Il tuo nome è Meglio, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Mentre si presentano le offerte per l’Eucaristia, la Chiesa, attraverso le parole di chi presiede la divina liturgia, esprime il suo desiderio più profondo e prega così: <perché rinnovati nello spirito, possiamo rispondere sempre meglio all’opera della tua redenzione>. Il cammino della vita fa tutt’uno con quello della vita ed è un processo di continua crescita e trasformazione. Il Signore Gesù ce lo ricorda con parole tenere e forti al contempo: <Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia> (Gv 16, 20). In realtà noi facciamo esperienza non solo di una tristezza che può cambiarsi in gioia, ma pure di alcune gioie che si possono tingersi dei colori della tristezza… e questo fa parte del mistero e della sfida della vita. In ogni modo la cosa più importante, e che fa da fondamento al combattimento della speranza, è che possiamo coltivare la certezza di un sempre possibile cammino. Quest’apertura da rinnovare ogni mattina ci permette di non diventare prigionieri né della tristezza né della gioia, ma di essere continuamente protagonista attivi e appassionati della nostra vita a servizio del <meglio> della vita anche degli altri.

Il mistero della risurrezione, che in questi giorni pasquali celebriamo con rinnovata gioia, non è altro che un fare memoria di come, persino nella morte, si è nascosto – fino a trionfare – un principio attivo di vita. Il mistero pasquale, che ci mette di fronte al peggio in termini di rifiuto e di disumanità, ci rassicura del fatto che se il peggio non è mai morto, il meglio è sempre possibile. Questo dinamismo è nascosto come un pugno di lievito nella pasta della vita consueta e ordinaria e viene evocato dal Signore Gesù con quel misterioso rimando che mette in agitazione il cuore dei discepoli: <Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete> (16, 16). I discepoli sono destabilizzati da questo rimando ad un processo che ingloba una buona dose di incertezza: <Non comprendiamo quello che vuol dire> (16, 18). Il Maestro invece spiega, prima di tutto con la sua disponibilità alla Pasqua, quello che vuol dire con ciò che accetta di vivere, fino ad essere disponibile a morire.

Come Paolo anche noi siamo chiamati ad essere <fabbricanti di tende> (At 18, 3) senza presumere troppo di noi stessi e accogliendo di doverci interiormente spostare non solo da un posto all’altro, ma anche da una situazione all’altra. Persino il fatto di <dedicarsi tutto alla Parola> (At 18, 5) non ci garantisce di essere accolti da tutti, ma esige la disponibilità a rischiare sulla Parola, aprendoci a nuove strade e a soluzioni finora impensate con docilità e amore. Agostino lo ricorda a se stesso e ai discepoli di tutti i tempi: <Questo che è il frutto del suo travaglio, la Chiesa lo partorisce al presente nel desiderio, allora lo partorirà nella visione; ora gemendo, allora esultando; ora pregando, allora lodando Dio. Sarà perciò un fine eterno, perché non ci potrà bastare che un fine senza fine>1.


1. AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni, n° 101.

Il tuo nome è Respiro, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Ciò che il Signore ha promesso ai suoi discepoli è una sorta di viatico per il loro ministero a servizio della gioia di tutti e di ciascuno: <Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future> (Gv 16, 13). Non si tratta certo di una sorta di negromanzia addomesticata, bensì di una capacità di leggere continuamente il reale senza mai appiattirsi su se stessi e, soprattutto, sulle proprie paure e i propri timori. La testimonianza di Paolo <in piedi in mezzo all’Aeròpago> è non solo di grande intensità, ma soprattutto di rara capacità provocatoria non solo per gli <Ateniesi> di tutti i tempi, ma pure per discepoli che cerchiamo di diventare in verità. La prima cosa è una constatazione: <vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un Dio ignoto”> (At 17, 22). Non bisogna sottovalutare questa constatazione dell’apostolo Paolo né tantomeno ridurla ad una sorta di modalità adulatoria nei confronti degli Ateniesi.

È una verità e un’evidenza inconfutabile il fatto che gli antichi nel loro paganesimo erano molto religiosi, così religiosi da mettersi al riparo da ogni dimenticanza di eventuali divinità ignote che si sarebbero potuto rattristare anche inconsapevolmente. Siamo di fronte a ciò che avviene ancora ai nostri giorni quando la conversione alla fede cristiana non è un motivo sufficiente per trascurare le abitudini e le pratiche religiose già conosciute, quasi per un bisogno di evitare di scontentare alcuno e di poter contare sull’aiuto di tutti gli dèi possibili e immaginabili. Paolo non si mostra scandalizzato, ma cerca di partire dallo spirito religioso per cominciare un cammino di fede il cui primo passo è una negazione necessaria che apre ad un’affermazione capace di schiudere un nuovo cammino. Questo processo che parte dall’essere religiosi e porta ad una opzione di fede passa attraverso una ricomprensione di quell’immagine di Dio che non è semplicemente la proiezione idolatrica di noi stessi.

La negazione suona così: <non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa>. L’affermazione rigenerante e rivoluzionaria è la seguente: <è lui che dà a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa> (At 17, 24-25). Nelle parole del Signore Gesù troviamo quella che potremmo definire una descrizione fisiologica della vita di Dio. Il Signore ci ricorda: <Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso> (Gv 16, 12). Non sappiamo già tutto, ma il Signore si sta ancora rivelando e potremmo pregarlo di farlo a poco a poco per darci il tempo di abituarci alle esigenze della sua Parola. Lungi da noi il pensare che sappiamo già tutto di ciò che il Signore vuole dirci e vuole chiederci per essere veramente suoi testimoni animati dal suo respiro!

Il tuo nome è Tavola, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Gli Atti degli Apostoli continuano a raccontare ciò che avviene agli inizi della vita della Chiesa e lo fa attirando la nostra attenzione su tutta una serie di incontri e di incroci che permettono al Vangelo di penetrare i cuori e di cambiare così le situazioni fin dalle radici, fin dal profondo. L’immagine con cui si conclude la prima lettura di oggi è magnifica non solo per la sua commovente umanità, ma perché ci fa intuire di che cosa è capace il Vangelo di Cristo quando penetra, con la sua luce, la <notte> di ogni paura che mette in pericolo la vita: <Egli li prese con sé, a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato con tutti i suoi, poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio> (At 16, 33-34). Il contrasto tra la prima scena di questo testo e l’ultimo è stridente: <fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e, dopo averli caricati di colpi, li gettarono in carcere e ordinarono al carceriere di fare buona guardia> (16, 22-23). Eppure, il modo con cui Paolo e Sila affrontano questa situazione vivendola <in preghiera> mentre <cantavano inni a Dio> e <i prigionieri stavano ad ascoltarli> (16, 25) è un vero e proprio <terremoto così forte> (16, 26) da cambiare il modo di sentire e di vivere.

I due estremi emotivi, di cui ci testimonia il testo degli Atti, ci fanno intuire in cosa consista la novità del Vangelo e il motivo per cui molti ne temano il terremoto che il mistero pasquale del Signore Gesù rappresenta per la storia a partire dalle relazioni tra persone. Una <tavola> imbandita in piena notte diventa il simbolo di ciò che il Vangelo porta come dono a tutti coloro che accettano di fare un passo verso la novità di vita. Il grido di Paolo squarcia ogni notte e illumina ogni prigione: <Non farti del male, siamo tutti qui> (16, 28). In questa parola dell’apostolo è racchiuso un messaggio che ci riguarda personalmente e tocca la storia nel suo complesso: ogni volta che facciamo del male a qualcuno, in realtà facciamo sempre del male anche a noi stessi. Così pure tutte le volte che facciamo del bene a qualcuno regaliamo a noi stessi una possibilità in più di <gioia>. Le parole del Signore Gesù ci portano ancora più lontano… ancora più nel profondo. Da una parte ci mettono in guardia da ogni forma di <tristezza> (Gv 16, 6) e, dall’altra, ci fanno percepire la necessità di attraversare continuamente quelle pasque relazionali senza le quali ogni contatto di umanità rischia di appassire e di intristire in una stanca ripetizione: <Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado lo manderò a voi> (16, 7).

La prigione di Paolo e Sila assomiglia alle nostre vite imprigionate in situazioni e relazioni troppo difficili tanto che la notte non sembra finire mai. Nondimeno, attraverso la preghiera, possiamo ospitare ogni relazione nelle nostre prigioni e nelle nostre notti tanto da trasformale in una <tavola> attorno alla quale ritrovare la gioia non solo di stare insieme, ma di sperare e gioire gli uni per gli altri.

Il tuo nome è Verso, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

La lettura del libro degli Atti degli Apostoli funge, in questo tempo pasquale, da preparazione all’ascolto delle parole che il Signore Gesù sussurra al cuore dei suoi discepoli per prepararli a sostenere lo scandalo della sua Passione. Questo dialogo tra il Maestro e i suoi discepoli diventa occasione per fare spazio a un principio nuovo di presenza che è lo Spirito Santo. Il cammino degli apostoli è assolutamente dinamico e quasi temerario: <Salpati da Troade, facemmo vela direttamente verso Samotracia e, il giorno dopo, verso Neàpoli e di qui a Filippi…> (At 16, 11-12). Una cosa sembra acquisita e chiarissima per gli apostoli: l’incontro con il Risorto non può che dare alla propria vita personale un verso assolutamente nuovo, la cui caratteristica principale è quella di andare verso gli altri con fiducia e nella certezza di avere qualcosa da condividere prima ancora di avere qualcosa da annunciare e da donare. Il dinamismo della vita come discepoli di Cristo Signore è assolutamente versatile ed espansivo, nel senso di empatica apertura ai propri fratelli in una semplicità e generosità che cambiano la storia toccando la vita e lasciandosi toccare dalla vita degli altri.

Ogni sosta per gli apostoli diventa un punto di ripartenza ancora più generoso: <Il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume…> (16, 12). Sembra che non ci sia nulla che possa o che debba tenere imprigionato il messaggio di vita e di speranza che gli apostoli custodiscono con una passione contagiosa. In termini di stile, gli apostoli non attendono che la gente vada da loro e, da questo punto di vista fedeli all’esempio del Signore Gesù, non si atteggiano a maestri e a guru, ma si espongono continuamente alla gioia e ai rischi dell’incontro con l’altro. Le parole del Signore risuonano nel cuore come invito: <e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio> (Gv 15, 27). Le parole del Signore non lasciano spazio a nessuna illusione e a nessuna faciloneria: <Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio> (16, 2).

Non ci deve sfuggire il fatto che il Signore Gesù non parla in questi discorsi di Dio, ma del Padre. Volutamente si parla di <Dio> e non del Padre quando il riferimento alla divinità diventa pretesto per esercitare una inaccettabile violenza. Il Signore stesso continua, ricordando e ammonendo che quando questo avvenisse la ragione è chiara: <E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me> (16, 3). Il Dio rivelato nel mistero pasquale di Cristo Signore è un Dio versatile che esige discepoli capaci di andare sempre verso gli altri nella consapevolezza che <lo Spirito della verità> (15, 26) non contrappone, ma apre sempre sentieri che portano ad una condivisione sempre più grande di cui Lidia è una magnifica icona: <Ad ascoltare c’era anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo> (At 16, 14). L’opera di Dio nel cuore dei suoi figli coincide sempre con un ampliamento di apertura dei cuori gli uni verso gli altri, gli uni attraverso gli altri.

Il tuo nome è Bene, alleluia!

VI Domenica di Pasqua –

Nella prima lettura, più volte, ritorna un’attenzione della Chiesa, che diventa la preoccupazione dominante nella Chiesa stessa, che si avverte a servizio di tutti. La sollecita trepidazione si trasforma, allora, in desiderio e cura: perché ogni scelta sia per il <bene> (At 15, 25). Dal modo di comportarsi degli apostoli, nella solenne cornice di quello che consideriamo il primo concilio della storia della Chiesa, possiamo imparare che il <bene> esige un contatto personale! Nella prima lettura troviamo che lo <scritto> (15, 23) non viene fatto pervenire attraverso i consueti messaggeri dell’epoca, ma viene accompagnato da alcune persone di fiducia. Costoro sono chiamati non solo a trasmettere le decisioni prese, ma a far percepire, con la loro presenza, l’intenzione profonda della Chiesa di promuovere il bene di tutti. La Chiesa primitiva diventa così modello dello stile ecclesiale la cui caratteristica principale dovrebbe essere quella di mantenere e coltivare uno stile personale! Da parte sua il Signore Gesù, nel Vangelo, ci fa risalire fino al Padre quale fonte e modello di relazione e di amore infinito: <Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui> (Gv 14, 23). 

Il momento è assai grave! Il Signore annuncia ai suoi discepoli che sta per allontanarsi visibilmente da loro, eppure li vuole lasciare nella <pace> (14, 27) e non nel turbamento. Questa <pace> la si acquisisce e la si conserva osservando la sua parola che, interiormente, non solo assicura, ma persino approfondisce la sua presenza. Le parole del Signore Gesù sono particolarmente dense: ora Gesù non sarà più a portata di mano, passando al Padre inaugura un nuovo modo di vivere la relazione. Potremmo dire che la sua presenza alla quale i discepoli, non solo sono ormai abituati, ma giustamente anche profondamente legati, sarà ormai a “portata di cuore”. In questo modo il Cristo, attraverso il mistero della sua Pasqua, diverrà alla portata di ogni uomo e donna che si aprono alla fede accogliendo l’amore del Padre e del Figlio che ha ormai un volto e un nome: Spirito Santo. Si tratta non di una diminuzione di presenza, ma di un salto di qualità vertiginoso, il quale permette, a ciascuno dei discepoli, di vivere della stessa vita del Maestro.

Il Cristo Signore se ne va verso il Padre e la sua carità ci spinge e non essere negligenti, nei confronti del dono dello Spirito poiché da questa attenzione, che si fa accoglienza, dipende la sua vita in noi e, attraverso di noi, la sua presenza nel mondo. La cosa che sembra stare massimamente a cuore al Signore, mentre guarda diritto in faccia il mistero della sua passione imminente, è la serenità dei suoi discepoli: <Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore> (14, 27). Se il nostro cuore è in pace, allora non potremo che trovare, sempre, il modo per regalare questa medesima pace e serenità a tutti. Questo desiderio ci obbliga a cercare il <bene> di ciascuno senza mai imporre obblighi che appesantiscano inutilmente ed eccessivamente il cammino che è già normalmente così faticoso ed esigente. Il bene di tutti sembra passare attraverso il discernimento di ciascuna di quelle che sono le <cose necessarie> (At 15, 28). A partire da questo alleggerimento radicale che sta a fondamento della vita della Chiesa di sempre e che ne dovrebbe sempre guidare le scelte, possiamo comprendere meglio la parola dell’Apocalisse che mette al centro, sempre e solo, il mistero di Cristo Risorto fino a dire: <La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello> (Ap 21, 23).

Ton nom est Bien, alléluia !

VI Dimanche de Pâques –

Plusieurs fois, dans la première lecture, l’attention de l’Église revient, devenant même sa préoccupation dominante, celle de nous sentir au service de tous. La demande impatiente se transforme alors, en souhait désiré :  que chaque choix soit pour le «  bien » ( Ac 15, 25 ). De la façon de se comporter des apôtres, au cadre solennel du premier concile de l’histoire de l’Église, nous pouvons apprendre que le «  bien » exige un contact personnel ! Dans la première lecture, nous découvrons que «  l’écrit » (15, 23 ) n’est pas fait pour passer à travers les messages habituels de l’époque, mais il est accompagné par certaines personnes de confiance. Celles-ci sont appelées, non seulement à transmettre les décisions prises, mais à faire percevoir, par leur présence, l’intention profonde de l’Église de promouvoir le bien de tous. L’Église primitive devient ainsi le modèle du style ecclésial dont la caractéristique principale devrait être de maintenir et de cultiver un style personnel ! De son côté, le Seigneur Jésus, dans l’Evangile, nous fait remonter jusqu’au Père, face à un modèle de relation et d’amour infini : «  Si quelqu’un m’aime, il observera ma parole et mon Père l’aimera et nous viendrons en lui pour y faire notre demeure » ( Jn 14, 23 ).

Le moment est assez grave ! Le Seigneur annonce à ses disciples qu’il va s’éloigner d’eux visiblement, mais il veut les laisser dans la «  paix » ( 14, 27 ) et non perturbés. Cette « paix » on l’acquiert et la conserve en observant sa parole qui, intérieurement, non seulement rassure, mais approfondit aussi sa présence. Les paroles du Seigneur Jésus sont particulièrement denses : désormais, Jésus ne sera plus à portée de main, en allant vers le Père, il inaugure une nouvelle façon de vivre la relation. Nous pourrions dire que sa présence, à laquelle les disciples sont, non seulement habitués, mais justement aussi profondément liés, sera désormais « à portée de coeur ». De cette manière, le Christ, par le mystère de sa Pâque, deviendra à la portée de chaque homme et femme qui s’ouvre à la foi en accueillant l’amour du Père et du Fils qui a maintenant un visage et un nom : Esprit Saint. Il ne s’agit pas d’une diminution de présence, mais d’un saut qualitatif vertigineux qui permet à chacun des disciples de vivre de la même vie que le Maître.

Le Christ Seigneur s’en va vers le Père et sa charité nous pousse à ne pas être négligents face au don de l’Esprit, car de cette attention qui se fait accueil, dépend sa vie en nous et, à travers nous, sa présence au monde. La chose qui semble le plus tenir à coeur au Seigneur, alors qu’il regarde bien en face le mystère de sa passion imminente, est la sérénité de ses disciples : «  Que votre coeur ne soit pas perturbé et n’ayez pas peur » ( 14, 27 ). Si notre coeur est en paix, alors nous ne pourrons que trouver toujours la façon d’offrir cette même paix et sérénité à tous. Ce désir nous oblige à chercher le «  bien » de chacun sans jamais imposer d’obligations qui appesantissent inutilement et excessivement le chemin qui est déjà normalement si difficile et exigeant. Le bien de tous semble passer par le discernement de tout ce qui peut compter comme «  chose nécessaire » ( Ac 15, 28 ). A partir de cet allègement radical qui est au fondement de la vie de l’Église et qui devrait toujours en guider les choix, nous pouvons mieux comprendre la parole de l’Apocalypse qui met toujours et seulement au centre le mystère du Christ Ressuscité jusqu’à dire : «  La ville n’a pas besoin de la lumière du soleil, ni de la lumière de la lune : la gloire de Dieu l’illumine et sa lampe est l’Agneau » ( Ap 21, 23 ).

Il tuo nome è Ricordare, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

Il Signore Gesù ci parla con una sofferta solennità: <Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”>. La conseguenza di ciò è chiara: <Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra> (Gv 15, 20). La lettura delle parole che il Signore Gesù rivolge ai suoi discepoli nell’intimità del Cenacolo e che ogni anno rileggiamo tra Pasqua e Pentecoste, hanno per noi lo stesso valore e la stessa importanza che ebbero per gli apostoli nella loro ricomprensione di ciò che avevano vissuto con Gesù. Di quei gesti – primo fra tutti la lavanda dei piedi – che fanno lo stile del discepolato. Il primo grande lavoro interiore della Chiesa nascente è stato proprio quello di imparare a ricordare le parole e i gesti del Signore per conformavi le proprie parole e i propri gesti in una continuità d’amore che è l’essenza di ciò che chiamiamo Tradizione. È il Signore stesso a chiedere ancora a ciascuno di noi di non dimenticare, ma di ricordare quella parola che è la regola stessa della discepolanza: <Uno servo non è più grande del suo padrone>. E questo proprio perché nei suoi abbassamenti, il Signore si è rivelato come il padrone che si mette allo stesso livello del servo al fine di poter vivere non più in una relazione di sudditanza, ma di autentico amore.

Si tratta di arrivare fino in fondo alla sfida del Vangelo! Per questo il Signore non solo non nasconde ai suoi discepoli i rischi del discepolato, ma ne parla in modo chiaro ed esplicito. Per sostenere la fedeltà creativa dei suoi discepoli, il Signore partecipa loro la sua passione d’amore per il Padre da cui è originata la compassione per l’umanità. Questa compassione si spinge fino ad una speranza estrema che certo non giustifica la persecuzione, ma pure comprende la ragione più profonda e più vera: <perché non conoscono colui che mi ha mandato> (15, 21). Non c’è altra motivazione all’odio se non l’ignoranza dell’amore che, nonostante tutto, non è in grado di spegnere l’amore la cui fiamma va custodita con una passione e una perseveranza che superi lo zelo delle vergini vestali dell’antica Roma. Il grido e l’implorazione che Paolo sente in sogno si leva ancora oggi da molti angoli della nostra terra e, in particolare, dalle periferie del mondo ove la sofferenza è più grande e il rischio di disumanizzazione più minaccioso: <Vieni in Macedònia e aiutaci!> (At 16, 9).

La reazione dell’apostolo Paolo è immediata e generosa, come annota l’autore degli Atti degli Apostoli che sembra aver condiviso personalmente questo momento importante nel processo di dilatazione della prima evangelizzazione: <Dopo che ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedònia, ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo> (16, 10). Ancora una volta dobbiamo tenere presente che non basta che <durante la notte> appaia <una visione>, è necessario essere in grado di ricordarla e di darle il giusto peso fino a lasciarsi disturbare e riorientare dalle intuizione del cuore in cui il Signore continuamente ci fa cenno di andare oltre… talora di volgersi altrove senza timore e con una grande passione colma di fiducia che si fa decisione e azione.

Il tuo nome è Autorità, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

La prima lettura ci riporta ad un momento assai delicato della vita e della storia della Chiesa: <agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli> (At 15, 22). Potremmo definire questo gruppo la prima delegazione apostolica e gli antesignani dei nostri nunzi e legati pontifici. Se fosse così, sarebbe proprio a partire da questo testo che possiamo comprendere meglio in cosa consista l’<autorità> secondo il Vangelo e secondo l’ispirazione dello Spirito di Cristo Risorto. La prima cosa che va sottolineata riguarda il “curriculum” per essere annoverati tra questo gruppo scelto cui si riconosce la capacità di rappresentare e trasmettere la sensibilità di una Chiesa in continuo ascolto delle esigenze della Parola unitamente alle esigenze della storia. In modo chiaro, il testo ci ricorda che sono <uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo> (At 15, 26). La seconda cosa, altrettanto importante, sta nel fatto che il frutto di questa condizione previa, riguarda uno stile e un’attitudine pastorale che la Chiesa è chiamata a custodire e a rinverdire: <E’ parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie> (15, 27).

In una parola potremmo dire che la condizione dell’autorità nella Chiesa radica nella donazione personale alla causa del Vangelo fino a mettere a rischio, in senso ampio, la propria vita e, parimenti, in un’essenzialità di esigenze che va continuamente rimessa a punto. Lo stesso testo degli Atti ci offre anche un criterio per comprendere se le cose funzionano o meno, proprio a partire dal frutto che l’esercizio dell’autorità nella Chiesa non solo produce come effetto di obbedienza, ma, ancor di più, lascia come senso di sollievo quasi fosse una scia di profumo: <Quando l’ebbero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva> (15, 30). Nel Vangelo tutto questo viene confermato e rafforzato dalle parole del Signore Gesù che sono il presupposto e il punto di partenza continuo di ogni esercizio del servizio di autorità nella comunità credente: <Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli un gli altri come io ho amato voi> (Gv 15, 12). Il punto di partenza non è un principio dottrinale astratto, ma l’esempio concreto di un modo di stare al mondo che è quello rivelatoci nella carne del Verbo.

Ancora una volta è il Signore stesso a darci il criterio per capire se il nostro viaggio nella vita si sta svolgendo nella giusta direzione: <Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici> (15, 13). Ma per dare la vita per i propri amici, prima di tutto bisogna avere degli amici! Sembra che al Signore questo stia radicalmente a cuore quando dice: <Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi> (15, 15). La conclusione dell’unico messaggio che ci viene dall’incrocio delle letture della Liturgia può essere riassunto così: nella Chiesa nessuno deve essere trattato da “suddito”, ma da amico; da parte della Chiesa nessuno deve essere considerato nemico, ma amico, persino e soprattutto quando è un leale avversario.

Il tuo nome è Invece, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

L’apostolo Pietro non si lascia bloccare dalla paura del cambiamento e della novità che sembra paralizzare la prima comunità dei credenti di fronte alla libertà che viene dal Vangelo, una libertà la cui caratteristica principale è di essere non più un privilegio riservato ad alcuni, ma un dono che è di tutti e per tutti. Le parole di Pietro, soprattutto perché vengono dalla bocca di un uomo e di un apostolo perlopiù famoso per la sua paura e i suoi timori, assumono un peso ancora più grande: <Ora dunque, perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare? Noi invece crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo stati salvati, così come loro> (At 15, 10-11). Si può ben dire che buona parte della fatica della prima comunità, che si stringe attorno al Signore Gesù, è legata alla difficoltà di accettare una dilatazione assoluta e incondizionata dei confini di appartenenza e di esperienza di salvezza. Questa fatica fu dapprima del piccolo nucleo degli apostoli attorno al Signore Gesù, divenne la fatica del primo gruppo allargato dei discepoli e delle discepole che si aprono alla fede in Cristo dopo la sua Pasqua, ma è pure la fatica della Chiesa di sempre.

Non è, infatti, facile, rinunciare ad una immagine di comunità di fede il cui principio sarebbe proprio quello di una sorta di privilegio e di esclusività e questo crea e continua a creare <una grande discussione> (15, 7). Tutte le precomprensioni e i preconcetti sembrano destinati a cadere davanti ad un elemento nuovo e dirimente che viene rammentato da Pietro con chiarezza esigente: <E Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi> (15, 8). Questo dono, ricevuto da tutti e condiviso con tutti, non permette più nessun tipo di <discriminazione> (15, 9). Pertanto, la fine di ogni <discriminazione> non è mai facile da digerire e da metabolizzare perché comporta una radicale ricomprensione di se stessi. Le parole del Signore Gesù nel Vangelo ci permettono di andare a scoprire il fondamento remoto e radicale di questo nuovo modo di sentire e di agire: <Come Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore> (Gv 15, 9).

Siamo radicalmente esortati a non pensare in termini di diversità elitaria, ma, ogni giorno, siamo invitati a ripartire invece dal “come” dell’agire di Dio, il quale non fa preferenze e riversando i suoi doni con larghezza su tutti, apre la strada per un modo nuovo di sentirci reciprocamente. Il Signore Gesù con le sue parole ci porta ben oltre ogni <discussione> per aprirci ad un discernimento radicale: <Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena> (15, 11). La gioia che ci viene dal Vangelo, la forza che ci viene dalla Pasqua è legata a questa possibilità inedita di non lasciarsi intrappolare in definizioni e atteggiamenti troppo chiari e troppo distinti, ma rimanendo disponibili all’imprevedibilità della grazia che ci sorprende e ci chiede di dare ogni giorno una possibilità alla grazia nella nostra vita e in quella degli altri.

Il tuo nome è Frutto, alleluia!

V Settimana di Pasqua –

Siamo abituati a leggere e gustare le parabole con cui il Signore narra del regno di Dio che viene, ma siamo sempre commossi quando attraverso delle immagini Gesù parla di se stesso. Quando il Signore si racconta, in realtà, non racconta mai se stesso in modo narcisistico e isolato, ma sempre in relazione: per parlare di sé, Gesù parla sempre del Padre e parla sempre anche di noi. Per fare questo ricorre alle immagini più poetiche e più efficaci come: <Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto> (Gv 15, 1-2). La fecondità dei discepoli è intimamente ed essenzialmente legata al loro essere legati al loro Maestro e Signore, ma questo modo di concepire la fede come legame personale e non semplicemente come l’essere incastonati in un sistema religioso, per quanto generoso e salvifico, non può non creare qualche problema: <Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati> (At 15, 1). Nella sequenza interpretativa della storia che troviamo negli Atti degli Apostoli, questo non è certo il primo <problema> (15, 6) che la Chiesa deve affrontare. Infatti, si è dovuto trovare una soluzione al problema spinosissimo della sostituzione di Giuda nel collegio degli Apostoli, come pure di come far sì che le mense fossero servite in modo uguale senza distinzioni tra credenti provenienti dal giudaismo e quelli provenienti dai gentili… ma quello della circoncisione è, di certo, il più grave.

Paolo e Barnaba, ci racconta Luca nel secondo volume della sua opera, <dissentivano e discutevano animatamente contro costoro> (15, 2). La posta in gioco è la novità del Vangelo di Cristo Gesù, a partire dal quale ciò che assicura la salvezza non è la ritualità, ma la relazione personale da cui sgorga e attraverso cui deve essere autenticata ogni ritualità. Paolo e Barnaba viaggiano attraverso le Chiese mentre si recano a Gerusalemme: <raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli> (15, 3) così pure, una volta giunti alla Chiesa madre della città santa <riferirono quali grandi cose Dio aveva compiuto per mezzo loro> (15, 4). Sembra proprio che nel cuore degli apostoli più aperti alla novità di quel Vangelo che ha radicalmente cambiato la loro vita, risuoni la parola essenziale del Signore Gesù che ha tutto il tono di una supplica amorevole e appassionata: <Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla> (15, 5).

Per otto volte ritorna il verbo <rimanere> che sembra misteriosamente non contrapporsi, ma portare a compimento il verbo <circoncidere>. Ciò che per i padri nella fede era espresso da questo gesto rituale della circoncisione che taglia e in certo modo espone, attraverso la nudità assoluta, alla memoria della propria fragilità, il Signore Gesù sembra volerlo esprimere con questo senso di appartenenza assoluta. Questo senso profondo di appartenenza fa sentire come una cosa sola il discepolo con il Maestro e i discepoli tra di loro che diventano il frutto maturo di una radice condivisa.