Ton nom est Fils, alléluia !

IV Dimanche de Pâques –

Pendant la Vigile Pascale, nous avons, une fois encore, – comme chaque année – lu le récit de l’épreuve d’Abraham à qui le Seigneur demande d’offrir en holocauste son propre fils. Le texte hébraïque est construit sur une affinité ambiguë, combien dramatique, car la même expression – tal’ja – indiquant l’agneau risque de signifier aussi le fils. Ainsi, au coeur du temps pascal, le mystère du Fils et de l’Agneau nous est reproposé magnifiquement par la Liturgie. Dans le bref Evangile de ce dimanche, celui qui se considère indirectement comme berger dans les versets que nous lisons cette année, a des brebis qui écoutent sa voix et «  le suivent » ( Jn 10, 27 ). Lorsqu’il parle de lui-même, il fait référence, en réalité, de manière forte, à ce Père qui est évoqué trois fois en un seul verset : « Mon Père qui me les a données est le plus grand de tous et nul ne peut rien arracher de la main du Père, le Père et moi ne sommes qu’un » ( Jn 10, 30 ).

Dans cette unité de communion essentielle réside le fondement de ce chemin vers l’unité et le partage d’une même respiration  qui concerne toute l’humanité, dans la mesure où elle se laisse guider par son «  pasteur » ( Ap 7, 17 ) qui s’est fait amoureusement «  Agneau ». Une fois encore la Liturgie crée une magnifique correspondance : si, le Père est évoqué trois fois dans l’Evangile, dans la première lecture, l’on parle trois fois de l’Agneau qui est exactement ce Fils qui nous invite à une communion avec Dieu, relation définitivement rachetée de toute ombre de peur et de servitude pour nous ouvrir à l’esprit de la filiation où nous nous sentons et sommes vraiment libres. La vision du voyageur de Patmos devient ainsi une initiation d’espérance : « Voici qu’apparut à mes yeux une foule immense, impossible à dénombrer, de toute nation, race, peuple et langue : debout devant le trône et devant l’Agneau » ( 7, 9 ).

Souvent, nous trouvons dans l’Apocalypse plutôt l’attitude de la prostration en adoration, mais ici, au contraire, l’attitude est celle qui indique la liberté et la dignité qui, en vertu du mystère pascale du Christ Seigneur, nous rend victorieux de toute forme de peur et d’anéantissement de dignité : « vêtus de robes blanches, des palmes à la main ». Nous pourrions maintenant reprendre ce que l’on pourrait considérer comme une acclamation du rythme narratif de la première lecture : « Tout joyeux, ils se mirent à glorifier la parole du Seigneur, et tous ceux qui étaient destinés à la vie éternelle crurent » ( Ac 13, 48 ). L’on pourrait se demander en quoi «  ils crurent » ? Nous devrions nous demander en quoi, nous-mêmes nous croyons et la réponse est, sans doute, que le sens profond de notre foi en Christ, mort et ressuscité, est de nous sentir  vraiment toujours d’avantage fils du Père en nous laissant porter dans sa «  main » ( Jn 10, 29 ) avec une confiance et une joie incomparable. C’est le Seigneur Jésus qui pose chacun de nous dans la grande main de Dieu après nous avoir portés amoureusement sur ses épaules de bon pasteur et nous avoir fait retrouver ainsi le chemin perdu de la foi, de la joie, de l’espérance…par une parole de filiation au milieu des tourments de la «  grande tribulation » ( Ap 7, 14 ). L’expérience que nous sommes appelés à faire en reposant dans la grande et douce main du Père est celle-ci : « Dieu essuiera toute larme de leurs yeux » ( Ap 7, 17 ).

Il tuo nome è Gazzella, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

Concludiamo la lettura del capitolo sesto di Giovanni e se, guardiamo bene il testo, possiamo dire che la poesia dell’inizio si trasforma sotto i nostri occhi in dramma della fine. Il finissimo gesto di compassione e di amore con cui il Signore Gesù prende l’iniziativi di condividere, al massimo delle possibilità, il poco pane disponibile, ci porta, dopo un lungo discorso – che in realtà è una vera a propria catechesi – verso quella domanda che, benevolmente evitata all’inizio, viene posta così radicalmente alla fine: <Volete andarvene anche voi?> (Gv 6, 67). È questa domanda che, ogni anno, la Liturgia sembra porre volutamente alla comunità dei credenti che rivivono, insieme ai neofiti, l’avventura della mistagogia proprio alla vigilia della domenica del “buon Pastore”. Se non sappiamo rispondere fino in fondo a questa domanda che il Signore pone <ai Dodici> e, attraverso di essi, alla Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo, sarà quasi impossibile saper riconoscere la voce e metterci sui passi di Cristo Risorto. Rischia di essere quasi impossibile agire come le pecore fanno con il pastore di cui conoscono l’odore e di cui, alla fine, hanno addosso lo stesso odore segno di una condivisione profonda e intima di un medesimo destino.

La risposta di Simon Pietro, almeno per questa volta, è più che felice: <Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio> (6, 68-69). Riconoscere in Gesù <il santo di Dio>, significa non solo onorarlo con la propria fede, rinnovando la propria disponibilità a seguirlo, ma comporta un passo ulteriore. Ciò che è <santo> è ciò che pur entrando in contatto e in comunione con noi, è sempre oltre noi stessi ed esige una coscienza di differenza radicale che fa la qualità della relazione unica, una relazione che l’Altissimo ci ha offerto in Cristo Gesù che ha dato la sua vita per noi come un pezzo di pane che si lascia mangiare e metabolizzare per dare vita. Riconoscere nel mistero pasquale il Cristo, significato nel sacramento dell’Eucaristia, significa ritornare continuamente al fondamento della nostra intimità con Dio che si radica in una differenza assoluta.

Allora le immagini della prima lettura ci possono offrire un ulteriore aiuto per dare contenuto all’intuizione e alla confessione di Simon Pietro. E’ proprio l’apostolo Pietro che compie due miracoli ravvicinati, entrambi con il sapore di un invito pressante a rimettersi in piedi e a riprendere il cammino: c’è Enea che <da otto anni giaceva su una barella perché era paralitico> (At 9, 33), e c’è Tabità che Pietro richiama dal sonno e dall’immobilità della morte riportandola ad onorare pienamente il significato del suo nome: <Gazzella> (9, 36). In realtà la vera Gazzella, che ci precede continuamente e ci chiede di stare al suo passo camminando alacremente nelle vie della santità, è Cristo Signore. Per questo lo riconosciamo con Pietro <il Santo di Dio> e ci rimettiamo alla sua sequela quasi volando perché sappiamo che egli sempre ci precederà senza mai seminarci.

Il tuo nome è Vita, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La nota con cui si conclude il testo del Vangelo che leggiamo nella Liturgia di oggi evoca le <cose> che il Signore Gesù avrebbe detto insegnando <nella sinagoga a Cafarnao> (Gv 6, 59). Le parole che il Signore ci dona, in realtà, sono ben più che delle parole, esse – infatti – ci trasmettono la vita e la tengono continuamente viva dentro di noi perché possa crescere e raggiungere la sua pienezza. Allora possiamo veramente dire che il pane moltiplicato per la folla è segno di quella vita donata. Il Signore Gesù spinge le immagini ancora più lontano e, per certi aspetti, persino troppo lontano: <se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita> (Gv 6, 53). La domanda si pone in modo del tutto naturale e, per molti versi, si fa necessaria: “Di quale vita si tratta?”. La risposta del Signore Gesù sembra persino anticipare la questione: <Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda> (6, 54-55).

Non è difficile immaginare l’imbarazzo e la fatica degli ascoltatori di Gesù davanti a immagini così forti che risvegliano tutta una serie di attenzioni e di preoccupazioni rituali e spirituali che hanno a che fare con le carni macellate e, soprattutto, rapportate con il sangue, non solo degli animali, ma anche con quello degli umani. Una serie di tabù che, in realtà, custodisce il mistero della vita ed evita che si attenti alla sua sacralità. Eppure, sembra che il Signore Gesù voglia condurre i suoi ascoltatori proprio sulla soglia di questa comprensione forte del mistero di una vita donata e condivisa, con una radicalità e una generosità tali da abbattere ogni schema religioso di auto-protezione per trasformarlo in un invito al rischio del dono. Il segreto di tutto ciò risiede e si radica nella stessa vita di Dio: <Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me> (6, 57).

Attraverso queste parole, che il Signore Gesù pronuncia nella sinagoga di Cafarnao, possiamo capire meglio che cosa realmente sia avvenuto a Saulo <mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco> (At 9, 3). C’è qualcosa che stravolge completamente e definitivamente il modo di sentire, di vivere e di imporre la relazione con Dio. Mentre Saulo si reca a Damasco per imprigionare i discepoli del Signore Gesù, è avvolto da <una luce> che lo obbliga a cambiare completamente il suo modo di vedere e di giudicare. Una luce che lo rende prima di tutto cieco e poi riaprire gli occhi del suo cuore ricominciando tutto daccapo. Lo stesso Signore narra, al timoroso Anania, che cosa è avvenuto nel cuore del temuto persecutore: <ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire a imporgli le mani perché recuperasse la vista> (9, 12). Il passaggio di Saulo, che, come tutti i farisei, hanno una grande devozione per gli angeli e si fanno scrupolo di difendere i diritti di Dio anche a costo della vita propria ed altrui, è una sorta di conversione all’<uomo>. Ciò che sigilla la trasformazione del cuore di Saulo è quell’uomo che gli viene incontro come fratello e gli apre una nuova via di comprensione del mistero stesso di Dio su cui l’apostolo rifletterà per il resto della sua vita. Servire Dio trasformando la nostra relazione con Lui in carne e sangue, in una vita vera e piena, una vita che sa riceversi con gratitudine e ridonarsi con generosità. Tutto cambia: invece di essere noi ad offrire a Dio qualcosa, è Lui che si offre a noi e ci mostra così la <Via> (At 9, 2) per fare altrettanto.

Il tuo nome è Carro, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La parola del Signore rivolta alla folla che ha appena sfamata, è la chiave per entrare nella comprensione profonda di quanto avviene su quella strada che <va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza> (At 8, 26). Quella strada è caratterizzata da una nota inconfondibile: <è deserta>! Nel Vangelo, il Signore Gesù ci ricorda quello che può essere considerato una sorta di principio fondamentale della nostra relazione con Dio: <Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno> (Gv 6, 44). Come il Signore Gesù ha nutrito la folla e l’ha resa capace non solo di mangiare, ma anche di parlare e di interagire, così Filippo è invitato dal Signore a farsi carico di questo eunuco che sembra specchiarsi nel servo sofferente di cui si parla nel racconto che sta leggendo mentre torna a casa. Il primo passo necessario perché l’eunuco possa ricevere consolazione e conforto è legato alla disponibilità di Filippo di farsi mediazione di salvezza: <Va’ avanti e accostati a quel carro> (At 8, 29).

L’evangelizzazione, nel senso più pieno del termine, di questo funzionario regale comincia, ancora una volta, con un primo passo che viene fatto da Filippo su ispirazione dello Spirito. Si tratta di prevenire i fratelli che camminano sulle strade della vita tanto da diventare, prima di tutto, loro compagni di viaggio e, solo dopo, persino loro guide. Così la domanda posta da Filippo rende possibile un’altra domanda che viene avanzata dall’eunuco: <E come potrei capire se nessuno mi guida?> (At 8, 31). Il testo degli Atti ci dice che <Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui Gesù> (8, 35). Si potrebbe dire che non è possibile annunciare il mistero di Gesù – e condividere la liberazione che ci viene dal suo Vangelo – se non si è capaci di prendere spunto dalla vita e, in particolare, se non si sa partire dalla sofferenza reale che attraversa il vissuto di ciascuno.

Il <carro> su cui Filippo deve salire è, certamente, la vita di questo funzionario regale che però è – prima di tutto – un <eunuco> conquistato da un passo del profeta il quale, non certo per caso, parla di <umiliazione> (8, 33). Solo quando la sofferenza sarà stata assunta e redenta nel mistero di Cristo Signore, allora si potrà <fermare il carro> (8, 38) e scendere insieme nell’acqua per vivere l’esperienza del battesimo. E’ questo il modo per salire – ormai – sull’unico carro che può condurre verso gli spazi più ampi della vita, quella vita  e che è lo stesso mistero di Cristo. Egli è <il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia> (Gv 6, 50) e possa risalire verso un di più di vita… come una pianta <recisa dalla terra> (At 8, 13) che, al primo sole – e dopo le prime piogge – non solo germina di nuovo, ma è persino più forte e più bella. Vi è pure un’altra domanda che rimane aperta e che apre la generosa condivisione del dono della salvezza e della vita: <che cosa impedisce che io sia battezzato?> (8, 37). La questione si porrà altre due volte (At 10, 47; 11, 17) a motivo della circoncisione, ritenuta essenziale per entrare nella vita del popolo di Dio. La parola profetica continua a far sognare e a far camminare: <E tutti saranno istruiti da Dio> (Gv 6, 45). Sul carro regale di Cristo Risorto che è il talamo della sua croce… c’è posto per tutti… per tutto!

Il tuo nome è Gioia, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La prima lettura ci mette di fronte, per la prima volta in modo così intenso, non solo al dramma della persecuzione, ma anche a quella che potremmo definire la grazia della persecuzione. La morte di Stefano rappresenta nella storia della Chiesa, a partire da ciò che è stato vissuto dalla prima comunità cristiana, un momento importantissimo: ai discepoli è riservata la stessa sorte del loro maestro e questo invece di indebolire non fa che rafforzare ulteriormente la loro testimonianza e il loro entusiasmo. Se le prime parole evocano la <violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme> (At 8, 1), le ultime parole sono invece: <E vi fu grande gioia in quella città> (8, 8). Tra la persecuzione e la gioia. Forse sarebbe meglio dire che la gioia è frutto della persecuzione nella misura in cui si sa accogliere il mistero della dispersione che diventa una sorta di necessità e quasi condizione per l’ampliarsi dell’evangelizzazione: <Quelli però che si erano dispersi andarono di luogo in luogo, annunciando la Parola> (8, 4).

Il vento della Pentecoste sembra che continui a spazzare il cielo della storia attraverso il vento della persecuzione che permette comunque, in un modo o nell’altro, che il polline del Vangelo fecondi i fiori della nostra umanità, sempre più lontano e sempre più in alto, diventando promessa di un raccolto più che abbondante. Il Signore Gesù si fa nutrimento della nostra gioia e della nostra pienezza di vita: <E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno> (Gv 6, 39). Il destino di risurrezione è il desiderio del Padre per ciascuno dei suoi figli; pertanto, questa risurrezione non è rimandata in un lontano futuro, ma è l’esperienza di una relazione con Cristo Signore che ci fa partecipi della stessa vita divina. Sembra che il Signore Gesù abbia bisogno di ribadirlo: <Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno> (6. 40).

La salvezza si riceve da un altro come un sorriso perché radica nella stessa vita della Trinità e sgorga dalla stessa intimità divina: è relazione, dialogo, condivisione, comunione allo stesso pane, fraternità che nasce e si rafforza nella condivisione dei propri bisogni e delle proprie necessità. Essere salvati ed essere inondati di gioia è semplice come un “buongiorno” o un “ciao” pieno di allegra tenerezza. La gioia pasquale è come il lievito impastato con la nostra vita quotidiana e persino banale perché la nostra esistenza sia contrassegnata da una libertà capace di dilatare gli spazi della comunione e della condivisione. La gioia è più che un sentimento, è il frutto di un lungo lavoro su se stessi il quale comincia sempre con l’aratro di una volontà che sa sarchiare la terra del cuore per fare spazio a solchi capaci di accogliere e custodire il seme del Vangelo come premessa necessaria per il raccolto di una carità sempre più ampia e autentica. Gioia non è che il volto di un amore sempre più dato persino nella persecuzione dell’incomprensione o del rifiuto.

Il tuo nome è Gloria, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

Possiamo dare un contenuto preciso a quanto ci viene raccontato dagli Atti degli Apostoli in riferimento a Stefano che <pieno di Spirito Santo, fissando il cielo vide la gloria di Dio, e Gesù che stava alla destra di Dio> (At 7, 55). Ciò che Stefano contempla è ciò che egli stesso, in prima persona sta per vivere affrontando, serenamente e con coraggio, la sua stessa morte in tutto simile a quella del suo Signore. Ciò che destabilizza il Sinedrio, nella testimonianza che Stefano porta al Signore Gesù da lui riconosciuto come il Messia atteso, è il fatto che il dono promesso da Dio al suo popolo si è dato in modo molto diverso da quelle che erano le attese messianiche. Sentiamo l’eco di questa profonda differenza nella discussione che si instaura dopo la moltiplicazione dei pani e dei pesci. La folla rammenta a Gesù che <I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”> (Gv 6, 31). Dicendo questo la folla avanza una sottile pretesa nei confronti del Signore che potremmo tradurre così: “Continua a nutrirci senza che dobbiamo faticare”. Attorno al pane e ai pesci nasce una discussione analoga a quella sorta al pozzo di Giacobbe con la Samaritana che chiede al Signore di risparmiarle finalmente quella pena quotidiana di dover andare e venire dal pozzo per attingere acqua.

Il <pane dal cielo> diventa nell’annuncio del Signore qualcosa di completamente nuovo: <il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo> (6, 33). Come la Samaritana accanto al pozzo così la folla sulla riva del lago: <Signore, dacci sempre questo pane> (6, 34). La folla fa fatica a comprendere che il Signore ha moltiplicato il pane non perché è uno che dà il pane, ma perché si fa pane fino a dire con solennità poco compresa perché troppo impegnativa nelle sue conseguenze esistenziali: <Io sono il pane della vita> (6, 35). Il passaggio dall’essere semplicemente parte di una folla beneficata ad essere discepoli capaci ormai di spezzare il pane della propria vita, sta proprio nel comprendere questa differenza fondamentale il tra il dare il pane e farsi pane.

Stefano lo ha compreso in modo preciso tanto da lasciare che la sua vita sia presa e macinata sotto le pietre della lapidazione che lo rendono in tutto e per tutto simile al suo Maestro tanto da dire le sue stesse parole non prima di aver acconsentito ad essere trattato allo stesso modo: <Signore, non imputare loro questo peccato> (At 7, 60). Stefano fa interamente sue le parole del Salmo: <Io confido nel Signore. Esulterò e gioirò per la tua grazia> (Sal 30, 7-8). Ora tocca a noi di smettere di discutere per cominciare, invece, a panificare per donare la nostra vita come dono che rallegra e conforta i nostri fratelli e sorelle in umanità. La celebrazione dell’Eucaristia non è altro che questo consenso del nostro cuore ad essere trasformati in ciò che mangiamo accettando di essere a nostra volta consumati dalla fame degli altri… secondo il loro gusto e il loro bisogno. Per riprendere un testo di Ireneo di Lione: <La gloria di Dio è l’uomo che vive>. Potremmo aggiungere: la gloria di Dio è l’uomo che si fa pane come il suo Signore: questa è l’unica nostra gloria.

Il tuo nome è Rabbì, alleluia!

III Settimana di Pasqua –

La domanda che la folla rivolge al Signore Gesù rivela come la gente avverta la necessità della sua presenza: <Rabbì, quando sei venuto qua?> (Gv 6, 25). Quando poniamo a qualcuno domande di questo tipo non facciamo che manifestare – tra le righe del nostro discorso – quanto abbiamo bisogno di questa presenza per vivere meglio, per sentirci più vivi e per avvertire quel conforto di cui abbiamo bisogno. Quello che avviene dopo la moltiplicazione e la condivisione dei pani e dei pesci, è una sorta di inseguimento tanto che <Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù>. Questa ricerca non è assolutamente vana perché <Lo trovarono al di là del mare> (6, 24-25). Questo rincorrersi un po’ ci stupisce… sia da parte della folla, sia da parte del Signore Gesù che sembra giocare a nascondino. Il motivo di tutto questo movimento può essere colto come un simbolo della preoccupazione da parte del Signore che la gente sfamata con i pani e i pesci tanto da essere rinfrancata e rafforzata da questo cibo, non si accomodi, ma, al contrario, si metta in cammino; non si fermi nella sua ricerca, ma la porti avanti con passione e decisione.

Il nome con cui la gente indica il Signore è <Rabbì>! E il Signore come maestro si fa seguire fino a farsi inseguire per obbligare ciascuno a fare un lungo e necessario percorso per verificare se e fino a che punto questa ricerca e questa devozione discepolare siano autentiche. Alla fine di questo lungo capitolo il risultato più significativo sarà proprio la constatazione che se tutti hanno mangiato, non tutti si aprono alla fede sapendone assumere tutte le esigenze connesse. Nel gran movimento di barche – tra gente che salpa e gente che approda – si inserisce la parola esigente del Signore: <In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati>. Questo ha una conseguenza assai chiara che fa la differenza: <Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà> (6, 26-27). Potremmo tradurre tutto questo come una provocazione da parte del Signore: “se mi volete come rabbì, dovete imparare ad essere docili e non semplicemente grati”.

La figura di <Stefano, pieno di grazia e di potenza> (At 6, 8) diventa così icona del discepolo autentico che si fa in tutto conforme, non solo agli insegnamenti del maestro, ma soprattutto al suo stile e al suo modello di vita. Il segno di questa intima docilità che si fa conformazione nella vita e nella morte, è la condivisione della stessa sorte che crea lo stesso atteggiamento di rifiuto: <Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio> (6, 11). In realtà Stefano non ha mai detto – come del resto il suo Signore e Maestro – nessuna parola blasfema, ma ha messo in crisi quel sistema di controllo e di potere che è l’unica vera blasfemia perché è il risultato dell’idolatria di se stessi.

Il tuo nome è Stare, alleluia!

III Domenica di Pasqua –

L’evangelista Giovanni ci porta ben lontano, veramente al largo nella necessaria comprensione del mistero di Cristo che, Risorto dai morti, continuamente ci precede nelle vie della vita. Mentre gli apostoli cercano di ritrovare se stessi dopo il dramma pasquale ritrovando la vita di sempre, il Signore Risorto <stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù> (Gv 21, 4) mentre il Maestro sapeva bene chi erano i suoi discepoli. La Pasqua ha cambiato realmente tutto e in modo così radicale che non basta riprendere le abitudini di prima per ritrovare il proprio cammino. È necessario, per così dire, fare i conti con la Pasqua e il Signore Gesù sta sulla riva per aiutare e accompagnare i discepoli e non far finta di nulla e a non dimenticare… anzi a fare memoria e quindi essere in grado di fare un passo avanti nella loro comprensione del mistero della vita piuttosto che cercare in tutti i modi tornare indietro.

Se ci lasciamo guidare dalla sapienza della Liturgia possiamo mettere in parallelo il passo dell’Apocalisse con ciò che ci viene raccontato dal Vangelo. È come se si trattasse di due liturgie: una celeste e l’altra terrestre, una cultuale e l’altra esistenziale. Eppure, sarebbe proprio la riva del lago ad essere il luogo più giusto e più vero che sciogliere il proprio cuore nell’acclamazione: <A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli> (Ap 5, 13). Si potrebbe osare un’immagine che rasenta la banalizzazione irriverente, ma che pure rischia di essere particolarmente efficace: nel mistero dell’abbassamento pasquale del Verbo fatto carne, Dio ormai <siede sul trono> come una madre di famiglia sta ai fornelli per poter invitare tutti con amorevole allegrezza: <Venite a mangiare> (Gv 21, 12).

La conclusione della prima lettura ci attesta come e quanto, in realtà, gli apostoli, infine, sono stati capaci di entrare nel mistero della risurrezione fino a saper rischiare e donare tutta la loro vita: <Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù> (At 5, 41). La fecondità pasquale se è il frutto maturo del cammino di Gesù in mezzo a noi, rappresenta anche una rottura radicale nel modo della sua presenza. Ciò viene suggerito da una sorta di trasformazione numerica che, per gli antichi, è il modo più adeguato per indicare un radicale e irreversibile mutamento del reale. I discepoli non sono né i Dodici, né gli Undici degli altri racconti della risurrezione – questa è infatti la <terza volta> – sono ormai sette, numero che indica la pienezza e la perfezione come nel settenario della creazione. Ma soprattutto essi non vengono ricordati con l’evocazione di un numero, ma con la precisa ripetizione del nome di ciascuno dei primi tre, l’evocazione del legame di altri due e un numero, infine, che lascia aperto ogni nome possibile: <si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli> (21, 2). A questo compare un modo nuovo di porsi: <Io vado a pescare> cui segue un <Veniano anche noi con te> (21, 3). Vi è un’ultima parola del Risorto: <Seguimi> (21, 19). Ormai è il tempo della solitudine, del cammino della fede vissuto, certo e necessariamente, in comunione profonda con gli altri discepoli, ma aperti all’irriducibile dell’esperienza personale che è unica e irripetibile: <… e ti porterà dove tu non vuoi> (Gv 21, 18).

Ton nom est Rester, alléluia !

III Dimanche de Pâques –

L’évangéliste Jean nous emmène bien loin, vraiment au large de la compréhension nécessaire du mystère du Christ qui, Ressuscité des morts, nous précède continuellement sur les chemins de la vie. Pendant que les apôtres cherchent à se retrouver après le drame pascal en reprenant la vie de toujours, le Seigneur Ressuscité « parut sur le rivage, mais les disciples ne reconnurent pas que c’était Jésus » ( Jn 21, 4 ), alors que le Maître savait bien qui étaient ses disciples. Pâques a réellement changé tout de façon si radicale qu’il ne suffit pas de reprendre les habitudes d’avant pour retrouver son chemin. Il est nécessaire, pour ainsi dire, de compter avec Pâques et le Seigneur Jésus se tient sur la rive pour aider et accompagner les disciples à ne pas faire semblant et à ne pas oublier…donc à faire mémoire et à être capable de faire un pas en avant dans leur compréhension du mystère de la vie plutôt que de chercher à tout prix de retourner en arrière.

Si nous nous laissons guider par la sagesse de la Liturgie, nous pouvons mettre en parallèle le passage de l’Apocalypse et ce que nous décrit l’Evangile. C’est comme s’il s’agissait de deux liturgies : l’une céleste et l’autre terrestre, l’une cultuelle et l’autre existentielle. Pourtant, ce sera vraiment la rive du lac qui sera le lieu adéquat et véritable qui fera fondre le coeur dans l’acclamation : «  A celui qui sied sur le trône et à l’Agneau, louange, honneur, gloire et puissance pour les siècles des siècles » ( Ap 5, 13 ). L’on pourrait oser  une image frôlant la banalisation irrévérente, mais qui risque d’être particulièrement efficace : dans le mystère de l’abaissement pascal du Verbe fait chair, Dieu, désormais, «  siège sur le trône » comme une mère de famille reste aux fourneaux pour pouvoir inviter tous avec une joie amoureuse : «  Venez et mangez » ( Jn 21, 12 ).

La conclusion de la première lecture nous atteste comment et quand, en réalité, les apôtres, enfin, ont été capables d’entrer dans le mystère de la résurrection jusqu’à savoir risquer et donner leur vie : «  Pour eux, ils s’en allèrent, alors du Sanhédrin, tout joyeux d’avoir été jugés dignes de subir des outrages au Nom de Jésus » ( Ac 5, 41 ). Si la fécondité pascale est le fruit mur du chemin de Jésus au milieu de nous, elle représente aussi une rupture radicale dans sa façon d’être présent. Ceci est suggéré par une sorte de transformation numérique qui, pour les Anciens, est la meilleure manière d’indiquer une radicale et irréversible mutation du réel. Les disciples ne sont ni les Douze, ni les Onze des autres récits de la résurrection – ceci est en fait la «  troisième fois » – ils sont désormais sept, chiffre qui indique la plénitude et la perfection comme  le septénaire de la création. Mais, surtout, l’on ne se souvient pas d’eux par l’évocation d’un chiffre, mais par la précise répétition de chacun des trois premiers, par l’évocation du lien des deux autres et un nombre qui, enfin, laisse la porte ouverte à tout nom possible : «  Simon Pierre, Thomas dit Didime, Nathanaël de Cana de Galilée, les fils de Zébédée et deux autres disciples » ( 21, 2 ).  A cette nouvelle façon de se présenter apparaît : « Je vais pêcher », suivi de «  nous venons aussi avec toi ».( 21, 3 ) .Il y a une dernière parole du Ressuscité : «  Suis-moi » ( 21, 19 ). Voici maintenant venu le temps de la solitude, du chemin de la foi vécue, certain et nécessairement en communion profonde avec les autres disciples, mais ouvert à l’irréductibilité de l’expérience personnelle unique et irremplaçable : «  …et il te mènera où tu ne voudrais pas » ( Jn 21, 18 ).

Il tuo nome è Comunione, alleluia!

Ss. Filippo e Giacomo –

Le preghiere che la Liturgia dell’Eucaristia di questo giorno fa pronunciare al presidente, a nome di tutto il popolo, tracciano un itinerario di fede con tutte le sue esigenze e i suoi necessari passaggi. La Colletta unisce all’esultazione, a motivo della possibilità che ci viene data di festeggiare due apostoli, la necessaria supplica: <concedi al tuo popolo di comunicare al mistero della morte e risurrezione del tuo unico Figlio, per contemplare in eterno la gloria del tuo volto>. In forma di preghiera si riprende – potremmo dire in forma riveduta e corretta – la supplica di Filippo rettificata dalla risposta del Signore Gesù: <Signore, mostraci il Padre e ci basta>. La reazione del Maestro sembra ancora scuotere il cuore dei credenti di oggi come quello dei discepoli un tempo: <Chi ha visto me, ha visto il Padre> (Gv 14, 8-9). In altre parole, il Signore ci chiede di rinunciare alla visione per accontentarci – per così dire – di vedere solo attraverso l’amore, tanto da desiderare ed essere capaci di avere occhi per l’amore: <Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?> (14, 10).

Questa parola così nitida del Signore Gesù è il riassunto di tutto ciò che è sotteso a ciò che viene altrettanto solennemente evocato dall’apostolo Paolo: <Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato> (1Cor 15, 1-2). Il Vangelo che salva è la capacità di assumere fino in fondo la sfida dell’incarnazione che, se si basa sullo svuotamento del Verbo e sui suoi abbassamenti, comporta anche la nostra rinuncia a tutto ciò che non passa attraverso il limite e la fragilità della nostra realtà personale e relazionale. Per questo la preghiera si fa ancora più forte al momento dell’Offertorio: <concedi anche a noi di servirti con una religione pura e senza macchia>. Ad un orecchio allenato alle Scritture il riferimento a Giacomo è evidente, ma vale la pena esplicitarlo con le stesse parole con cui l’apostolo Giacomo caratterizza la <religione pura e senza macchia> con queste precise parole: <soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni> (Gc 1, 27).

La risposta data da Gesù a Filippo porta le sue estreme conseguenze nelle parole di Giacomo: se bisogna accettare di vedere il volto del Padre in quello di Gesù, bisogna andare ancora più lontano fino ad accontentarsi di vedere il volto di Gesù in quello dei fratelli e delle sorelle in cui lo splendore della luce divina rischia di essere offuscato dalla fragilità e dalla precarietà. Allora la preghiera dopo la comunione assume tutta la sua profondità rivolgendosi, con audacia, direttamente al Padre: <ci purifichi e ci rinnovi perché, in unione con gli apostoli Filippo e Giacomo, possiamo contemplare te nel Cristo tuo Figlio e possedere il regno dei cieli>. Amen!