Convertire… le pietre

Domenica delle Palme 

La parola che il Signore rivolge ai farisei che gli chiedono di mettere a tacere i discepoli e la folla può essere assunta come chiave di lettura e portale di ingresso per la Settimana Santa: <se questi taceranno, grideranno le pietre> (Lc 19, 39). Le pietre che solitamente hanno un valore alquanto negativo, perché indicano la durezza e chiusura del cuore, come pure una certa modalità inerte della vita spirituale, diventano qui il segno di una radicale trasformazione. Essa può toccare così profondamente l’uomo posto davanti al mistero di Dio – mistero che si rivela nell’abbassamento pasquale di Cristo – da aprirlo ad una fede chiara e testimoniale. Il vangelo di Luca, nel racconto della Passione, ci offre un particolare in cui conferma ulteriormente una delle note più caratteristiche di questo testo ovvero: la fiducia spassionata per la quale, ogni uomo e donna, possano riaprirsi alla relazione con Dio. Essa è resa ancora più profondamente vera – le conferisce una sorta di spessore di qualità – da quella che può essere l’esperienza del peccato che distanzia e allontana.

Per questo, accanto a Gesù, la presenza di due <malfattori> diventa per Luca l’occasione per dare ancora una volta la parola al perdono che si fa promessa: <Oggi sarai con me in paradiso> (Lc 23, 43). Questo malfattore riconosce in Gesù la speranza, non di essere sottratto al suo supplizio, ma di avere la possibilità di attraversarlo non più da solo. Il Signore restituisce al “buon ladrone”, come comunemente lo chiamiamo, la gioiosa possibilità di poter riscoprire la sua radicale innocenza. La croce, non solo quella di Gesù, ma pure quella del ladrone, diventa il luogo di un parto ove la nostra umanità può aderire pienamente al mistero di quel bambino a lungo negato, e il quale è riscoperto proprio nel momento della <giusta> punizione. Finalmente un uomo <condannato alla stessa pena>, permette a quest’altro che tutti ci rappresenta, di confessare la sua pena e di rivelare il suo desiderio più profondo: chiedere di essere portato in braccio nel regno dei cieli, nel paradiso, nella vita, nell’amore, nel desiderio, nella speranza.

In questa figura si ricapitolano tutte quelle figure che costellano il vangelo di Luca: dal figlio prodigo, alla peccatrice, a Zaccheo, al pubblicano che non osa levare lo sguardo verso il cielo… a noi! Entriamo nei misteri di questa Settimana Santa seguendo certamente il Signore Gesù che sale al Calvario con la sua croce, ma vogliamo salire anche noi con la nostra croce, con la croce che siamo. La speranza più grande è quella che questi giorni possano essere, per ciascuno di noi una, vera scuola di vita che non può mai omettere la lezione fondamentale sul mistero della sofferenza e della morte. Oggi leviamo in alto le palme come i bambini di Gerusalemme e prepariamo noi stessi ed essere innalzati alla stessa altezza del Crocifisso per potergli infine parlare in una intimità e una verità che ci renderà capaci di pensare a noi stessi in un modo completamente nuovo. È ormai vicina <la discesa del monte degli Ulivi> (Lc 19, 37) che precede di poco l’erta del Calvario, ma non siamo soli… e non lasciamolo solo! Allora la morte – ogni morte – non sarà che una porta spalancata di <paradiso>. Sì, le <pietre> (19, 40) dei nostri cuori, addolciti dalla grazia di questi giorni, potranno stupirsi ancora davanti alla pietra rotolata via dal sepolcro e intoneranno, presto, il canto della vittoria dell’amore.

Visite il giorno 1° Maggio

ore 10.30 e 11.30

ore 15,30: Visita speciale – Presbiterio/Biblioteca

Convertire… purificarsi

V settimana T.Q.

L’evangelista Giovanni annota che sono molti coloro che salgono a Gerusalemme <per purificarsi> (Gv 11, 55). Anche noi siamo ormai chiamati a salire a Gerusalemme con Gesù e per Gesù al fine di purificare la nostra vita e poter celebrare la Pasqua. La purificazione comporta abitualmente un lavacro e sarà proprio il Signore Gesù a lavare i piedi dei suoi discepoli nell’imminenza della sua passione. Per noi vale lo stesso: dobbiamo purificarci da tutto ciò che non ci permette di stare serenamente e amorevolmente ai piedi dei nostri fratelli, accettando – cosa ancora più difficile talora – che qualcuno lavi i nostri piedi. Nondimeno c’è pure un altro modo di celebrare, o di prepararsi a celebrare, la Pasqua ed è quella dei sacerdoti, dei farisei, del sommo sacerdote che sono così presi dalla preservazione del loro sistema di vita da non aver nessun timore nel sacrificare la vita di altri pur di non mettere assolutamente in pericolo il proprio equilibrio e le proprie abitudini: <Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!> (Gv 11, 50). 

La soluzione del sommo sacerdote parrà abbastanza equilibrata e per certi aspetti saggia – la “ragion di stato” che può diventare persino “ragion di Chiesa” – entra in contrasto con quella volontà salvifica universale che non sopporta nessuna logica sacrificale che immola l’altro, bensì che offre sempre e solo se stesso. L’evangelista Giovanni, come spesso avviene sotto la sua penna, spiega teologicamente quanto il sommo sacerdote ha appena detto: <profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi> (11, 51-52). Giustamente, la Liturgia prepara l’ascolto del Vangelo riprendendo un testo del profeta Ezechiele in cui il desiderio di ricondurre e di radunare è inseparabile da quello di liberare e purificare e si conclude con una solenne promessa: <e saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio> (Ez 37, 23).

Alla vigilia dell’inizio della Settimana Santa, come credenti e come discepoli siamo chiamati a purificare il nostro cuore per entrare con Gesù a Gerusalemme in piena disponibilità a fare dono della nostra vita come il Signore. Sicuramente anche per noi è necessaria una certa purificazione interiore, e la Parola di Dio racchiusa nelle Scritture ci indica la via e il modo di questa purificazione che non può accontentarsi semplicemente di qualche rito, ma deve toccare profondamente il nostro vissuto. Per essere degni e atti a celebrare la Pasqua di Cristo è necessario assumere la sua logica che non può avere nulla in comune con quella dei notabili, così preoccupati di se stessi tanto che <Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo> (Gv 11, 53). Per costoro sembra necessario far sparire i segni del Regno che viene in Gesù: che i ciechi sanati recuperino la loro cecità, che i raddrizzati ritrovino la loro barella, che i risuscitati, come Lazzaro, siano più decisamente uccisi e fatti scomparire. Naturalmente, mentre contempliamo la scena di questa iniqua decisione – aggravata dalla sua apparenza religiosa – siamo chiamati a dubitare di noi stessi. Non è poi così sicuro e non è assolutamente scontato che il nostro modo di pensare, di agire, di decidere sia veramente diverso da quello dei notabili del popolo. Così pure non è detto che la nostra benevola curiosità come quella di quanti salgono a Gerusalemme per la Pasqua sia veramente innocua: <Che ve ne pare? Non verrà alla festa?> (11, 56). Sarà proprio quella medesima folla ad acclamare Gesù come Messia e a richiedere insistentemente a Pilato la sua condanna a morte. Non è facile sapere dove siamo con il nostro cuore, la nostra mente, la nostra volontà, il nostro discernimento. Certo, possiamo purificarci come la folla, ma ancor più essenziale è che ci lasciamo purificare dai nostri <idoli> (Ez 37, 23). 

Convertire… in denuncia

V settimana T.Q.

La Liturgia bizantina aiuta il fedele ad entrare nel mistero di questo ultimo venerdì di Quaresima con queste parole: <Due dei discepoli sono oggi mandati, come sta scritto, a prendere il puledro, sul quale Cristo salirà e verrà splendido per prepararsi una lode divina dalla bocca dei fanciulli: affrettiamoci con zelo ad andargli incontro, portandogli palme di azioni virtuose> (Anthologhion II, 904). Mentre contempliamo i discepoli – secondo la liturgia orientale – che sono alla ricerca del puledro adatto a portare il dolcissimo peso della mitissima regalità dell’umile Salvatore di tutti, la Parola di Dio di quest’oggi ci fa aprire gli occhi sul dove questo puledro porterà il Signore Gesù e lo fa, ancora una volta, attraverso le parole del profeta Geremia attraverso cui possiamo sentire le emozioni e i sentimento dello stesso Cristo : <Sentivo la calunnia di molti: “Terrore all’intorno”> (Gr 20, 10). Il terrore da cui si sente accerchiato si materializza nel vangelo: < i Giudei raccolsero delle pietre per lapidare Gesù> (Gv 10, 31).

Eppure, né il profeta né tantomeno il Signore si lasciano intimidire ma, al contrario, reagiscono assumendo su se stessi il peso della denuncia forte e chiara che si fa sulla bocca di Gesù aperta provocazione a prendere coscienza del male che si sta compiendo, pur accettando di esserne vittima: < Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?> (10, 32). Non rischiamo di essere precipitosi nel pensare che questa domanda rivolta da Gesù ai Giudei non ci riguardi. Essa, infatti, è una denuncia di tutto ciò che in noi lapida il vangelo che ci è stato donato e affidato con le pietre della nostra indifferenza, del nostro sospetto, della nostra chiusura e della nostra insensibilità. Tra le nostre mani abbiamo molte più pietre di quanto possiamo immaginare e, nondimeno, esse sono capaci di uccidere dentro di noi e attorno a noi quel seme divino di cui la Scrittura attesta solennemente quando dice: <Voi siete dèi> (10, 34).

Il Signore Gesù come tutti i profeti che vengono da Dio e parlano in suo nome in modo <vero> (10, 41) non fanno che risvegliare e riattivare in noi questa coscienza di divina parentela che, di certo, non può che essere di fastidio a quanti vogliono ridurre i loro fratelli a semplici ingranaggi di un meccanismo che assicuri loro privilegi e potere. Ogni volta che ci si trova in una situazione del genere non si può che fare propria la parola così del profeta: <Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile> (Gr 20, 11). Nell’orazione dopo la comunione, la Chiesa ci fa pregare così: <Non ci abbandoni, Signore, la forza di questo sacramento che ci unisce a te, e allontani sempre da noi ogni male>. Il male più grande è proprio quello della confusione che il Signore denuncia con impeto nei Giudei che è in ciascuno di noi: avere una tale attrattiva per il peggio da confondere le <molte opere buone> (Gv 10, 32) con il male che ci rode dentro.

Convertire… il nome

V settimana T.Q.

Le parole che il Signore Dio rivolge al nostro padre nella fede rappresentano un momento di rinascita: <Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò> (Gen 17, 5). I Giudei che discutono con il Signore Gesù dimostrano di non aver ben compreso la portata di questo intervento dell’Altissimo nella vita e nel percorso del comune padre nella fede: <Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?> (Gv 8, 53). In realtà, il Signore Gesù aveva cercato di attirare la loro attenzione su ciò che ci rende immortali, non nel senso dell’essere imperituri o di una grandezza semplicemente umana, bensì di una relazione che struttura fino a ristrutturare continuamente le radici stesse della nostra personalità: <In verità, in verità io vi dico: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno> (8, 51). Il cammino compiuto da Abramo non è altro che il difficile passaggio da una fecondità a partire da se stesso, già contenuta nel significato del suo nome che richiama “un padre alto”, per aprirsi ad una nuova fecondità assai più ampia e duratura che è frutto di una relazione con il “padre altro” che è il padre di tutti.

Il Signore Gesù sembra quasi supplicare i suoi ascoltatori, che si riveleranno ben presto come i suoi persecutori, di aprirsi a questa relazione qualificante: <Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorificherà è il Padre mio, del quale voi dite “E’ nostro Dio”> (Gv 8, 54). Il passaggio che spetta ciascuno di noi è di accettare che il nostro nome divenga sempre più quello di “figlio”. Per tutti si presenta la sfida di vivere il passaggio dal bisogno di essere padri alla soddisfazione, serena e rasserenante, di essere figli: <Voi, stirpe di Abramo, suo servo, figli di Giacobbe, suo eletto> (Sal 104, 6). Per questo disse Dio ad Abram divenuto ormai Abramo: <Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione> (Gen 17, 9). Il Signore Gesù sigilla nel suo mistero pasquale questa fedeltà ad oltranza, che non si arresta davanti a nessuna esigenza e sembra passare oltre ogni minaccia per coronare una fedeltà ineludibile: <Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio> (Gv 8, 59).

Credere che il Cristo è colui che è nel presente in cui si ricapitola il passato e si prepara il futuro è ciò che può veramente fare la differenza nella vita. Il Dio che si fa nostra salvezza non si identifica mai con ciò che è stato né si rimanda a ciò che sarà, ma si dona in un presente di eternità che fa della realtà una possibilità ulteriore di divinizzazione. Per questo non ci resta, si fa per dire, che lavorare a noi stessi per diventare realmente ciò che siamo: figli! Figli da generare continuamente, in una capacità continuamente rinnovata di aprirsi a nuove tappe di cammino e di crescita senza nostalgie né rammarichi che rischiano, in realtà, di impoverire attraverso l’illusione di grandezze che, in realtà, non sono altro che la gonfiatura delle nostre frustrazioni più profonde. Il Signore Gesù mette in crisi i dottori della Legge proprio perché si fa testimone di un modo di essere vivo che non ha nulla a che vedere con un atteggiamento museale contro cui anche noi dobbiamo tenerci sempre vigilanti per avere ogni giorno la sorpresa di riaccogliere il mistero di noi stessi attraverso un nome sempre da riscoprire e, per certi aspetti, da reinventare.

Convertire… in liberi

V settimana T.Q.

La parola del Signore Gesù esprime una condizione ineludibile: <Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli> e aggiunge come conseguenza quasi naturale: <conoscerete la verità e la verità vi farà liberi> (Gv 8, 31-32). Mentre i giorni della Quaresima si assottigliano e la luce pasquale sembra già accendere l’orizzonte come un giorno che chiede di essere accolto e goduto, la Liturgia ci mette di fronte al <fuoco della fornace> (Dn 3, 19) fatta attizzare dal re Nabucodonosor. L’idea del tiranno è di bruciare definitivamente la sfrontatezza di questi tre giovani che la sua alterigia non riesce a piegare perché il loro cuore è così libero davanti alla morte da essere vivi in modo invincibile. Essere discepoli ed essere, al contempo, liberi! Questa è la sfida anche per noi. Obbedire alle esigenze di una relazione non può mai essere qualcosa che rende schiavi, ma, al contrario, è l’unico modo per essere veramente all’altezza della propria libertà. La conclusione di Nabucodonosor suona come un grido di allarme per tutti coloro che cercano di asservire i propri fratelli e sorelle in umanità: <Ecco, io vedo quattro uomini sciolti, i quali camminano in mezzo al fuoco, senza subirne alcun danno; anzi il quarto è simile nell’aspetto a un figlio di dèi> (3, 92).

La disponibilità di questi tre giovani a rischiare la vita, piuttosto che mettere a repentaglio la loro libertà, è come allargare il cerchio e, all’interno della fornace, vivere una compagnia ancora più allargata e ancora più profonda. Quando il Signore Gesù risponde in tono solenne ed esigente: <Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero> (Gv 8, 36) non fa altro che ricordarci come la libertà non è qualcosa che ci diamo da soli, ma è il frutto della capacità di vivere relazioni autentiche che, proprio per questo, non possono che essere liberanti. Essere e continuamente diventare discepoli del Signore coincide con questo cammino di sequela che si fa sempre di più umile e consapevole processo di liberazione da quelle paure che spingono a diventare come Nabucodonosor così prepotenti da essere, in realtà, impotenti. È questo il senso profondo della relazione istituita dal Signore Gesù tra esperienza della libertà e disponibilità a lasciarsi affrancare dal peccato inteso come difficoltà ad uscire da proprio egoismo e dalla propria autoreferenzialità.

L’esperienza dei tre giovani nella fornace forse non è un fatto storico, ma è una storia vera di quel necessario processo di liberazione senza il quale nulla di vero può toccare la nostra vita. Il tempo di quaresima e l’avvicinarsi delle feste pasquali potrebbero essere l’occasione per fare il punto sulla nostra storia di libertà e sulla nostra storia di discepoli. Infatti, come ricorda Martin Lutero in un testo memorabile: <un cristiano è un servo zelante e sottoposto a ognuno. Cioè: in quanto è libero, non ha bisogno di fare nulla; in quanto è servo, deve fare tutto… per servire Dio gratuitamente in libero amore>1.


1. M. LUTERO, La libertà del cristiano, 28-29.

Convertire… i serpenti

V settimana T.Q.

Non possiamo nascondere il nostro stupore davanti alla conclusione del vangelo, ed è uno stupore pieno di ammirazione e di speranza: <A queste sue parole, molti credettero in lui> (Gv 8, 30). La domanda si fa legittima: che cosa mai in queste parole del Signore Gesù quei <molti>, di cui vorremmo far parte, hanno trovato una parola che li ha toccati così profondamente da aprirli ad un’adesione di fede così pronta e semplice? I notabili ironizzano sull’orizzonte cui il Signore cerca di aprire le loro menti e i lori cuori e che si pone ad un livello diverso da quello cui sono continuamente abituati: <Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: “Dove vado io, voi non potete venire”?>. (8, 22). La gente più semplice intuisce nelle parole del Signore il segno di qualcosa che trascende ogni paura e apre una possibilità reale di uscire dal circolo degli avvelenamenti quotidiani che ci tengono come crocifissi al <quaggiù> (8, 23) di tutte quelle abitudini, usi, modi di fare che, in realtà, ci paralizzano come farebbe il veleno di <serpenti brucianti> (Nm 21, 6).

L’immagine del libro dei Numeri evoca tutto quello che dentro di noi brucia fino a ad avvelenarci e per molti aspetti, ucciderci: i nostri fallimenti, le nostre fragilità, il nostro rammarico, le nostre più o meno latenti patologie… in una parola la nostra realtà di limite che, se non assunta, diventa esperienza di peccato. Ora tutto ciò invece di essere ignorato o eliminato viene, invece, dal Signore <innalzato> (Gv 8, 28) poiché viene portato ad un livello diverso in cui ognuno di questi veleni può, attraverso un amore purificante, trasformarsi in un antidoto e in una vera medicina. La croce del Signore diventa così la ripresentazione del roveto ardente del deserto in cui il Signore rivela a Mosè di non temere la sua debolezza e la sua paura che l’hanno fatto fuggire dall’Egitto, fino a trasformarle in strumento di salvezza non solo per se stesso, ma per tutto il popolo.

I rabbini spiegano che il Signore Dio si rivelò in un roveto perché esso ha molte spine e queste rappresentano le sofferenze e le prove della vita umana. Il Signore Gesù contrappone, alle infinite discussioni accademiche degli scribi e dei farisei, se stesso quale uomo dei dolori che sarà innalzato sulla croce nudo, come un serpente, e coronato di spine, come un roveto ardente, il cui amore bruciante non si consuma, pur continuando a donarsi. Sulla croce la pienezza della Rivelazione di Dio si manifesta ancora una volta nel disarmo più totale che diventa per ogni discepolo l’indicazione dell’unica strada e dell’unico modo per non cadere sotto l’autocondanna a morire nel proprio <peccato> (8, 21) la cui radice è quella di non accettare di lasciarsi salvare da uno sguardo accolto e ricambiato.

Sapremo resistere a fissare lo sguardo sull’Uomo dei dolori che ben conosce il patire e accettare che egli lo ricambi con il suo sguardo infuocato che incenerisce tutto ciò che in noi è secco e spinoso? Il cammino verso la Pasqua può diventare per noi un vero processo interiore di riconciliazione con la nostra fragilità e vulnerabilità che possono così diventare un luogo non di maledizione, ma di relazione che fa crescere nella consapevolezza di sé e in una solidarietà sempre più dilatata e profonda.

Convertire… la dualità

V settimana T.Q.

È abbastanza normale che il castigo abbia una relazione con la colpa, per questo non possiamo lasciarci sfuggire il particolare castigo che il giovane Daniele annuncia, da parte di Dio, ai due iniqui anziani che, dopo aver tentato di sedurre Susanna, cercano di eliminarla. Il giovane e forte Daniele – capace di intimorire persino i leoni con cui viene sepolto vivo – dice senza mezzi termini: <ti squarcerà in due> e ancora <ti taglierà in due) (Dn 13, 55. 59). Gli anziani che si fanno seduttori e accusatori in realtà sono solo due uomini il cui cuore è <invecchiato nel male> (Dn 13, 52). Per questo, nonostante le apparenze, non hanno di certo <le prerogative dell’anzianità> (Dn 13, 50) che vengono da Dio e che il popolo riconosce nel giovanetto Daniele e nella sua capacità di dissociarsi. Il dono dell’anzianità è proprio nella capacità di unità interiore, di adesione alla propria realtà – non ultimo alle esigenze e alle responsabilità della propria età e canizie – mentre questi due “invecchiati”, in realtà, non accolgono il proprio stato di vita e, in certo modo, sono frustrati per una giovinezza che non hanno ormai più. Ed ecco che quella giovinezza che hanno perso o che forse non hanno mai serenamente goduto la inventano e, inavvertitamente, la condannano perché, interiormente, la temono. La paura che genera l’invidia rende patetici e rende spietati: <Quindi è entrato da lei un giovane che era nascosto, e si è unito a lei> (Dn 13, 37).

Noi sappiamo che nessun giovane è entrato nel giardino della casta Susanna, ma dobbiamo al contempo riconoscere che due vecchi si erano nascosti lì nell’intento di far finta di essere giovani nell’intimità come fanno finta di essere anziani davanti al popolo: <Così facevate con le donne di Israele ed esse per paura si univano a voi> (Dn 13, 57). Con queste parole di Daniele, ci viene svelato il nome proprio della castità: il non avere paura nemmeno della morte. Infatti Susanna non teme la morte, ma teme il Signore a cui si rivolge con forza e con altrettanta libertà e dignità: <Dio eterno, che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, tu lo sai…> (Dn 13, 42-43).

Susanna non chiede a Dio di intervenire, ma si limita a ricordare a Dio che come egli è l’Unico il suo cuore è uno. Il Signore Gesù lo ricorda ai Giudei: <nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera> (Gv 8, 17), ma Daniele mette in chiaro che non basta essere in due per testimoniare il vero perché in due si può ancor più terribilmente perdere <il lume della ragione> (Dn 13, 9) e incoraggiarsi e sostenersi nel <non vedere il Cielo> (Dn 13, 14). La con-cordia e l’un-animità non possono che darsi a partire da cuori unificati e anime in-divise, altrimenti è più facile che si arrivi alla perversione della <passione> (Dn 13, 8) che acceca e che, inevitabilmente, non può placarsi fino quando l’oggetto della brama -non posseduto- sia annientato.

Noi tutti siamo “spaccati” almeno in due; ciascuno ha davanti a sé un cammino di castità da compiere verso la libertà e la verità del proprio cuore: ci liberi il Signore dalla tentazione di invecchiare nella divisione interiore e ci conceda il dono di quell’anzianità che tutto vede non con i due occhi della carne – come dice Climaco – ma con l’occhio uno e puro del cuore.

Convertire… in lucignolo

V Domenica T.Q. 

Le parole del profeta sono come superate e quasi contraddette dal Signore Gesù: <essi giacciono morti, mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo, sono estinti> (Is 43, 17). Invece proprio davanti al tempio quando la furia di quanti si sentono resi onnipotenti dalla debolezza e dalla fragilità di una donna <sorpresa in adulterio> (Gv 8, 3) chiedono al Signore Gesù di spegnere con un ultimo soffio la sua vita. Ma il nostro Signore Gesù Cristo, proprio come ricorda il profeta in un altro passo, non è venuto a <spegnere il lucignolo fumigante> (…), bensì a custodirne e ravvivarne la fiamma. La parola dell’apostolo Paolo ci porta al cuore della questione: <Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono conquistato da Cristo Gesù> e aggiunge <So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte> (Fil 3, 12-13).

È questo il senso delle ultime parole scambiate tra Gesù e questa donna, quando oramai tutti se ne sono andati: <Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più> (Gv 8, 11). Proprio quando sembra che il lucignolo debba spegnersi con l’ultima folata di vento, ecco che, invece, un goccio di olio in più di amore e di misericordia messo nella fragile lampada della vita di questa donna permette di riprendere a vivere e a sperare. I farisei vorrebbero usare questa donna <per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo> (8, 6), il Signore Gesù mettendosi al livello di vulnerabilità di questa donna ormai finita cambia completamente la situazione.

Gesù scrive per terra nella polvere come non ricordare l’inizio della Quaresima quando abbiamo ricevuto sul capo un pizzico di cenere. I farisei vogliono applicare la Legge scritte con il dito di Dio sulle tavole di pietra, e Gesù ricorda a ciascuno che questa Legge deve essere scritta nel cuore di carne riconciliato con la polvere della propria e dell’altrui fragilità. Geremia dice che <i nomi degli accusatori saranno scritti nella polvere> (Gr 17, 13), ma il profeta Isaia ci ricorda che <ho scritto il tuo nome sulle palme delle mie mani, non ti dimenticherò mai> (Is 49, 15-16).

Alla modalità affollata con cui i farisei si assiepano attorno al Signore Gesù corrisponde una solitudine cercata e attesa dal Cristo per poter finalmente incontrare e lasciarsi incontrare da questa donna. Solo quando tutti se ne sono andati, sembra che il Signore dia finalmente la risposta agli scrivi e ai farisei che l’avevano interrogato. Il Signore non passa sopra all’esperienza negativa e al peccato vissute da questa donna, ma è solo nella solitudine che il riconoscimento del peccato può diventare un vero invito alla conversione che è sempre un invito ad esercitare in pienezza la libertà: <… va’ e d’ora in poi non peccare più>. Quando papa Francesco ha commentato questo vangelo nel suo primo Angelus in piazza san Pietro ebbe a dire che se Dio non si stanca mai di perdonarci, siamo invece noi a stancarci di chiedere perdono a Dio.

Convertir… en lumignon

V Dimanche T.Q. –

Les paroles du prophète sont comme dépassées et presque contredites par le Seigneur Jésus : « Ils se sont couchés pour ne plus se relever, ils ont été étouffés, ils se sont éteints comme un lumignon » ( Is 43, 17 ). Cependant, par la furie de ceux qui, devant le temple, se sentent surpuissants  face à la faiblesse et la fragilité d’une femme «  surprise en adultère » ( Jn 8, 3 ) ils demandent au Seigneur Jésus d’éteindre sa vie par un dernier souffle. Mais, notre Seigneur Jésus, comme nous le rappelle le prophète dans un autre passage, n’est pas venu «  éteindre le lumignon fumigène » (…), mais plutôt protéger et raviver la flamme. La parole de l’apôtre Paul nous emmène au coeur de la question : «  Non que je sois déjà au but, ni devenu parfait ; mais je poursuis ma course pour tâcher de saisir, ayant été saisi, moi-même par le Christ Jésus » et il ajoute « je dis seulement ceci : oubliant le chemin parcouru, je vais droit de l’avant, tendu de tout mon être » ( Ph 3, 12-13 ).

C’est cela le sens des dernières paroles échangées entre Jésus et cette femme, lorsqu’enfin  tous s’en sont allés : «  Moi non plus je ne te condamne pas, va, et désormais ne pèche plus » ( Jn 8, 11 ). Juste au moment où l’on croit que le lumignon devrait s’éteindre avec le dernier coup de vent, voilà, qu’au contraire, une goutte d’huile supplémentaire d’amour et de miséricorde mise dans la fragile lampe de la vie de cette femme lui permet de réapprendre à vivre et à espérer. Les pharisiens voulaient utiliser cette femme «  pour le mettre à l’épreuve et avoir un motif pour l’accuser » ( 8,6 ), mais, le Seigneur Jésus, en se mettant au niveau de vulnérabilité de cette femme accablée change complètement la situation.

Jésus écrit au sol, dans la poussière, comment ne pas penser au début du Carême lorsque nous avons reçu sur nos fronts une pincée de cendres. Les pharisiens veulent appliquer la Loi écrite avec le doigt de Dieu sur les tables de pierre, et Jésus nous rappelle à chacun que cette Loi doit être inscrite dans le coeur de chair réconcilié avec notre propre fragilité et celle des autres. Jérémie dit que «  les noms des accusateurs seront inscrits dans la poussière » ( Is 49, 15-16 ).

A la façon affolée par laquelle les pharisiens se sont agglutinés autour du Seigneur Jésus, correspond une solitude cherchée et attendue par le Christ pour pouvoir finalement rencontrer et se laisser rencontrer par cette femme. C’est seulement lorsque tout le monde s’en est allé, que le Seigneur semble donner la réponse aux scribes et aux pharisiens qui l’avaient interrogé. Le Seigneur ne passe pas par-dessus l’expérience négative et le péché vécus par cette femme, mais, c’est seulement dans la solitude que la reconnaissance du péché peut devenir une véritable invitation à la conversion qui est toujours une invitation  à vivre pleinement la liberté : « …va, et, désormais, ne pèche plus ». Quand le pape François a commenté cet évangile lors de son premier Angelus à la place Saint Pierre, il se plut à dire que si Dieu ne se lasse jamais de nous pardonner, c’est nous qui rencontrons des difficultés à demander pardon à Dieu.