù che si lascia conquistare dalle realtà più piccole e più povere, in una logica di attenzione più sensibile al diminutivo che al superlativo. Lo sguardo del Signore Gesù è penetrante ed è capace di valorizzare ciò che altri rischiano non solo di sottovalutare, ma persino di disprezzare o, nel migliore dei casi, non vedere affatto. L’evangelista Luca ci fa entrare, per così dire, nello sguardo del Signore e così facendo, in realtà, ci fa entrare nel suo stesso cuore permettendoci così di cogliere tutta la differenza dell’atteggiamento del Signore a partire dal quale dobbiamo convertire e informare il nostro modo di guardare e di valutare: <vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio> (Lc 21, 1). Eppure, il Signore non vede solo ciò che si impone allo sguardo con lo scintillio dell’oro o il sordo rumore di monete che cadono nel tesoro del Tempio attirando attenzione e creando ammirazione. Il Signore Gesù <Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine> (21, 2). Il diminutivo non è solo pieno di tenerezza, che talora può nascondere una certa sufficienza, ma è la rivelazione di un modo di stare al mondo che si fa invito alla conversione il cui primo passo è valutare non il valore oggettivo delle cose, ma la loro valenza più profonda: <Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere> (21, 4).

Lo sguardo con cui il Signore Gesù intercetta i gesti di quanti incontra sul suo cammino per coglierne il senso più profondo, diventa nell’Apocalisse una vera e propria visione del mondo che sarebbe assolutamente inadeguato ridurre ad una semplice sequenza di “visioni extrasensoriali”. Ciò che si fa intravedere il veggente di Patmos sono le conseguenze a largo respiro di questa logica del diminutivo che diventa uno stile di sequela capace di orientare fino a rifondare la storia universale: <Essi sono coloro che seguono l’Agnello dovunque vada. Questi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l’Agnello. Non fu trovata menzogna sulla loro bocca: sono senza macchia> (Ap 14, 4-5). All’immagine delle <monetine> si accosta quella dell’<Agnello> e di quanti lo seguono in un atteggiamento di piccolezza e di mitezza che supera radicalmente la logica del <superfluo> (Lc 21, 4) per aprirsi a quella del dono totale ed assoluto. Una grande speranza ci viene comunicata dalla Liturgia di quest’oggi, c’è un modo diverso di stare al mondo senza cadere nella trappola del superlativo continuo che rischia di prosciugare la nostra capacità di umanità: <ecco l’Agnello in piedi sul monte Sion, e insieme a lui centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo> (Ap 14, 1). Questo nome misterioso più che un nome anagrafico è uno stile da cui si riconosce quel legame di appartenenza che fa la differenza. In una parola: dare <tutto>, darsi totalmente proprio come si fa quando si muore, come si fa quando si ama! 

Nessuno è escluso

CRISTO RE

Ancora una volta l’evangelista Marco cede il posto a Giovanni con il quale concludiamo questo anno liturgico. Lo facciamo ritornando al momento più forte della vita del Signore, che è la sua gloriosa Passione. Mentre portiamo a compimento il ciclo di un anno liturgico in cui ci è stato dato nuovamente di meditare il mistero di Cristo e ci prepariamo a vivere un nuovo Avvento, la Liturgia ci chiede di volgere lo sguardo del nostro cuore <a Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen> (Ap 1, 5-6). Il veggente di Patmos è talmente preso dalla sua visione di Cristo Risorto da ritenere che a Lui si debbano volgere <anche quelli che lo trafissero> (1, 7). In una parola, nessuno è escluso e ognuno è invitato ad entrare nel Regno di Dio che ci è stato annunciato in Cristo Signore. La Liturgia di questa domenica ci fa contemplare il mistero del Regno di Dio che viene attraverso la contemplazione di Gesù che davanti a Pilato dichiara con solennità: <Io sono re> (Gv 18, 37). Nella misura in cui ciascuno di noi si mostra in grado di accogliere la logica del Vangelo partecipa di questa medesima regalità. Ma qual è il segreto del re, potremmo chiederci? Una risposta possibile a questa domanda la troviamo nella Colletta della Messa: <Dio onnipotente ed eterno, che hai voluto rinnovare tutte le cose in Cristo tuo Figlio, Re dell’universo, fa’ che ogni creatura, libera dalla schiavitù del peccato, ti serva e ti lodi senza fine>. Il <segreto del re> (Tb 12, 7) è proprio il mistero della libertà che produce una modalità di relazione in cui non ci sono <servitori> (Gv 18, 36), ma solo <amici> (Gv 15, 15). La solennità odierna ci aiuta a mantenere la giusta distanza e, se si rendesse necessario, a saperci opporre risolutamente ad ogni errore sulla regalità di Cristo quando viene intesa – come già da parte degli stessi apostoli e di quanti incontravano Gesù sulle strade della Palestina – in senso politico. La regalità del Signore Gesù è quella che viene partecipata ad ogni battezzato attraverso l’immersione nell’acqua e l’unzione con il Crisma: essere liberi dalla radice dell’egoismo che genera il peccato per essere liberi di amare come Cristo fino a dare la vita. Il confronto con Pilato è proprio questo raffronto tra due logiche che sono agli antipodi: l’egoismo e l’amore, il potere e il servizio, la schiavitù e la libertà. Quando il profeta Daniele vede <venire con le nubi del cielo uno simile ad un figlio d’uomo> (Dn 7, 13) dice che <il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto> (7, 14). Sotto la croce, dove la Madre e il discepolo amato sanno rimanere fino alla fine perseveranti nell’amore, essi non hanno <combattuto> (Gv 18, 36) per difendere Gesù bensì ne sostengono l’offerta come Aronne e Cur sostennero le braccia di Mosè mentre il popolo combatteva contro Amalek guidato da Giosué (Es 17, 10).

Personne n’est exclu

CHRIST ROI 

Une fois encore, l’évangéliste Marc cède la place à Jean avec lequel nous concluons cette année liturgique. Nous le faisons en retournant au moment le plus fort de la vie du Seigneur, qui est sa glorieuse Passion. Alors que nous arrivons à l’accomplissement du cycle d’une année liturgique où il nous a été donné la possibilité de méditer à nouveau le mystère du Christ, et que nous nous préparons à vivre un nouvel Avent, la Liturgie nous demande de tourner le regard de notre coeur ” vers Celui qui nous aime et qui nous a libérés de nos péchés par son sang, il a fait de nous un royaume, des prêtres pour son Dieu et Père, à lui la gloire et la puissance pour les siècles des siècles. Amen ” ( Ap 1, 5-6 ). Le voyageur de Patmos est tellement rempli de sa vision du Christ Ressuscité qu’il conçoit que ” même ceux qui l’on crucifié ” devraient se tourner vers Lui ( 1, 7 ). En un mot, personne n’est exclu et chacun est invité à entrer dans le Royaume de Dieu qui a été annoncé par le Christ Seigneur. La Liturgie de ce dimanche nous fait contempler le Mystère du Royaume de Dieu qui transparaît par la contemplation de Jésus qui, déclare solennellement devant Pilate “Je suis Roi” ( Jn 18, 37 ). Dans la mesure où chacun de nous est capable d’accueillir la logique de l’Evangile, il participe à cette même royauté. Mais, nous pourrions nous demander quel est le secret du roi ? Nous trouvons une réponse possible à cette question dans la Collecte de la Messe : ” Dieu éternel et tout-puissant qui a voulu renouveler toute chose en ton Fils, le Christ, Roi de l’univers, fais que chaque créature, libérée de l’esclavage du péché, te serve et te loue sans fin”. Le “secret du roi” ( Tb 12, 7 ) est vraiment le mystère de la liberté qui engendre un mode de relation où il n’y a plus de ” serviteurs” ( Jn 18, 36 ), mais seulement des ” amis ” ( Jn 15, 15 ). La solennité de ce jour nous aide à garder la bonne distance et, si cela était nécessaire, à savoir nous opposer résolument à toute erreur concernant la royauté du Christ lorsqu’elle est comprise dans un sens politique – comme ce fut le cas déjà par les apôtres eux-mêmes et par ceux qui rencontraient Jésus sur les routes de Palestine -. La royauté du Seigneur Jésus est celle qui est impliquée dans chaque baptême par l’immersion dans l’eau et l’onction par le Saint Chrême : être libre des racines de l’égoïsme qui engendre le péché, pour être libre d’aimer comme le Christ jusqu’à donner sa vie. La confrontation avec Pilate est vraiment ce rapport entre deux logiques qui sont aux antipodes : l’égoïsme et l’amour, le pouvoir et le service, l’esclavage et la liberté. Quand le prophète Daniel voyait ” venir avec les nuées du ciel comme un Fils d’homme ” ( Dn 7, 13 ), il disait que ” son pouvoir est un pouvoir éternel qui ne finira jamais, et son règne est tel qu’il ne sera jamais détruit “( 7, 14 ). Sous la croix, où la Mère et le disciple bien-aimé sont restés jusqu’à la fin, persévérants dans l’amour, ils n’ont pas ” combattu” ( Jn 18, 36 ) pour défendre Jésus, mais ils ont soutenu l’offrande comme Aaron et Hour soutenaient les bras de Moïse alors que le peuple, guidé par Josué, combattait Amalek  ( Ex 17, 10 ).

Relazione

XXXIII settimana T.O.

Di certo vi è una cosa che sta a cuore al Signore Gesù e per la quale è disposto anche a rischiare di entrare in conflitto con quanti, nel suo tempo, sanno e vogliono contare come i sadducei. Laddove l’interesse personale e la difesa dei propri privilegi induce la classe più potente e ricca del popolo a togliere ai più poveri persino l’estrema speranza della risurrezione, il Signore Gesù, invece, ribadisce un principio che, prima di essere dogmatico, è esistenziale e storico: il Creatore non è la fonte del potere, bensì il modello di una relazione fatta di amore e di cura: <Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui> (Lc 20, 38). Sotto l’apparenza o col pretesto di una discussione accademica, di cui si possono occupare solo quanti non hanno certo la preoccupazione della sopravvivenza, si nasconde una concezione del mondo che, nel caso dei sadducei, è dominata dalla legge del più forte e dall’interesse di chi ha degli interessi da difendere. La domanda posta al Signore Gesù, infatti, sembra occuparsi della storia così provante di una donna che perde uno dopo l’altro sette mariti come se si trattasse di una cosa di cui certificare l’appartenenza e la proprietà e il cui dramma di sofferenza e di umiliazione sembra non interessare affatto: <La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie> (20 33).

La risposta del Maestro sembra disattendere la domanda dei suoi interlocutori: <quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio> (20, 35-36). La differenza tra lo sguardo di Gesù e quello dei sadducei è sostanziale perché il primo è capace di evidenziare il mistero della persona in relazione a quel Dio di cui è immagine e che, a motivo di un disegno di amore di cui la relazione di coppia è riflesso, non può essere intaccato radicalmente dalla morte né tantomeno sottostare alle leggi del mercato e alle logiche del comodo. Nelle parole del Signore Gesù si avverte una sottile ed efficace protesta contro tutto ciò che si oppone alla vita intesa come relazione che radica in Dio e si ridona continuamente tra quanti di lui sono figli e in cui si sentono legati da un’alleanza e un patto di solidarietà: <Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe> (20, 37).

Al cospetto delle macchinazioni dei sadducei, il Signore Gesù si rivela come il <tormento> (Ap 11, 10) di tutto ciò che si oppone alla verità di Dio che è sempre il fondamento della verità della nostra umanità. Il libro dell’Apocalisse ci ricorda che il combattimento che oppone logiche diverse è ancora in atto. I due testimoni che si lasciano abitare da <un soffio di vita che veniva da Dio> (11, 11) riempie di <terrore> quanti pensavano di essersi definitivamente sbarazzati di loro. La vita, infatti, terrorizza sempre quanti, in realtà, temono la vita perché pensano di poter comprare e vendere tutto e tutti pur di conservare se stessi e i propri privilegi.

Piccolo libro

XXXIII settimana T.O.

Veniamo a scoprire che il libro sigillato, già motivo di lacrime per il veggente di Patmos angosciato dal fatto che nessuno sembrava avere le qualità per aprirlo e leggerne il contenuto, non è che un <piccolo libro> (Ap 10, 9. 10). Il fatto di essere <piccolo> permette al veggente di poterlo mangiare e di poterci trasmettere le sensazioni da lui sperimentate in questo atto che sembra così necessario: <Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza> (10, 10). La Parola di Dio contenuta nelle Scritture o apre ad una reale e “sensuale” esperienza di relazione tra la creatura e il Creatore, oppure resta lettera morta e rischia di non avere in realtà nessun valore. Un grande studioso e soprattutto innamorato lettore delle Scritture affermava introducendo un suo lavoro che rimane un pilastro dell’esegesi contemporanea: <Ho preso l’andatura di un’esposizione che si apre il cammino percorrendo tutta la Bibbia, come se una foresta, un paese esistessero solo se attraversati, come se la Bibbia esistesse solo se letta, da un viandante che comprime il suo desiderio di vedere tutto con quello di andare più lontano>1. Rendendo omaggio alla ricerca biblico-spirituale di Paul Beauchamp, il filosofo Paul Ricoeur scriveva: <Sembra che sia il significato teologico della Parola a salvare la scrittura dal cedere al fascino del nulla e rimettere l’uomo che scrive e legge sulla linea dalla morte alla vita, che era quella della parola ingenua>2.

Alla luce di queste suggestioni esegetiche possiamo dire prima di tutto che abbiamo sempre accesso a ciò che è più grande attraverso la porta di ciò che è più piccolo e che solo un contatto interiore e intimo con il senso profondo della Parola di Dio ci permette di sentire tutta la forza e tutta l’esigenza. Quando l’evangelista Luca annota che <tutto il popolo pendeva dalle sue labbra nell’ascoltarlo> (Lc 19, 48), possiamo intuire come la gente semplice sappia discernere nelle parole del Signore Gesù quella <parola ingenua> che è capace di toccare fino a trasformare la vita sin dalle sue radici. La forza ingenua di questa parola che incontra l’accoglienza dei poveri non può che creare l’opposizione dei potenti i quali <cercavano di farlo morire> (19, 47). Ogni volta che ci apriamo all’incontro con Dio dobbiamo scegliere se lasciarci toccare intimamente fino a lasciarci trasformare oppure chiuderci alla nutrizione della nostra vita interiore. Il <piccolo libro> è ciò che ci dà accesso al nostro piccolo tempio interiore ove possiamo vivere un autentico rapporto con Dio segnato dalla logica del dono e della condivisione per evitare che persino il tempio si trasformi in un <covo di ladri> (19, 46).


1. P. BEAUCHAMP, L’un et l’autre Testament, Seuil, Paris 1976, p. 9.

2. P. RICOEUR, <Accomplir les Ecritures selon Paul Beauchamp> in L’un et l’autre Testament, Médiasèvres, Paris 1996, II, p. 16.

Vicino

XXXIII settimana T.O.

Ieri ci siamo congedati dalla lettura del Vangelo con una nota assai decisa e chiara: <Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme> (Lc 19, 28). Oggi, la lettura del Vangelo ci fa cogliere un particolare assai significativo per il nostro cammino di conversione: <quando fu vicino a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa> (19, 41). Queste lacrime che il Signore versa alla vista della città santa ci aiutano a capire le altre lacrime evocate nella liturgia della Parola di quest’oggi. Nel testo dell’Apocalisse, infatti, leggiamo così del veggente di Patmos: <Io piangevo molto, perché non fu trovato nessuno degno di aprire il libro e di guardarlo> (Ap 5, 4). Alla disperazione del veggente così simile a quella di un bambino che si sente incapace di fare ciò che pure sembra così necessario, risponde l’intervento di uno degli anziani: <Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli> (5, 5).

Le lacrime del Signore Gesù e le lacrime del veggente di Patmos possono essere l’occasione per chiederci se e quali sono le lacrime che scorrono nella nostra vita. Normalmente le lacrime sono il segno delle emozioni più profonde e più incontenibili e perciò rivelano non solo ciò che ci sta a cuore, ma, ancor più fondamentalmente, ciò che abita e muove il più profondo del nostro cuore. Potremmo porci onestamente la domanda: <Per che cosa piango nella mia vita?>. A partire dalla risposta che riusciamo a dare a questa domanda cui nessuno può rispondere se non a partire dal profondo di se stesso, saremo in grado di renderci conto di cosa ci sta maggiormente a cuore e per cosa sentiamo realmente un bisogno di compromissione e di reale coinvolgimento.

Il Signore Gesù piange alla vista di Gerusalemme rendendosi ormai conto che i suoi abitanti sono insensibili alle sue parole e ai suoi gesti che vorrebbero aprire ad un dialogo d’amore nella verità di una conversione capace di aprire continuamente nuove possibilità di relazione e di crescita. Il veggente di Patmos è in lacrime perché si rende conto che nessuno è in grado di rompere quei sigilli oltre i quali si cela il senso più profondo della storia che ci permette di sperare in un futuro degno di essere vissuto fino a rischiare di coinvolgersi personalmente. Le nostre lacrime e le nostre emozioni più profonde e coinvolgenti per chi sono e per che cosa sono? Forse per rispondere in verità a questa domanda che ci tocca in modo così profondo dobbiamo unirci al veggente di Patmos nella contemplazione di ciò che avviene eternamente in cielo per saperlo attuare sulla terra e nella storia: <Poi vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato; aveva sette corna e sette occhi, i quali sono i sette spiriti di Dio mandati sulla terra> (Ap 5, 6). Il primo passo della conversione sembra essere proprio quello dell’attenzione. Nel mistero pasquale è lo stesso Dio che, in Cristo Gesù, si avvicina alla sua passione ne cui dramma può e vuole piangere e non solo vederci piangere.

Sali

XXXIII settimana T.O.

Ieri abbiamo cercato di accogliere nelle pieghe più segrete della nostra vita l’invito del Signore Gesù rivolto al piccolo Zaccheo che si cela pure dentro di noi: <Scendi subito> (Lc 19, 5). Oggi riceviamo un appello che sembra contraddire la parola del Signore: <Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito> e il veggente di Patmos aggiunge <Subito fui preso dallo Spirito> (Ap 4, 2). Oggi siamo chiamati a salire in groppa a quell’asino che porterà Gesù in Gerusalemme per compiervi il suo mistero pasquale proprio come il re della parabola il quale <partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare> (Lc 19, 12). La parabola ci mette di fronte ad una figura assai misteriosa che prepara il cuore dei discepoli a riconoscere nel loro Maestro che presto salirà sulla croce il volto di un Dio che invece di prendere si offre fino in fondo. Il Signore Gesù sta salendo verso Gerusalemme per ricevere un titolo regale che sarà appeso sulla croce e lo vedrà morire nella più cruda umiliazione. Anche noi siamo chiamati a salire con lui, a salire come lui nonostante una simile ascensione, che passa attraverso la sofferenza del fallimento e del rifiuto, ci ripugni profondamente.

Se l’angelo dell’Apocalisse ci invita a salire è per aprire i nostri occhi sul mistero di Cristo Signore che possiamo contemplare come <Uno> che <stava seduto> (Ap 4, 2). Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che prima di potersi sedere, è stato necessario percorrere quel lungo cammino che, sul Golgota, ha rivelato il suo amore profondo per noi. A partire da ciò possiamo comprendere meglio in che cosa consista l’essere capaci ogni giorno di far fruttare quelle <dieci monete d’oro> (Lc 19, 13) che ci vengono affidate per affrontare generosamente il nostro cammino. Ciò che non possiamo in nessun modo fare è di imitare il terzo dei servi, il quale evita di spendere e di investire i talenti che gli sono stati affidati e lo fa per un senso angosciato di sfiducia nel suo signore: <Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto> (19, 20). Questo servo timoroso non esita a motivare il suo comportamento: <avevo paura di te, che sei un uomo severo: prendi quello che non hai messo in deposito e mieti quello che non hai seminato> (19, 21).

In una parola si può dire che il terzo servo condivide il sentimento degli altri cittadini i quali <lo odiavano> e non volevano in nessuno modo che egli regnasse su di loro (19, 14). A questo punto la parabola diventa più chiara! Essa ci interroga sull’immagine di Dio che portiamo e coltiviamo nel nostro cuore. Forse anche noi rischiamo di continuare a pensare ad un Dio <severo> e in certo modo ingiusto, nonostante il fatto che ogni giorno egli ci consegni il dono della vita come una moneta completamente affidata alle nostre mani, alle nostre cure, alla nostra responsabilità e alla nostra creatività. Eppure, forse non siamo ancora sufficientemente convinti di Dio e incapaci di unirci al coro della gratitudine e della benedizione: <Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, per la tua volontà esistevano e furono create> (Ap 4, 11). 

Scendere

XXXIII settimana T.O.

È bello, molto bello, pensare che il Signore Gesù si possa sentire <a casa propria> nella nostra dimora. In tutto quel muoversi alquanto concitato di Zaccheo, che sale e scende dall’albero come un bambino che cerca il suo posto nel gioco della vita, possiamo ravvisare i tentativi che continuamente cerchiamo di fare per incrociare lo sguardo di Gesù e dare una direzione nuova alla nostra vita che rischia di essere incatenata a ciò cui ormai siamo talmente abituati da non poterne più. I movimenti esterni di Zaccheo potrebbero essere l’immagine dei nostri sentimenti più interiori: il timore di essere poco significativi o la gioia dei momenti in cui ci siamo sentiti guardati e apprezzati, il timore e la fierezza di quei gesti e di quelle scelte di cui non ci sentivamo capaci e che pure, a un certo punto, siamo stati in grado di fare con risoluto coraggio. Tutto questo raggiunge il nostro desiderio più profondo e, al contempo, sarebbe impossibile senza che una parola ci raggiungesse al cuore dei nostri timori fino a rimetterci in cammino: <Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua> (Lc 19, 5). Possiamo sostituire al nome di Zaccheo il nostro proprio nome… e questo vangelo diventerà una vera esperienza di salvezza.

Così supplica Gregorio di Narek: <Non mi sono sollevato da questa terra miserabile, come Zaccheo il pubblicano, sull’albero innalzato dalla sapienza per contemplare la tua divinità. La piccola statura dell’uomo spirituale in me non è cresciuta con le opere buone: al contrario, è diminuita senza sosta fino a farmi tornare a bere latte come i bambini (cfr 1Cor 3,2). Prendendo la parabola al contrario, sono salito sull’albero della sensualità con l’amore delle cose di questo mondo dal gusto piacevole, come un altro Zaccheo su un altro albero. Da lassù, grazie alla tua parola potente, fammi scendere in fretta come lui; vieni nella casa della mia anima, e, con te, il Padre e lo Spirito Santo. Fa’ che questo corpo, che ha fatto del male alla mia anima, le renda il quadruplo in servizio e dia la metà dei suoi beni al mio libero arbitrio impoverito, affinché, secondo la parola di salvezza da te detta a Zaccheo, anch’io sia degno di ascoltare la tua voce, essendo anch’io figlio di Abramo e seguendo la fede del nostro patriarca>1.

Possiamo sentire a questo punto tutta la forza e la bellezza di quanto ci viene detto nella prima lettura come rivelazione di un atteggiamento costante del Signore verso di noi: <Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me> (Ap 3, 20). Non solo, sembra che il Signore non si accontenti di stare nella nostra casa rendendoci ospite della sua, ma senta il bisogno di starci il più vicino possibile in una intimità che prima ancora di premiarci ci commuove: <Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anch’io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono> (3, 21). Di quale vittoria si tratta se non quella sulle inutili e terribili distanze che ci separano dall’amore inducendoci a scalare il sicomoro delle nostre paure per nasconderci a noi stessi prima che agli altri? Una parola risuona come salvezza e guarigione che pure esige la nostra risposta: <Scendi subito> (Lc 19, 5).


1. GREGORIO DI NAREK, Gesù, unigenito del Padre, 668-673.

Fatica

XXXIII settimana T.O.

Cominciamo quest’oggi la lettura del libro dell’Apocalisse che ci accompagnerà in queste due ultime settimane dell’anno liturgico preparando così i nostri cuori e le nostre menti a riprendere un nuovo cammino di Avvento: <Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve> (Ap 1, 1). Nulla di sinistro e di allarmante nelle intenzioni di Dio nel momento in cui cerca di aprire il cuore dei suoi servi a ricevere le chiavi necessarie per comprendere il mistero della storia e attraversarlo con consapevolezza e come luogo di realizzazione interiore: <Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte> (1, 3). Per quanto nel libro dell’Apocalisse ci siano pire brucianti di <guai> e vengano evocate immagini forti e inquietanti, il loro scopo non è quello di farci sprofondare in un’angoscia paralizzante, ma di aprirci ad una luce nuova su noi stessi e sulla stessa storia di cui siamo inevitabilmente parte e non raramente anche protagonisti secondo le misure proprie della nostra personalità, dei nostri doni e delle nostre responsabilità.

La rilettura dell’Apocalisse potrebbe essere per noi l’occasione di creare una sorta di vocabolario della speranza cui attingere continuamente le parole e i gesti per portare avanti con <perseveranza> (2, 2) il nostro cammino. Oggi potremmo mettere nel salvadanaio della nostra riserva di speranza una parola: <fatica>! Il Signore, attraverso il veggente, parla al nostro cuore e non lo fa con toni minacciosi, ma in modo esigente: <Conosco le tue opere, la tua fatica> e aggiunge <Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome senza stancarti> (2, 2-3). In modo del tutto naturale possiamo chiederci a che cosa corrisponda realmente la <fatica> evocata dall’Apocalisse. Se leggiamo con attenzione il Vangelo forse potremmo dire che si tratta della duplice fatica di riconoscere in Gesù il nostro salvatore senza avere vergogna di mettergli davanti tutta la nostra debolezza che, spesso, è una forma di cecità interiore che ci isola e in cui ci sentiamo confusi e insicuri. Quando sentiamo la fatica del passo possiamo fare nostro il grido di quel cieco <seduto lungo la strada a mendicare> (Lc 18, 35). Tutti e sempre continuiamo a mendicare un po’ di luce in più per orientarci nella nostra fatica di continuare, ora più gioiosamente ora più dolorosamente, a camminare.

Così prega un grande mendicante della luce: <Questa luce ci conduce per mano, ci fortifica, ci insegna, mostrandosi e poi fuggendo quando abbiamo bisogno di lei. Non è quando lo vogliamo – ciò appartiene ai perfetti – ma quando siamo nella difficoltà e completamente senza forze che lei viene in nostro soccorso. Appare di lontano e mi dà di sentirla nel cuore. Grido col cuore in gola per arrivare a possederla, ma tutto è notte, e vuote sono le mie povere mani. Dimentico tutto, mi siedo e piango, disperando di vederla un’altra volta. Quando ho pianto abbondantemente e mi concedo di fermarmi, allora, arriva misteriosamente, mi prende la testa, ed io mi sciolgo in lacrime senza sapere chi è che illumina il mio spirito di una così dolce luce>1. Vale la pena faticare per riceverne un raggio, e, ancor di più vale la pena, soffrire per donarne ai nostri fratelli.


1. SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO, Inni, 18.

Speranza

XXXIII Domenica T.O.

Mentre l’Anno Liturgico volge verso la sua conclusione la parola di Dio ci mette già in sintonia con la fine mediante il segno del compimento che passa sempre – senza esaurirsi – attraverso l’esperienza di una catastrofe. Nella prima lettura, il profeta Daniele non usa mezzi termini: <Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo>; e aggiunge <in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro> (Dn 12, 1). Da parte sua, il Signore Gesù non esita a parlare di <tribolazione> fino a dire che <le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte> (Mc 13, 24-25). La tentazione di passare dalla ricezione di una situazione di <catastrofe> ad un atteggiamento di catastrofismo è sempre accovacciata alla soglia del nostro cuore abitato – più o meno consciamente – da fobie. In realtà, non è al catastrofismo che la Parola di Dio vuole iniziarci, bensì alla speranza. Al cuore dell’annuncio di questa domenica si trova quella che potremmo definire la “parabola non detta” o solo accennata. Il Signore Gesù, infatti, al cuore del suo discorso escatologico pone una parola di esortazione così breve da essere quasi solo accennata. Questa parola di speranza suona così: <Dalla pianta del fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina> (13, 28). Cirillo di Gerusalemme si chiede: <D’inverno, gli alberi sono come morti: dove sono le foglie del fico?>. La risposta a questa domanda è che, nonostante le apparenze, le foglie sono già dentro l’apparente morte assoluta dell’albero di fico che, durante l’inverno, sembra veramente il fantasma di se stesso. Il fico che d’estate si ammanta di foglie così grandi da servire da vestito per i nostri progenitori (Gn 3, 7) e da piatti per alcune vivande, d’inverno è lo spettro di se stesso e, per giunta, la legna che si trarrebbe dal suo abbattimento non serve a niente: né a costruire né a scaldare. Eppure, il suo frutto ha una <dolcezza> (Gdc 9, 11) di grande gusto e possiede persino capacità mediche in forma di <impiastro> (Is 38, 21). Così pure quest’albero che, durante l’inverno, è l’ombra di se stesso non solo dà frutti abbondanti che si possono anche conservare per l’inverno, ma dà due raccolti all’anno: i primaticci (Ct 2, 13) e il frutto vero e proprio. Spesso abbiamo l’impressione di essere in un vicolo senza uscita o in un pozzo senza fondo. La parola del Signore Gesù ci dice che non è così e che la totalità della nostra esistenza – attraverso tutte le sue fasi – porta verso la <dolcezza> (Gdc 9, 11) che è segno di una maturità che esige i lunghi tempi della pazienza e dell’amore.