Convertire… in consapevolezza

II settimana T.Q.

Questa nuova tappa del nostro cammino quaresimale, si apre all’insegna di una crescita in consapevolezza che ci mette in grado di fare un passo ulteriore nella capacità di decisione. Il profeta Daniele si fa interprete di quello che, in termini moderni, chiameremmo stream of consciousness. Non è raro, ed è altamente importante, che ci troviamo, talora, di fronte alla nostra coscienza con un senso di vergogna di e di smarrimento davanti a ciò che non siamo riusciti a fare e a ciò che, nonostante tutte le nostre buone intenzioni e decisioni sempre rimandate, non siamo riusciti a mettere in atto nella nostra vita. La preghiera diventa terapeutica perché ci permette da una parte di nominare la nostra debolezza e guardare in faccia la nostra fragilità senza paura e con lucidità e, dall’altra, ci aiuta a non rassegnarci a noi stessi. Il profeta Daniele ci offre il vocabolario della presa di coscienza, senza dimenticare di assicurarci la sintassi della fede in Dio e in noi stessi come soggetti che restano sempre capaci di cambiamento e di miglioramento. Se la parola che ci tocca forse di più perché ci rappresenta è questa: <Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri principi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te> non va sottovalutata l’ultima parola che non è su noi stessi e suona come una professione di fede: <al Signore, nostro Dio, la misericordia e il perdono, perché ci siamo ribellati contro di lui> (Dn 9, 8). Non è certo un caso che il testo cominci proprio così: <Signore Dio, grande e tremendo, che sei fedele all’alleanza e benevolo verso coloro che ti amano e osservano i tuoi comandamenti> (9, 4).

La parola del Signore Gesù sembra indicarci la strada per uscire da questo impasse di <vergogna> (9, 7) attraverso un recupero di dinamismo e di creatività. Tutto ciò si fa esortazione a sognare su noi stessi come capaci di andare oltre gli stretti confini – perlopiù asfissianti – di noi stessi: <Siate misericordiosi, come il padre vostro è misericordioso> (Lc 6, 36) Questa parola del Signore è una parola medica che dà sollievo alla nostra più antica e profonda ferita. Quella di esserci convinti attraverso l’esperienza delle nostre fragilità, di non essere in grado di assomigliare a Dio la cui immagine pure sentiamo essere il segreto e l’essenza più profonda della nostra identità. Pertanto il Signore ci sprona a credere che siamo capaci di essere come Dio e non nella logica della tentazione diabolica che ci fa immaginare chissà quali privilegi e chissà quali potenze, ma nella logica di un amore capace di dono unilaterale e assoluto: <Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurata a voi in cambio> (6, 38).

L’invito all’amore fa tutt’uno con l’invito a perdonare senza misura e senza calcolo non come “operazione virtuosa”, ma come recupero delle proprie “possibilità divine”. Il nostro cammino quaresimale continua all’insegna di una profonda consapevolezza dei nostri limiti intimamente e radicalmente connessa all’invincibile coscienza del mistero divino che ci abita così profondamente da essere il trampolino sempre possibile della speranza non solo per noi stessi, ma per tutti: <Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati> (6, 37). Se noi svuotiamo davanti a Dio il sacco del nostro cuore, l’Altissimo lo riempirà di un amore debordante, un amore che colmerà il nostro vuoto e ci permetterà di farci canali di benevolenza e di perdono.

Convertire… il fuori

II Domenica T.Q. 

Questa seconda grande tappa del nostro quaresimale è ritmata da una memoria che si fa monito o, più precisamente, indicazione di rotta: <Dio condusse fuori Abram e gli disse: “Guarda in cielo…> (Gn 15, 5). Non sembra poi così diverso quello che fa il Signore Gesù con i suoi discepoli quando: <prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare> (Lc 9, 28). L’accostamento dei due testi ci aiuta a comprendere meglio il senso di uno degli elementi caratteristici del cammino quaresimale che, unitamente al digiuno e all’elemosina, è proprio la preghiera. Questa sembra non essere altro che il consenso della nostra umanità ad uscire fuori dai confini della propria abitudine per aprirsi al <cielo> e per salire con la dovuta fatica <il monte>. Sia per Abram che per Gesù e i suoi discepoli si tratta in realtà di acconsentire ad una trasfigurazione – termine che Luca non usa – del proprio sguardo attraverso cui leggere la realtà con un’intelligenza nuova.

Lo sguardo trasfigurato è propriamente quello degli innamorati o di una puerpera nei confronti del proprio neonato… si tratta di una capacità di vedere oltre fino a cogliere ciò che gli altri non possono nemmeno immaginare. Se questo è il lato stupendo dell’amore, non bisogna mai dimenticare che entrare in questo modo di guardare che riflette il modo abituale con cui l’Altissimo ci guarda e ci trasfigura continuamente, non bisogna dimenticare che vi è connessa la necessità di una immolazione imprescindibile. Per Abram nella notte del passaggio di Dio come Signore della sua vita come per i discepoli nella notte di condivisione della preghiera del loro Maestro c’è un passo da fare che esige la disponibilità a immolare il proprio modo di pensare e persino di avere paura. Il <terrore> (Gn 15, 12) che assale Abram non è poi molto diverso della <paura> (Lc 9, 34) che stringe il cuore dei discepoli davanti a quello strano discorso che Gesù intesse con Mosè ed Elia circa quel <suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme> (Lc 9, 31).

L’apostolo Paolo conosce bene quanto sia difficile entrare e rimanere nel cammino pasquale tanto da implorare i suo fratelli nella fede <con le lacrime agli occhi> perché nessuno imiti o si lasci ammaliare dai <nemici della croce di Cristo> (Fil 3, 18). In questa seconda domenica di quaresima ci è chiesto di fare un ulteriore passo <fuori> per ascendere con Gesù verso <il monte> che già prefigura il Calvario che diventa il trampolino imprescindibile per sperimentare la gioia di avere la <cittadinanza nei cieli> (3, 20).

Convertir… dehors

II Dimanche T.Q. –

Cette seconde grande étape de notre Carême est rythmée par un souvenir qui devient un avertissement, ou plus précisément une indication d’itinéraire : «  Dieu conduisit Abraham dehors et lui dit : «  Regarde le ciel… » ( Gn 15, 5 ). Ce n’est pas tellement différent de ce que fait le Seigneur Jésus avec ses disciples lorsqu’ « il prit avec lui Pierre, Jean et Jacques et grimpa sur la montagne pour prier » ( Lc 9, 28 ). Le rapprochement des deux textes nous aide à mieux comprendre le sens de l’un des éléments caractéristiques du chemin de Carême qui, avec le jeûne et l’aumône est vraiment la prière. Cela semble ne rien être d’autre que le consentement de notre humanité à sortir au-delà des frontières de notre propre confort pour s’ouvrir au « ciel » et grimper avec l’effort exigé sur « la montagne ». Que ce soit pour Abraham ou pour Jésus et ses disciples, il s’agit en réalité de consentir à une transfiguration – expression que Luc n’emploie pas – de notre regard pour y lire la réalité avec une nouvelle intelligence.

Le regard transfiguré est justement celui des amoureux ou d’une jeune mère face à son nouveau-né…il s’agit d’une capacité de voir plus loin, jusqu’à découvrir ce que les autres ne peuvent même pas imaginer. Si cela est le côté merveilleux de l’amour, il ne faut jamais oublier qu’entrer dans cette manière de voir, reflet du regard du Très-haut qui nous transfigure continuellement, nécessite l’indispensable connexion d’une immolation Pour Abraham, dans la nuit du passage de Dieu comme Seigneur de sa vie, tout comme pour les disciples pendant la nuit de partage de la prière avec leur Maître, il y a un pas à faire qui exige la disponibilité d’immoler sa propre façon de penser et même d’avoir peur. La «  terreur » ( Gn 15, 12 ) qui assaille Abraham n’est pas très différente de la «  peur » ( Lc 9, 34 ) qui étreint le coeur des disciples face à l’étrange discours que Jésus  entretient avec Moïse et Elie concernant  «  son exode, qu’il voulait accomplir vers Jérusalem » ( Lc 9, 31 ).

L’apôtre Paul connaît bien la difficulté d’entrer et de rester sur le chemin pascal jusqu’à implorer ses frères dans la foi «  les larmes aux yeux » afin que personne n’imite ou se laisse fasciner par «  les ennemis de la croix du Christ » ( Ph 3, 18 ). En ce deuxième dimanche de Carême, il nous est demandé de faire un pas supplémentaire «  au dehors » pour monter avec Jésus  vers «  la montagne » qui préfigure déjà le Calvaire qui devient le tremplin indispensable pour expérimenter la joie d’avoir la «  citoyenneté dans les cieux » ( 3, 20 ).

Convertire… in pratica

I settimana T.Q.

Questa prima settimana di quaresima termina con la ripresa della conclusione del discorso della montagna. Le parole rivolte dal Signore Gesù sul monte aprono ai discepoli, di ogni luogo e di ogni tempo, un orizzonte amplissimo. A ciascuno è offerta la sfida di una vita beata che non ha nulla a che vedere con un modo di vivere spensierato e autoreferenziale. Al contrario, si tratta di camminare, giorno dopo giorno, in una comunione con l’Altissimo capace di renderci veramente e visibilmente suoi figli: <Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste> (Mt 5, 48). Potremmo chiudere il cerchio di questa parola conclusiva del discorso della Montagna annodandolo alle prime parole pronunciate dal Signore Gesù e così verrebbe fuori un’esortazione che potrebbe suonare così: <Siate beati come è beato il Padre vostro che è nei cieli>! Si tratta di una beatitudine che passa attraverso la disposizione ad essere capaci di andare oltre ogni barriera relazionale, sperando contro ogni evidenza e capaci di offrire un perdono che, prima di liberare l’altro, libera il nostro stesso cuore da legami ammalati e ammalanti.

La parola del Signore Gesù ci potrà sembrare forse troppo esigente, in realtà è sommamente liberante: <Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete?> (5, 46). Non si tratta qui di una <ricompensa> intesa come premio di consolazione o di riconoscimento, ma di una ricompensa beatificante capace di farci sentire all’altezza della nostra umanità formata ad immagine e somiglianza di Dio. L’Altissimo non trae la propria consistenza e non matura le proprie scelte in modo condizionato dalla risposta o dal risultato, ma in modo libero e in obbedienza al proprio cuore. La parola del Deuteronomio non lascia scampo: <Oggi il Signore, tuo Dio, ti comanda di mettere in pratica queste leggi e queste norme> (Dt 26, 16). Si tratta di essere capaci di azione proprio per imitare il Creatore e Signore della nostra vita che continuamente sostiene la nostra esistenza e non ritrae il suo soffio di creazione che ci permette di vivere, di amare, di scegliere, di desiderare.

Nella fatica del desiderio che è la nostra stessa avventura umana, non possiamo disperdere le forze, ma abbiamo il dovere – per noi e per gli altri – di ottimizzare il flusso della nostra energia senza disperdere il dono che abbiamo ricevuto e di cui siamo responsabili e questo si rende praticabile e possibile ad una condizione: <solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e ascolterai la sua voce> (Dt 26, 17). Amare perfino l’inamabile significa inserire nel mondo una logica più potente e più efficace di ogni sospetto e di ogni male. All’equilibrio contabile di un amore da “bancomat”, il Signore Gesù oppone il disequilibrio del dare, del pregare, del porgere, del benedire, del prestare, del fare per primi e solo per fedeltà a quell’immagine che portiamo dentro di noi e che ci forma da dentro tanto da non lasciarci deformare da ciò che avviene fuori di noi. Tutto questo nell’<oggi> concreto delle esigenze del presente dell’amore assoluto e incarnato che trova il suo fondamento e le proprie ragioni solo nel cuore.

Convertire… in riflessione

I settimana T.Q.

Nella liturgia della parola di oggi sembra proprio che il Signore inviti ciascuno di noi ad un “sacrificio” del tutto particolare: il “sacrificium intellectus”. Non si tratta di rinunciare a pensare con la propria testa, ma a pensare di più che con la testa: convertire in ri-flessione tutte le nostre idee preconcette e i nostri chiodi fissi. Il profeta Ezechiele, nella prima lettura, si mette dalla parte di Dio e ne considera l’atteggiamento benevolo verso chi è in grado di cambiare e di passare dal male al bene: <Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà> (Ez 18, 28). Lo sguardo del profeta sull’uomo è come totalmente conquistato da questa innata capacità di riflessione che riflette la divina capacità di Dio stesso di ri-flettere e di cambiare.

Questa riflessione – ri/flessione – non è altro che la capacità propriamente divino-umana di uscire dalla propria rigidità per piegarsi – flettersi – sul reale con la dolce grazia e, al contempo, rigorosa esattezza di uno specchio. Lo specchio che permette di riflettere il reale permettendo di riflettere sul reale è uno strumento di orientamento – ad esempio nella navigazione per tenere sott’occhio le stelle – e la riflessione è ciò che può dare e rettificare l’orientamento degli atteggiamenti: <Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione> (Mt 5, 25).

Il Signore Gesù, con il realismo proprio dell’evangelo, non si scandalizza di nulla e riconosce la possibilità che l’uomo arrivi ad <uccidere> (Mt 5, 21), ad insultare l’altro chiamandolo <stupido> (Mt 5, 22). Così pure contempla la possibilità di accostarsi all’altare di Dio avendo non solo un dono per Dio ma anche <qualcosa contro> (Mt 5, 23) il fratello. Al Signore Gesù non sfugge nemmeno la possibilità – da Lui stesso sperimentata in prima persona – di avere un <avversario> (Mt 5, 25). Tutto questo – sembra dirci il Signore – è possibile e non c’è da meravigliarsi che accada. Fa parte del concreto e del quotidiano in ogni tempo e per ogni persona ma tutto questo può portare ad una rigidità inflessibile oppure ad una rinnovata e approfondita volontà di riflettere. Ogni inimicizia, infatti, è il frutto di un profondo – talora profondissimo – baratro di incomprensione! Ogni <avversario> (Mt 5, 25) è una creatura della chiusura su se stessi che non rende possibile – talora nostro malgrado – di rendere l’ad-versario un con-versario. Come, infatti, dimenticare che i nemici sono solo degli amici mancati e verso cui l’unico sentimento che non riusciamo a nutrire è proprio l’indifferenza?

Il Signore Gesù ci vuole oggi mettere in guardia dal risultato tremendo a cui l’incapacità di cambiare direzione per mancanza di riflessione può infine portare: <egli morirà> (Ez 18, 25). Il vero pericolo della nostra vita rischia di non essere quello di <uccidere> (Mt 5, 21) ma quello altrettanto grave del suicidio. Ogni volta che ci separiamo dal fratello non facciamo che condannare noi stessi ad una solitudine mortifera. Forse se Caino avesse riflettuto sul suo stato d’animo e prima di presentarsi <davanti all’altare> (Mt 5, 23) di Dio si fosse presentato a suo fratello Abele per riconciliarsi con lui accettando semplicemente la sua esistenza… la storia dell’umanità sarebbe stata e sarebbe ancora diversa. Ora tocca a noi di invertire la rotta della storia. Cominciamo a riflettere, nella nostra vita, la strada tracciata tra le stelle attraverso lo specchio ben pulito del nostro cuore.

Convertire… in più

I settimana T.Q.

Il Signore Gesù ci chiede una conversione del cuore che tocca le profondità della nostra intelligenza. Il santo viaggio che stiamo interiormente vivendo per camminare e salire verso la Pasqua del Signore ci chiede di elevare sempre di più i criteri di discernimento su cui rinnovare continuamente la nostra vita. L’invito del Signore Gesù è una spinta a lasciarci sempre più formare dal nostro incontro con lo sguardo trasformante del Padre in cui ritroviamo la nostra più vera identità: <Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono> (Mt 7, 11). Il salmista mette sulla nostra bocca la parola più adatta per ringraziare e per prendere coscienza di questo continuo flusso di grazia che anima e assicura il flusso di vita che da Dio, continuamente, ci viene donato per continuare a camminare in quello che potremmo definire il processo di recupero della nostra somiglianza filiale: <Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza> (Sal 137, 3).

L’atteggiamento e le parole con cui Ester1 si rivolge al Signore suo Dio per impetrare la sua misericordia a favore del popolo minacciato di morte ci aiutano ad imparare l’alfabeto della preghiera senza il quale non possiamo scrivere una pagina di vita in cui si possa leggere un tratto di quella storia di misericordia e di amore che segna e sostiene lo stesso mistero della vita. Ester prima di tutto <si prostrò a terra con le sue ancelle da mattina a sera> (Est 4, 17p) e solo poi gridò al Signore <Vieni in soccorso…> (4, 17gg). Potremmo definire questo momento come il “Getsemani” di Ester la quale – per tre giorni – deve gestire e attraversare, consapevolmente e integralmente, la sua <angoscia>. Il testo greco esplicita in modo psicologico l’angoscia della regina, mentre la tradizione ebraica ne affida l’evocazione al segno eloquente del digiuno, la cui cifra si può solo dedurre per contrasto da ciò che avviene dopo: <quando ebbe finito di pregare, ella si tolse gli abiti servili e si rivesti di quelli sontuosi>.

La preghiera di Ester – nel testo ebraico – fa tutt’uno con il suo corpo e non ha bisogno di essere esplicitata ulteriormente. Ester sembra aver appreso in modo raffinato, alla scuola di Egai, a usare la grammatica del suo corpo come un vero e proprio mezzo di comunicazione con la propria interiorità e con il mondo circostante usandone i vari linguaggi e miscelando sapientemente le diverse tonalità. Nei suoi gesti, che il testo greco esplicita in modo accurato, la regina Ester mostra di avere piena consapevolezza di non accordare a se stessa un valore speciale tanto da rischiare la sua vita senza neanche sentire di avere, per questo, un particolare merito. La domanda del Signore Gesù e il suo camminare deciso verso la consumazione della sua Pasqua ci interrogano e ci atterrano: <Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?> (Mt 7, 9).

Per avere il coraggio di una preghiera audace bisogna imitare Ester che trova la forza e lo stile della sua preghiera <dai libri dei miei antenati> (4, 17aa). Ester cerca le parole e i modi della preghiera, non è una temeraria, ma è una donna in ricerca, in cammino, in ascolto… una donna che sa tendere la mano della sua povertà fino a lasciarla riempire da Dio con una misura traboccante di passione e di compassione di cui si fa canale per tutti.


1. Fratel MichaelDavide, La parabola di Ester. Con il male si scherza, San Paolo 2014.

Convertire… annunciare

I settimana T.Q.

La parola che il Signore rivolge a Giona diventa un monito per ciascuno di noi: <Alzati, va’ a Ninive, la grande città e annuncia loro quanto ti dico…> (Gio 3, 2). Non bisogna dimenticare che il profeta si mette in cammino verso Ninive dopo aver fatto di tutto per andarsene il più lontano possibile dalla missione che gli veniva affidata. Forse dobbiamo sostare un poco sulla resistenza di Giona a farsi latore di un invito alla conversione che da parte dell’Altissimo è sincero: il Signore pensa veramente che gli abitanti di Ninive si potranno convertire. Questo indispettisce, dall’inizio alla fine del suo percorso resistente all’idea della misericordia, il povero Giona che dovrà dapprima essere inghiottito da una balena e poi vedersi avvizzire la <pianta di ricino> che le faceva non solo ombra ma persino compagnia in quel suo altezzoso tenersi in disparte da tutti con un senso di superiorità e di fastidio. È difficile per Giona digerire la misericordia come atteggiamento e come stile divino che, naturalmente, gli richiede una conversione del suo stesso stile di vita alla misericordia.

Se seguiamo con attenzione il percorso personale di Giona ci rendiamo conto che, in realtà, quest’uomo più che annunciare qualcosa diventa egli stesso annuncio di un’esperienza possibile di fuga e di ritorno: è quella che ogni uomo e ogni donna vive nel suo dramma di relazione con Dio. Per questo il Signore Gesù reagisce in modo aspro alla richiesta di un <segno> (Lc 11, 29) e in questo modo richiama l’attenzione su se stesso come <segno> da saper accogliere in qualità di annuncio e opportunità di conversione. La conclusione ci interpella severamente: <Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona> (11, 32).

La domanda si pone: “In che misura e perché Gesù è più grande di Giona?”. Le risposte possono essere molte e diverse ma ci piace pensare che il Signore Gesù, quale Verbo eterno del Padre venuto a vivere in mezzo a noi come noi, abbia fatto molta più strada di Giona per venirci incontro e di questo talora noi rischiamo di non essere consapevoli. Inoltre, siamo noi, non solo gli abitanti della Ninive infedele del nostro cuore, ma siamo pure apostoli mandati ad annunciare alle “Ninive” dei nostri giorni che il Signore non solo chiede, ma crede nella conversione di tutti e di ciascuno. Pertanto, questo annuncio non è efficace se viene mediato da semplici banditori disincantati, ma esige dei testimoni appassionati. Mentre Giona s’imbarca a Tarsis per non essere complice della misericordia di un Dio troppo buono e per questo alquanto scomodo, il Signore Gesù, si dirige decisamente a Gerusalemme e assume il dolore di appassire sulla croce pur di rivelare come l’amore può tutto e spera tutto. Invece di farsi inghiottire e sputare dalla balena, il Cristo sale sulla croce che diventa l’amo cui il serpente antico abbocca fino ad esserne vinto. Ora tocca a noi di scegliere se fuggire dalla misericordia e immergerci nello stile divino dell’amore fino a lasciarci interamente purificare e cambiare dalla speranza del Padre per tutti i suoi figli che dovrebbe diventare la nostra speranza fraterna: si può sempre cambiare… in meglio!

Convertire… lo spreco

I settimana T.Q.

Vogliamo introdurci nella meditazione dei testi che la Liturgia ci propone per questa ulteriore tappa del nostro cammino quaresimale riprendendo un testo di papa Francesco: <Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal mondo che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”>1. Il Signore ci mette in guardia da un rischio sempre in agguato quando ci mettiamo in atteggiamento di preghiera: <non sprecate parole come i pagani> (Mt 6, 7). Eppure, non basta evitare lo spreco delle parole se la preghiera non forma nei discepoli uno stile in cui la sobrietà si accompagna in modo del tutto naturale e necessario alla solidarietà.

Per questo siamo invitati a ritmare la preghiera prima di tutto con l’invocazione: <Padre nostro…> (6, 9) fino a farci voce di ogni fratello e sorella in umanità che si volge verso il suo Creatore sperando e chiedendo ogni giorno quello che viene definito e invocato come <il nostro pane quotidiano> (6, 11). L’attenzione a non sprecare parole diventa preoccupazione di non sprecare nulla per condividerlo con tutti. Questa condivisione deve avvenire non in forma di semplice elemosina, ma come segno di una coscienza di appartenere tutti alla stessa terra e di dover condividere ogni dono con tutti perché è stato creato per tutti e donato per il bene e la felicità di ciascuno. La preghiera del Signore rappresenta per ogni discepolo la sfida quotidiana di una conversione in cui il posto di Dio nella propria vita è continuamente verificato dallo spazio che sappiamo dare agli altri fino a mettere la nostra vita a loro servizio.

Anzi, la preghiera del Signore ci porta ancora più lontano quando ci fa dire: <rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori> (6, 12). Il fatto che questo passaggio della preghiera sia così essenziale è confermato dal fatto che il tema è ripreso come conclusione e quasi come sigillo autenticante di ogni preghiera che sia riconoscibile come propria dei discepoli di Cristo: <Se voi infatti perdonerete agli altri…> (6, 14). Così il perdono diventa la condizione necessaria alla preghiera e la garanzia che essa faccia la stessa strada – al contrario – della Parola di Dio. Solo così la preghiera potrà salire al cielo in modo efficace e fecondo così che <dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia> (Is 55, 10). Di fatto alla <pentola di fagioli> della ripetizione di formule di preghiera si oppone un atteggiamento di umile ascolto che si fa sensibilità verso i nostri bisogni di cui possiamo serenamente parlare a Dio, ma anche dei bisogni degli altri, primo fra tutti quello di essere perdonati… un modo per dire essere accettati per quello che si è in realtà e nonostante tutte le proprie buone intenzioni e i propri sforzi.

Così la preghiera crea un mondo stupendo in cui ci si può parlare e ci si può ascoltare: questo è il miracolo della preghiera che fa tutt’uno con il miracolo dell’amore.


1. PAPA FRANCESCO, Evangelii gaudium, 53.

Convertire… lo sguardo

I settimana T.Q.

Forse non riflettiamo mai abbastanza su quanto sia importante nella nostra vita quotidiana lo sguardo. Per comprendere meglio questo dovremmo dialogare con una persona ipovedente al fine di comprendere quanto sia importante quello che vediamo continuamente non solo durante le nostre ricche giornate, ma persino di notte mentre sogniamo. Il Signore Gesù, con la parabola che leggiamo nella liturgia, ci chiede di mettere sotto esame il nostro modo di guadare verso gli altri chiedendoci non solo di andare oltre le apparenze, ma, ancor più profondamente, di essere in grado di vedere oltre ciò che si vede e ancora più oltre ciò che l’altro ci mostra di se stesso. Naturalmente questo vale anche per noi stessi nei riguardi degli altri. La parola del Levitico è un invito forte a mettere tutta la nostra esistenza in cammino verso la santità: <Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo> (Lv 19, 2). Nella prima lettura troviamo che le conseguenze di questo impegno a farsi imitatori di Dio tocca la vita in tutti i suoi aspetti, ma soprattutto per quanto riguarda il nostro modo di entrare in relazione con gli altri: <né metterai inciampo davanti al cieco> (19, 14).

Il Signore Gesù rende questo atteggiamento di attenzione, di sensibilità nei confronti di chi è più povero e bisognoso ancora più radicale e lo fa assolutizzando – fino alle sue estreme conseguenze – il regime dell’incarnazione che diventa così uno stile esigente e irrinunciabile di relazione: <In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me> (Mt 25, 40). Questa identificazione tra il Cristo e il piccolo che incontriamo sulla nostra strada, rende le cose più difficili, ma anche più belle. L’amore, con le sue esigenze di attenzione e di decisione nella compassione, non è più programmabile o limitabile alle nostre previsioni, ma è una continua sorpresa che esige la capacità di lasciarsi sorprendere fino a farci radicalmente scomodare da tutte quelle abitudini e atteggiamenti con cui abbiamo, giorno dopo giorno, messo al sicuro la nostra vita dalla prova della verità nell’attenzione a ciò che è più debole e più piccolo.

La parola di accoglienza e di riconoscimento da parte del re più che un premio suona come una constatazione soddisfatta del Maestro che riconosce nei suoi discepoli un cammino veramente compiuto proprio quando sono diventati più sensibili al mistero dell’altro, soprattutto quando non può imporsi in nessun modo: <Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo> (25, 34). La parola con cui l’Altissimo dice <Io sono il Signore> diventa la porta e lo stampo perché noi possiamo, in verità, dire davanti a Lui: “Io sono l’uomo” che tu hai creato.

L’ultima parola della prima lettura <ama il prossimo tuo come te stesso> diventa per il Vangelo ancora più radicale tanto da poter risuonare quasi come <amalo più di te stesso>. In ogni modo sembra che l’unico peccato imperdonabile sarà la cecità nei confronti del fratello quando la vita lo rende <piccolo>. Questo è il primo passo per accogliere la totalità di noi stessi quando siamo obbligati ad accogliere ciò che in noi è più povero e più fragile accettando che lo sguardo degli altri si posi su di noi con amore e autentica compassione.

Convertire… in credo

I Domenica T.Q. 

Ancora una volta la Chiesa con il suo ritmo liturgico ci chiede di riprendere la strada del deserto. Come spiega un monaco benedettino contemporaneo: <Il deserto verso cui lo Spirito sospinge Gesù non ha un nome particolare, non corrisponde comunque a un luogo geografico, è il deserto e basta, vale a dire l’interno di noi stessi. Questo luogo interiore che è una parte anatomica dell’uomo spirituale e che molti ignorano per paura, o per mancanza di esercizio. Perché questa parta della nostra umanità ha di speciale il fatto che si atrofizza se non ci si occupa di essa e, invece, diventa immensa nella misura in cui la si abita>1. Il primo modo per tenere in esercizio il contatto con la nostra interiorità e così poter affrontare ogni giorno il nostro esodo interiore è quello di essere capaci di fare memoria. Stranamente e provvidenzialmente, la Quaresima comincia quest’anno non con la pianificazione delle nostre prestazioni ascetiche, bensì con un grande gesto di gratitudine frutto di una sana e viva memoria del dono di salvezza che abbiamo ricevuto: <Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio…> (Dt 26, 4).

Il primo passo del nostro cammino quaresimale è una sorta di raccolta e di concentrazione sulla memoria di ciò che il Signore ha fatto per noi. La nostra risposta di fede nasce da una coscienza che sta a fondamento della nostra fede: Dio <ascoltò…vide… fece> (26, 7). Si tratta non più di credere in una forza oscura né di un’energia luminosa ma in un Dio che si è totalmente investito con tutta la sua persona che si rivela in relazione alla nostra umanità quasi fisicamente: orecchio, occhio, mano: <Ci condusse in un luogo e ci diede questa terra, dove scorre latte e miele> (26, 9). L’apostolo Paolo ci ricorda con forza che non siamo chiamati a vagare, ma siamo chiamati a scendere dentro il nostro cuore poiché <Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore> (Rm 10, 8).

Le citazioni delle Scritture da parte del Signore Gesù non sono un invito a bacchettare il mondo a forza di riferimenti biblici, ma sono il segno di una sensibilità forgiata alla scuola della Parola per ascoltare la realtà e non lasciarsi mai tentare dalle vie e dai modi più facili. Mentre il tentatore cerca di isolare alcuni elementi della vita assolutizzandoli – pane, potere, prestigio – il Signore Gesù non perde mail il contatto con la totalità della vita che va sempre vissuta in relazione a Dio attraverso una docile capacità di leggere la vita più che immaginarla: <Sta scritto…> (Lc 4, 4). Il Signore Gesù si fa modello per noi del modo di abitare il nostro quotidiano deserto interiore con coraggio e una grande dose di semplicità che permette di attraversare la tentazione senza scomporsi e senza troppo impressionarsi. Nella vita di fede il<come> è importante tanto quando il <perché> e il <che cosa>, e questo discernimento di “modalità” siamo chiamati a farlo nelle profondità del nostro cuore. Dunque, come esorta lo stesso monaco citato sopra: <Prendiamo la Quaresima dalla parte migliore, dalla parte dello Spirito Santo>.


1. F. CASSINGENA-TREVEDY, Sermons aux oiseaux, Ad Solem, Genève 2009, pp. 86-87.