Follia

XVIII Domenica T.O.

Perché mai dividere la propria eredità se non per timore di condividerla? Lungi da esagerazioni eroiche, il Signore Gesù non si scaglia contro la ricchezza come segno di un modo di abitare con responsabilità e passione la terra che ci è stata affidata per essere custodita, coltivata ed incrementata, ma contro la follia di quella privatizzazione morbosa di cui è diventata icona il personaggio tolkieniano di Gollum. La ricchezza di per sé non è un crimine: ad essere un crimine è l’incoscienza e questa può essere sia dei ricchi che dei poveri e forse – ancor più subdolamente- di quanti, in realtà o solo per mancanza di giudizio, non sono né troppo ricchi né troppo poveri. Nella sua parabola il Signore Gesù non dice che quest’uomo che tesaurizza i suoi beni sia un uomo cattivo, lo definisce semplicemente <Stolto> (Lc 12, 20). Tesaurizzare non è male, male può diventare l’incoscienza del perché, o ancora più precisamente “per chi”, si continua a mettere da parte la vita, con il rischio di non riuscire a viverla nel senso più pieno.

Il soliloquio del personaggio della parabola suona così: <demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni> (Lc 12, 18). Il soliloquio di Qoelet sembra voler glossare il proposito del ricco proprietario con un tonante: <Anche questo è vanità> (Qo 2, 23). Da parte sua l’apostolo ci mette in guardia dal rischio di appiattirci qui sulla terra, mentre siamo chiamati a condividere il dono e la responsabilità di abitarla in modo consapevole e solidale: <cercate le cose di lassù> (Col 3, 2). Il Signore Gesù non ridicolizza la giusta richiesta di questo tale, che è quella di poter fare ogni cosa con giustizia, ma cerca di mettere in evidenza come, ogni giustizia, sia parziale. Invece di farsi arbitro come Mosè che in Egitto uccise l’egiziano per difendere l’ebreo, il Signore ci offre un criterio che ci permette di andare oltre la giustizia che pure rimane necessaria: <Così è di chi accumula tesori per sé e non arricchisce presso Dio> (Lc 12, 21). Sembra proprio che la cosa più importante sia quella di dilatare il proprio riferimento relazionale divenendo capaci di uno sguardo all’altezza di quello dell’Altissimo che, per molti aspetti, si esprime nell’adagio del Qoelet: <Vanità delle vanità, tutto è vanità> (Qo 1, 2).

Un modo per sottrarci alla logica soffocatrice dell’autoreferenzialità è quello di affidarci ai poveri che sono portieri e portatori del Regno che viene proprio perché essi ci rammentano la precarietà insita alla vita. L’evidenza scontata con cui il Qoelet afferma che ognuno di noi dovrà comunque <lasciare la sua parte ad un altro> (Qo 2, 21), rende ancora più ammirabile il modo con cui il Signore si sottrae alla richiesta di fare da arbitro nella divisione di eredità tra questi due fratelli. In questo mondo non si vuole abdicare al dovere del ristabilimento della giustizia, ma il Signore si preoccupa di aprire i nostri occhi sull’essenziale della vita. Questo perché troppo facilmente rischiamo di perdere di vista l’orizzonte entro cui la vita è chiamata a giocarsi: mentre si costruiscono magazzini sempre <più grandi>, la vita, che trova il suo senso più vero nella relazione e nella condivisione, rischia di rimpicciolirsi a vista d’occhio!

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