Nessuno disprezzi

XXIV settimana T.O. –

L’invito che l’apostolo Paolo fa a Timoteo può diventare un atteggiamento di fondo nella vita di ogni discepolo: <Nessuno disprezzi> (1Tm 4, 12). Nel caso di Paolo si tratta di una preoccupazione verso il suo discepolo perché non venga disprezzata la sua <giovane età> e venga quindi riconosciuto e rispettato per quello che è e stimato per il suo <progresso> (1Tm 4, 15). Questa parola di Paolo assume un peso assoluto e incontrovertibile nello stupendo racconto del vangelo. Laddove Simone vede e disprezza la <peccatrice> (Lc 7, 39), il Signore Gesù riconosce e accoglie la <donna> (7, 44). Le parole conclusive dell’incontro sono per noi come un monito a non disprezzare nessuno e a progredire sempre di più e sempre meglio nella capacità di cogliere, apprezzare e mettere in rilievo i gesti dell’amore che diventano la porta per superare ogni peccato che porta sempre in sé una parte, più o meno grande, di disperazione.

Simone si scandalizza del fatto che il Signore si faccia toccare da una peccatrice, e non intuisce che è proprio questo il dono più grande che riceviamo attraverso il Signore: l’Altissimo si fa toccare, nel senso più pieno di questo termine, dalla nostra umanità. Qualunque forma di disprezzo non può che creare un muro di incomunicabilità tale per cui nessun incontro sarebbe possibile. Se poi parliamo di incontro con Dio, allora risulta più che chiaro che, in tal caso, nessuna salvezza sarebbe possibile. Ogni volta che tocchiamo qualcuno e ci lasciamo toccare, nel senso di intercettare e lasciarci intercettare al fine di fare un pezzo di strada insieme, in realtà manifestiamo la speranza che qualcosa, o meglio qualcuno, possa rendere la nostra vita non solo più vivibile, ma anche più bella e vera. Simone il fariseo, che pure invita il Signore nella sua casa sembra non attendersi nulla da questo passaggio se non la conferma del suo vissuto senza nessuna novità e nessun incremento.

Simone è talmente corretto che si permette di correggere Dio! Lo stato spirituale di Simone è legato alla legge la quale si organizza attorno a dei “noi” che il Signore Gesù sembra ripetere al contrario: <tu non mi hai dato l’acqua…Tu non mi hai dato un bacio…Tu non mi hai unto con olio>! Questo non per giudicarlo o per sottovalutare il suo gesto, ma per aiutarlo a riconciliarsi con il suo limite e a fare pace con il limite dell’altro senza più paura di se stesso. L’esortazione dell’apostolo a Timoteo potrebbe andare benissimo come esortazione da offrire al <fariseo che l’aveva invitato> (Lc 7, 39) e suona così: <Vigila su te stesso> (1Tm 4, 16). Simone, infatti perde il controllo delle sue emozioni e comincia a pensare tra sé cose che, in realtà, sono contrarie al gesto così solenne e signorile di invitare Gesù nella sua casa. Lo invita <a tavola> (Lc 7, 36) ma non accetta che sia proprio il Signore il centro della tavola e della casa: la salvezza, infatti, è la presenza fisica di Gesù, senza che Gesù vi aggiunga qualcosa di particolare. La casa di Simone, a motivo della presenza del Signore, diventa una casa aperta a tutti ed una tavola imbandita per tutti. Questo intuisce quella donna di cui va rimuginando in cuor suo Simone il fariseo e che, dal suo punto di vista, è semplicemente <una peccatrice> (7, 39). Invece quella donna davanti al Signore Gesù si sente semplicemente <una donna> ed è accolta dal Signore esattamente e solamente come tale e come tale nessuno la disprezzi.

In carne umana

XXIV settimana T.O. –

Le parole che l’apostolo Paolo rivolge al suo discepolo e collaboratore Timoteo possono essere considerati il vangelo del Vangelo: <Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto nello Spirito> (1Tm 3, 16). In una lettera che fece molto scalpore indirizzata da papa Francesco al giornalista Eugenio Scalfari, il Vescovo di Roma sottolineava da una parte l’origine della propria scelta di fede in una personale esperienza religiosa molto intima e forte e, al contempo, indicava, ancora una volta, il mistero dell’incarnazione non solo come il cardine della salvezza, ma pure come la sfida continua per ogni cristiano. Questa sfida riguarda certo la propria personale esperienza di fede come scelta e sequela, ma si riflette e si invera in tutta una serie di scelte concrete che hanno sempre a cuore di riconoscere e di servire Cristo nella carne dei propri fratelli e sorelle, in particolare dei più poveri e dei più piccoli i quali continuamente mettono alla prova la nostra capacità o meno di incarnare la nostra fede in Dio in una carità concreta e fattiva.

Così scriveva il Vescovo di Roma: <La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva caro cardo salutis, “la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza”. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce>1.

A partire dalle parole dell’apostolo Paolo e da quelle di Papa Francesco, possiamo ben dire che è a questa difficile comprensione del nucleo fondamentale del Vangelo che il Signore si riferisce con il suo lamento che prende la forma della parabola: <Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!> (Lc 7, 32). Non si tratta di contrapporre <Giovanni il Battista> (7, 33) al <Figlio dell’uomo, che mangia e beve> (7, 34). Piuttosto la sfida quotidiana per ciascun credente è quella di cogliere quali sono le esigenze concrete di una continua incarnazione della salvezza nella propria vita e a favore di tutti. Per questo il Signore Gesù si augura: <Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli> (7, 35). Questo riconoscimento non è semplicemente un assenso della mente, ma è l’accoglienza del mistero dell’incarnazione che si fa ministero di salvezza e di speranza condivise nella realtà della propria carne in cui ci è dato e ci è richiesto di incontrare i nostri fratelli e sorelle in umanità nella realtà della loro vita soprattutto quando si manifesta nella sofferenza e nella vulnerabilità.


1. PAPA FRANCESCO, Lettera a Eugenio Scalfari, 4 Settembre 2013 pubblicata su La Repubblica l’11 Settembre 2013.

Figlio mio!

XXIV settimana T.O. –

L’inizio della prima lettura nella redazione liturgica ci immette direttamente nell’atmosfera propria della Liturgia della Parola di oggi. Quando leggiamo qualche brano delle lettere di san Paolo durante la Liturgia siamo abituati a sentire come inizio: <Fratelli…>! Oggi invece l’inizio della prima lettura suona così: <Figlio mio…>! Si potrebbe dire che la discepolanza crea un atteggiamento sempre più umanizzato che, gradualmente, nella vita fa recuperare, nel grado più alto, tutti gli aspetti dell’esistenza e i registri più profondi e autentici dei sentimenti migliori del nostro cuore di uomini e donne segnati dall’energia rinnovatrice del Vangelo. L’apostolo Paolo, parlando con accenti di tenerezza e con fare profondamente paterno, dà una serie di consigli al suo discepolo Timoteo chiamato a prendersi, a sua volta, cura della comunità cristiana non omettendo di metterlo in guardia da ogni deriva che allontani dallo spirito evangelico che prima di segnare il ministero deve essere capace di trasformare la vita personale: <perché, se uno non sa guidare bene la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?> (1Tm 3, 5).

Nel testo evangelico, l’evangelista Luca, sembra parlarci di quella che il Signore Gesù sembra considerare la <propria famiglia>. Infatti, ci troviamo di fronte ad uno dei versetti più commoventi che ci fanno sentire il palpito del Signore Gesù davanti al mistero della morte e, ancora di più, dello strazio che il dolore della perdita di un figlio può rappresentare per il cuore di una madre: <Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei> (Lc 7, 13). Dopo aver cercato di consolare il cuore di questa donna cui sembra non restare niente altro al mondo che l’esperienza del dolore lancinante dovuto ad una serie di perdite poiché era già <rimasta vedova> (7, 12), lo sguardo e il cuore di Cristo si volgono al figlio cui si rivolge con il modo proprio del padre: <Ragazzo, dico a te, àlzati> (Lc 7, 14).

Potremmo leggere questa parola del Signore non solo come il segno della potenza del taumaturgo capaci di richiamare perfino dalla morte, ma, in modo più ampio, come la capacità del Signore di rimettere in piedi la volontà di vivere. Come un vero padre, il Signore Gesù, sembra prendere il posto dell’uomo mancante in questa famiglia. Se alla vedova dice con immenso e delicatissimo amore: <Non piangere!> (7, 13). All’orfano sembra rivolgersi con il tono performante che è proprio di ogni padre: <alzati>! Il seguito del racconto è come se ci mettesse di fronte al ritorno della comunicazione in una famiglia che sembra ormai ammutolita da troppo dolore: <Il morto si mise seduto e cominciò a parlare> (7, 15). Nessun segno di soggezione né di dovuta gratitudine servile, ma il ritorno alla bellezza e all’ordinarietà delle comunicazioni proprie della vita di una famiglia normale, di cui il Signore Gesù sembra essere il punto di riferimento. La folla reagisce con un’acclamazione che si fa esclamazione: <Un grande profeta è sorto tra noi> (7, 16). La presenza del Signore Gesù è capace di restituirci gli uni agli altri permettendo a ciascuno di dare il meglio di sé nella <cura> (1Tm 3, 5). Il <nobile lavoro> (3, 1) che ciascuno di noi è chiamato a desiderare è quello du essere capace di dare più vita e più gioia. Il primo passo e il primo segno è di avere un cuore veramente capace di <grande compassione> che ci renda rispettabili persino agli occhi dei pagani dei nostri giorni.

Quadrato

B.V. Maria addolorata –

Curiosamente il Vangelo della Passione secondo Giovanni fa quadrato ai piedi della croce del Signore. Appena prima del testo che leggiamo in questa memoria che prolunga la festa di ieri si parla della tunica inconsutile del Signore che viene divisa tra <quattro> soldati. A questi quattro soldati senza nome e senza volto, l’evangelista sembra avere bisogno di contrappore altre quattro figure di donne con un volto preciso tanto a che – solo a loro – viene loro dato da un nome. Queste donne sembrano fare quadrato – nel senso militare del termine – perché la croce non venga come profanata dalla violenza della nostra umanità bruta abituata a prendere, ma sia compresa come luogo di nuova genesi e di fecondità nuova. Il quadrato delle donne mette in luce il mistero di quel discepolo amato che non è il rimasuglio buono dei Dodici, ma la promessa di ciò che ciascuno è sempre in grado di diventare. Le donne sotto la croce sembrano assicurare, come nel momento del parto, uno spazio adeguato per un parto ancora più doloroso di quello della nascita eppure così importante per la nostra speranza e quella di tutta l’umanità.

Tra queste donne spicca la figura della Madre di Gesù, che nel vangelo di Giovanni compare per la prima volta proprio a Cana dove sembra mettere al mondo il Figlio Gesù permettendogli e quasi costringendolo a manifestarsi. Sotto la croce Maria diventa simbolo della Chiesa e di ogni credente chiamato a restare fino all’ultimo sotto la croce per accogliere gli inizi della nuova creazione che sgorgano dal cuore trafitto dell’Agnello immolato. Colei che lo accompagna nella sua prima tappa di rivelazione non può che accompagnarlo anche nella sua ultima tappa di piena rivelazione dell’amore. La presenza di Maria – e non solo di lei, ma quella di altre donne unitamente al discepolo speciale perché amico – è come il vessillo che si leva attorno a quella croce di cui ieri abbiamo celebrato l’esaltazione e quasi il trionfo. Laddove la Chiesa costantiniana edificava basiliche che segnavano il trionfo della cristianità con tutte le sue luci corredate da inevitabili ombre, una sottile pietà legata ai più poveri e, ancora una volta, alle donne cerca di rammemorare “quegli altri” e soprattutto “quelle altre” che furono capaci di sopportare il più crudo fallimento di Gesù senza che l’amore si incrinasse minimamente anzi lo dilatò enormemente: <da quell’ora il discepolo la prese con sé> (Gv 19, 27).

La madre che sta sotto e presso la croce ci mostra l’amore invincibile che si fa indicibile. Maria ci ricorda che l’amore non intristisce neppure nel dolore più acuto e urlante, ma fiorisce ancora più vigoroso. Maria accompagna il suo Figlio fino all’estremo dono della sua vita sapendo portare con lui il peso del fallimento e del ridicolo fino a mescolare le sue lacrime materne al suo sangue effuso. La memoria di oggi non ci fa più stare come la festa di ieri di fronte alla croce, ma ben più umilmente proprio e solo ai piedi di essa. Maria è quella piccola fiamma che tutto il tormentoso buio del Golgota non può spegnere ed è capace di trapassare la notte più spessa come una spada di luce non abbagliante ma lacerante. Il luogo del supplizio diventa per la presenza di Maria e di quanti si stringono accanto a lei, un santuario, l’unico e vero tempio di cui aveva parlato Simeone, di cui aveva parlato il Signore Gesù. Come dice Charles Peguy: <impossibile che il soffio della morte la spenga>. Il parto di Maria si compie sotto la croce e non c’è nessun travaglio di umanità che sia ormai estraneo alla vita alla passione di Dio.

Leva

Esaltazione della santa Croce

Celebrare il mistero della Croce fuori dal contesto proprio della celebrazione pasquale è un modo per dire ancora – una volta e ancora di più – come e quanto la realtà della croce segna il cammino delle nostre vite in modo quotidiano. Nella rilettura che Paolo dà del mistero integrale di Cristo Signore sembra che l’apostolo abbia trovato – non senza fatica – la chiave per interpretare e per testimoniare: <ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo> (Fil 2, 7). In questo verbo <assumere> si possono trovare le ragioni della rivelazione di Dio in Cristo Gesù, ma pure le ragioni del nostro quotidiano assumere il dono della vita con tutto il peso che vivere comporta. Questo verbo assumere sembra inglobare una sorta di sospensione di giudizio che cambia radicalmente il modo di affrontare la gioia e la fatica di vivere. Assumere sembra più un dato di fatto che una scelta. Scegliere la croce sarebbe persino un po’ ambiguo, mentre assumere la croce è un atto di grande dignità umana liberato da ogni ansia di prestazione. 

Accanto al verbo <assumere>, la Liturgia ci rammenta il verbo <elevare>. È lo stesso Signore Gesù a spiegare a Nicodemo ciò che sta al cuore e alla radice della sua persona: <E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna> (Gv 3, 14-15). Si potrebbe dire che il mistero della croce è come la leva di Euclide che permette con uno sforzo minore di sollevare grandi pesi senza rischiare di rompersi la schiena dell’anima. Spesso pensiamo alla croce come l’emblema della sofferenza, più o meno, accettata o, più o meno, subita. La festa di oggi ci aiuta a leggere nella croce il suo lato glorioso che non elimina nulla né della fatica né della ribellione, davanti alla sofferenza, ma che pure ci rimanda a noi stessi per essere in grado di assumere un atteggiamento che ci permette di elevarci senza sottrarci. La leva non è la rassegnazione, bensì la coltivazione quotidiana di un di più di amore come capacità di uscire da sé per donarsi fino in fondo senza mai lasciarsi annientare nella propria libertà di dono: <Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui> (Gv 3, 17).

La nota con cui si apre la Liturgia della Parola che accompagna questa festa parla anche di noi: <il popolo non sopportò il viaggio> (Nm 21, 4). Noi tutti siamo parte di un popolo in cammino verso la libertà con tutte le gioie e le fatiche proprie di questo viaggio imprescindibile. Il seguito del racconto sembra ricordarci che ogni volta che non sopportiamo il viaggio della vita, con le sue sfide e le sue esigenze, si rende necessario far fronte alle nostre ribellioni interiori come fossero: <serpenti brucianti> (21, 6) quasi per recuperare la capacità di guardare un po’ più in alto, un po’ oltre. La croce diventa così un punto di orientamento che ci permette e ci obbliga a non implodere. La croce rappresenta la leva con cui, nella nostra debolezza, diventiamo capaci di sollevare il mondo senza lasciare che il peso ci schiacci.

Levier

Exaltation de la Sainte Croix –

Célébrer le mystère de la Croix en dehors du propre contexte de la célébration pascale est une façon de dire encore  – une fois de plus – comment et quand la réalité de la croix marque  le chemin de nos vies de manière quotidienne. Dans la relecture que Paul donne du mystère intégral du Christ Seigneur, il semble que l’apôtre ait trouvé – non sans difficulté  – la clé pour interpréter et témoigner : « Il s’est fait serviteur lui-même assumant la condition de serviteur » ( Ph 2, 7 ). Dans ce verbe «  assumer » l’on peut trouver les raisons de la révélation de Dieu en Christ Jésus, mais aussi les raisons de notre quotidien pour assumer le don de la vie avec tout le poids que cela comporte. Ce verbe assumer, semble englober une espèce de suspension de jugement qui change radicalement la façon d’affronter la joie et la difficulté de vivre. Assumer semble d’avantage au fait d’une réalité qu’à un choix. Choisir la croix serait même un peu ambigu, alors qu’assumer la croix est un acte d’une grande dignité humaine libérée de tout anxiété de performance.

A côté du verbe «  assumer », la Liturgie nous rappelle le verbe «  élever ». C’est le Seigneur Jésus lui-même qui explique à Nicodème ce qu’il y a au coeur et à la racine de sa personne : «  Comme Moïse éleva le serpent dans le désert, il faut ainsi que soit élever le Fils de l’Homme, afin que quiconque croit en lui ait la vie éternelle » ( Jn 3, 14-15 ). L’on pourrait dire que le mystère de la croix est comme le levier d’Euclide qui permet avec un minimum d’effort de soulever de grands poids sans risquer de plier en quatre son âme. Nous pensons souvent à la croix comme à l’emblème de la souffrance, plus ou moins acceptée ou plus ou moins subie. La fête de ce jour nous aide à lire dans la croix son côté glorieux qui n’élimine rien de la difficulté ni de la rébellion face à la souffrance, mais qui nous renvoie aussi à nous-mêmes pour être capable d’assumer un attachement qui nous permet de nous élever sans nous esquiver. Le levier n’est pas la résignation, mais plutôt la croissance quotidienne d’un peu plus d’amour comme capacité de sortir de soi pour se donner entièrement sans jamais se laisser anéantir par sa propre liberté de don : «  Dieu, en effet, n’a pas envoyé son Fils dans le monde pour condamner le monde, mais pour que le monde soit sauvé par Lui » ( Jn 3, 17 ).

Le commentaire qui ouvre la Liturgie de la Parole qui accompagne cette fête parle aussi de nous : «  Son peuple ne supporta pas le voyage » ( Nb 21, 4 ). Nous faisons tous partie d’un peuple en chemin vers la liberté avec toutes les joies et les difficultés propres à ce voyage essentiel. La suite de la narration semble nous rappeler que chaque fois que nous ne supportons pas le voyage de la vie, avec ses défis et ses exigences, il est nécessaire de faire face à nos rébellions intérieures comme s’ils étaient «  des serpents brûlants » ( 21, 6 ) , comme pour récupérer la capacité de regarder un peu plus haut, un peu plus loin. La croix devient ainsi un point d’orientation qui nous permet et nous oblige à ne pas imploser. La croix représente le levier par lequel, dans notre faiblesse, nous devenions capables de soulever le monde sans laisser le poids nous écraser.

Perché?

XXIII settimana T.O. –

La domanda che il Signore Gesù lancia come sfida è una questione dolorosamente e perennemente aperta per tutta la vita: <Perché mi invocate: “Signore, Signore!” e non fate quello che dico?> (Lc 6, 46). Lungi da noi cercare di dare una risposta a questa domanda, ammassando semplicemente meriti e trasformando la nostra vita di discepoli in un’opera di beneficenza. Persino tanta beneficenza può nascondere un vuoto da riempire piuttosto che essere l’espressione autentica di un sentire profondo che diventa l’identità della nostra vita. Essere discepoli significa prima di tutto sprofondarsi letteralmente nell’ascolto e lasciare che le radici della propria vita raggiugano la sorgente che scaturisce dalla roccia e che non dipende dal tempo e dalle stagioni, ma rimane perennemente viva. Allora saremo <albero buono> (Lc 6, 43) e porteremo nel nostro cuore un vero <buon tesoro> (6, 45). Come ci ricorda l’apostolo ciò che fa la differenza è il riferimento della nostra vita: <Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori> (1Tm 1, 15) e lo fa con <misericordia> e <magnanimità> (1, 16).

Questo atteggiamento divino nei confronti di ciascuno di noi ci permette una coerenza altrimenti impossibile tanto che l’albero produce i suoi frutti, la casa dalle salde fondamenta resiste a tutte le intemperie e il Maestro genera dei discepoli che sono l’incarnazione della sua parola profonda e autorevole. Alla luce di questa parola che scuote le fondamenta della nostra vita perché ci interroga possiamo dire che tra il dire e il fare non c’è di mezzo il mare, ma il cuore. Il Signore Gesù apre per ciascuno un cammino di chiarezza interiore impossibile senza un serio impegno di chiarificazione: se siamo puri nel cuore lo saremo anche negli atti che il cuore ci ispirerà; se Dio non solo è di casa sulle nostre labbra, ma è l’ospite interiore più amato e accolto, allora le nostre parole saranno un riflesso della sua presenza.

Tra le prospettive possibili e le molteplici bellezze della parabola che la Liturgia ci offre possiamo sottolineare che una casa non è solo un luogo per se stessi, ma normalmente è un luogo condiviso anche quando non fosse ambito di quotidiana convivenza. Allora è molto bello fare memoria del passo che abbiamo ascoltato ieri circa la spinosa questione della pagliuzza e della trave. Un piccolo raccontino può aiutare a cogliere un nesso non immediato tra queste due parabole. <Due uomini dopo aver ascoltato la parabola della trave e della pagliuzza ne furono molto toccati. Allora uno di loro scardinò dal suo occhio la trave e, subito dopo, aiutò con la più grande delicatezza di questo mondo il suo amico a togliere dal suo una piccola pagliuzza. Finalmente ambedue ci videro bene e chiaramente e si chiesero cosa farne della pagliuzza e della trave. Decisero di costruire insieme una casa: la trave servì da struttura e la pagliuzza da copertura del tetto. Le pietre della muta comprensione furono cementate con la carità e le occasioni mancante nel reciproco amore furono trasformate da buchi in finestre da cui il sole della misericordia e del perdono poteva inondare e rallegrare l’interno della casa. Quando l’uragano si abbatté su quella casa essa non cadde perché era costruita bene>.

Ignoranza

XXIII settimana T.O. –

La confessione di Paolo apre il cuore alla speranza di poter uscire dal circolo vizioso dell’ipocrisia che, normalmente, non è altro che un modo di affrontare l’esigente sfida di riconoscere e di accogliere la propria debolezza e vulnerabilità: <Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù> (1Tm 1, 13-14). L’esperienza di Paolo è un reale cammino di purificazione interiore, un cammino che ha dovuto passare  attraverso una vera destrutturazione della propria immagine. Questa destrutturazione sarebbe stata impossibile senza una pericolosa caduta dal cavallo della propria superbia spirituale. Tutti ricordiamo il particolare narrato dagli Atti degli Apostoli secondo cui, la visione della luce divina, unita all’ascolto di una voce – quella di Gesù che si identifica con i suoi fratelli perseguitati – coincide con una cecità che dura per ben tre giorni. Solo nel momento in cui Paolo sperimenta e riconosce la sua cecità, potrà diventare veramente una guida per i suoi fratelli, non senza prima aver accettato di lasciarsi fraternamente guidare e illuminare da Anania.

Solo chi si conosce può avanzare nel cammino della vita e far avanzare gli altri offrendosi non tanto come guida, ma come compagno di cordata, attento prima di tutto al proprio passo e vigilando sul sereno cammino dei propri fratelli. Il segreto di una cordata che scala una montagna sta proprio nel fatto di avere una fiducia reciproca assoluta che si basa su un patto di solidarietà in base al quale, la propria prudenza e la propria perizia, sono il primo passo per la sicurezza e l’incolumità dell’altro. Perché una vetta sia raggiunta, insieme e felicemente, è necessario legarsi profondamente attorno al desiderio di raggiungere la stessa meta e nella capacità non solo di unire le proprie forze, ma anche di tenere presente le proprie debolezze cercando, in tutti i modi, di non farle diventare dei punti scoperti di vulnerabilità. Al contrario, un eccessivo amor proprio travia il modo di vedere e di valutare la realtà, tanto da mettere in pericolo la propria vita e quella degli altri.

La domanda posta dal Signore Gesù ai suoi discepoli non va accolta come un atto di sfiducia nelle nostre possibilità, ma come un avvertimento capace di metterci al riparo da errori di valutazione che possono porre,  noi stessi e gli altri, in situazione difficili non solo da gestire, ma da cui talora diventa impossibile uscire: <Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?> (Lc 6, 39). La parola del Signore non si ferma qui: <Un discepolo non è più del maestro, ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro> (6, 40). La differenza sta proprio nel grado di consapevolezza del lungo cammino che è stato necessario per ciascuno di noi, un cammino che non è mai finito! e che ci rende capaci non solo di comprendere, ma pure di solidarizzare con quello che è necessario agli altri. Il vero problema non è se si tratti di una <trave> o di <una pagliuzza> (6, 42), ma che si abbia uno sguardo giusto su se stessi che ci permetta di avere uno sguardo attento e delicato verso gli altri. Chi conosce personalmente la fatica della purificazione interiore non può che comprendere quanto, questo processo, possa essere duro anche per il proprio fratello tanto da testimoniare non la propria superiorità, bensì la gioia di essere stato accolto: <Rendo grazie a colui che mi ha reso forte> (1Tm 1, 12). 

Il modo perfetto

XXIII settimana T.O. –

Possiamo prendere in prestito le parole dell’apostolo Paolo per riprendere quelle così esigenti che il Signore Gesù ci rivolge, ancora una volta, nel suo Vangelo. Paolo continuando la sua esortazione ardente ai cristiani di Colossi arriva a dire con tutta semplicità ed efficacia: <Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto> (Col 3, 14). Se rileggiamo il testo della prima lettura e lo mettiamo in relazione alle parole infuocate del Vangelo possiamo veramente dire che ci viene posta innanzi la sfida, difficile e appassionante, di camminare ogni giorni per conformare la nostra vita a quello che potremmo definire “il modo perfetto”. Se ci lasciamo guidare dal modo di procedere sia di Paolo che del Signore Gesù, non ci resta che riconoscere come di <perfetto>, nella nostra vita come pure in quella degli altri, c’è ben poco. Non ci sono dubbi se l’unica via resta quella indicata con queste parole: <sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro> (3, 13).

Il Signore Gesù è ancora più “spietato” con i suoi discepoli, tra cui desideriamo essere annoverati e, si potrebbe persino dire, lo fa a più livelli. Prima di tutto la parola del Signore è esemplare: <E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro> (Lc 6, 31). In questo modo il Maestro stronca, alla radice, la tendenza così naturale cui fa riferimento l’apostolo: <se qualcuno avesse di che lamentarsi, nei riguardi di un altro> (Col 3, 13). All’istinto di immaginare fino a recriminare a partire da quello che l’altro avrebbe o non avrebbe dovuto fare nei nostri confronti bisogna opporre la scelta di esaminarci, attentamente e quasi severamente, su <come> avremmo desiderato si comportasse il fratello con cui siamo in conflitto o ci ha feriti. A pensarci bene il primo, forse il più importante, elemento di un simile modo di reagire è il fatto di doversi rendere conto che non sempre è facile trovare il <come> che sia soddisfacente per tutti e sicuro per ognuno. Prendere coscienza della fatica della carità che è prima di tutto la nostra fatica nella carità smorza le amarezze a attutisce le aspettative fino a dissolvere molte delle illusioni che ci facciamo su ciò che gli altri ci possono o ci devono dare. Così <il modo perfetto> di Paolo si invera nella prescrizione evangelica che sembra, fondamentalmente, avere a cuore di mettere in ordine la sequenza e la gerarchia: <Date e vi sarà dato…> (Lc 6, 38) … il resto verrà.

Davanti ad esigenze non certo facili l’apostolo Paolo da anche un consiglio che può sorprendere: <istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori> (Col 1, 16). Un ricordo mi sembra poter aiutare a comprendere questa parola. Tempi fa ero in Africa e rientravo in città dal monastero per riprendere il mio aereo. Le difficoltà della strada, tra buche e polverone, mi erano già note. Ma ogni tanto si incontravano auto, o bus o camion in panne con tutto ciò che questo comporta. Una pena per loro e un po’ di vergogna per me che viaggiavo in modo non comodo, ma mille volte più comodo. A un certo punto tre giovani ci fanno segno di fermarci e ci chiedono di salire sul retro dell’auto per andare a soccorrere qualcuno la cui auto si era rotta durante il viaggio. Le prospettive di questi giovani non erano certe rosee e penso ci fossero tutti i motivi per essere arrabbiati o almeno scoraggiati. Senonché dal retro si è levato l’inizio di un canto che ben presto si è trasformato in un vero concerto. Quei ragazzi per prima cosa si sono messi a cantare, quasi per raccogliere le forze e comunque non perdere il contatto con l’interezza della vita. Arrivati al punto in cui si trovava l’auto… in realtà c’era veramente poco da cantare, almeno a partire dai miei parametri. Chissà, forse prima di lanciarsi nella difficile opera del perdonare e del sopportare, sarà meglio cominciare a cantare… il resto verrà e sarà: <una misura buona, pigiata, colma e traboccante> (Lc 6, 38).

Sguardo

XXIII settimana T.O. –

L’esortazione dell’apostolo Paolo si fa vibrante e assume un tono quasi di urgenza. Vi è un processo in atto nella nostra vita di discepoli che non solo non va arrestato, ma nemmeno bisogna in alcun modo ritardare. L’apostolo riassume questo cammino ineludibile e necessario alla vita di ogni credente con una sorta di rammemorazione: <vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato> (Col 3, 9-10). Davanti alla bellezza esigente di un simile compito, la domanda sorge spontanea dal nostro cuore: <Come riuscire a dedicare tutte le nostre migliori energie a questo compito ineludibile di trasformazione interiore così da recuperare nella nostra vita e per la nostra vita l’immagine divina impressa nel più profondo della nostra umanità e che, pure, talora sembra così lontana dal nostro modo concreto di sentire e di vivere la nostra umanità?>.

Possiamo cogliere la risposta a questa domanda fondamentale negli <occhi> del Signore Gesù che si levano <verso i suoi discepoli> (Lc 6, 20) accendendo nei loro cuori la voglia di rimettersi ogni mattina alla sua sequela: <Beati voi, poveri… Ma guai a voi ricchi>! La versione lucana del testo più famoso di Matteo, ha il pregio di farci sentire in modo ancora più forte l’urgenza di un cammino di conversione che comincia e ricomincia ogni mattina con una sorta di esposizione. Si tratta, infatti, di esporre continuamente la nostra maniera di vivere allo sguardo di Cristo per lasciarci trasformare fino a rinunciare a tutto ciò che in noi può fare da ostacolo alla sua grazia. L’apostolo riprende i cataloghi dei vizi e delle virtù in voga ai suoi tempi ed esorta vivamente: <Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria> (Col 3, 5).

Il Signore Gesù ci indica la via regale perché questo processo di intima ed efficace trasformazione possa realmente compiersi nel cuore di tutti i suoi discepoli, non esclusi e primi fra tutti, coloro che ha appena chiamato ed eletto come <apostoli>. Il cammino è quello delle beatitudini che per Luca comprende la memoria del fatto che se si resta fuori da questo cammino tutto può diventare più complicato poiché ci si ritroverebbe nella logica della menzogna con se stessi e con gli altri. Non si tratta certo di canonizzare la miseria, ma di ricordare al cuore di tutti che il modo autentico di porsi nella vita è quello del povero che non pretende, ma attende per cui <rivolgete il pensiero alle cose di lassù> (Col 3, 2) per comprendere meglio e usare al meglio <quelle della terra>. Potremo leggere le beatitudini nello sguardo di Gesù prima di tutto alla cui luce potremo dare una nuova luminosità al nostro stesso sguardo attraverso cui saremo capaci di rivelare il nostro cuore. Normalmente si levano gli occhi verso il cielo – in atteggiamento sacerdotale – invece il Signore alza gli occhi verso i suoi discepoli manifestando così di essersi messo al di sotto di loro fino a riconoscere nei più poveri e nei più piccoli il luogo autentico della benedizione e della rivelazione dell’<uomo nuovo> di cui egli è l’archetipo. Non siamo chiamati a diventare certo la copia di nessuno, nemmeno di Gesù di Nazaret, ma la sua parola e i suoi gesti ci aiutano a camminare senza deviare verso il comodo e la superficialità.