Il tuo nome è Comunione, alleluia!

Ss. Filippo e Giacomo –

Le preghiere che la Liturgia dell’Eucaristia di questo giorno fa pronunciare al presidente, a nome di tutto il popolo, tracciano un itinerario di fede con tutte le sue esigenze e i suoi necessari passaggi. La Colletta unisce all’esultazione, a motivo della possibilità che ci viene data di festeggiare due apostoli, la necessaria supplica: <concedi al tuo popolo di comunicare al mistero della morte e risurrezione del tuo unico Figlio, per contemplare in eterno la gloria del tuo volto>. In forma di preghiera si riprende – potremmo dire in forma riveduta e corretta – la supplica di Filippo rettificata dalla risposta del Signore Gesù: <Signore, mostraci il Padre e ci basta>. La reazione del Maestro sembra ancora scuotere il cuore dei credenti di oggi come quello dei discepoli un tempo: <Chi ha visto me, ha visto il Padre> (Gv 14, 8-9). In altre parole, il Signore ci chiede di rinunciare alla visione per accontentarci – per così dire – di vedere solo attraverso l’amore, tanto da desiderare ed essere capaci di avere occhi per l’amore: <Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?> (14, 10).

Questa parola così nitida del Signore Gesù è il riassunto di tutto ciò che è sotteso a ciò che viene altrettanto solennemente evocato dall’apostolo Paolo: <Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato> (1Cor 15, 1-2). Il Vangelo che salva è la capacità di assumere fino in fondo la sfida dell’incarnazione che, se si basa sullo svuotamento del Verbo e sui suoi abbassamenti, comporta anche la nostra rinuncia a tutto ciò che non passa attraverso il limite e la fragilità della nostra realtà personale e relazionale. Per questo la preghiera si fa ancora più forte al momento dell’Offertorio: <concedi anche a noi di servirti con una religione pura e senza macchia>. Ad un orecchio allenato alle Scritture il riferimento a Giacomo è evidente, ma vale la pena esplicitarlo con le stesse parole con cui l’apostolo Giacomo caratterizza la <religione pura e senza macchia> con queste precise parole: <soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni> (Gc 1, 27).

La risposta data da Gesù a Filippo porta le sue estreme conseguenze nelle parole di Giacomo: se bisogna accettare di vedere il volto del Padre in quello di Gesù, bisogna andare ancora più lontano fino ad accontentarsi di vedere il volto di Gesù in quello dei fratelli e delle sorelle in cui lo splendore della luce divina rischia di essere offuscato dalla fragilità e dalla precarietà. Allora la preghiera dopo la comunione assume tutta la sua profondità rivolgendosi, con audacia, direttamente al Padre: <ci purifichi e ci rinnovi perché, in unione con gli apostoli Filippo e Giacomo, possiamo contemplare te nel Cristo tuo Figlio e possedere il regno dei cieli>. Amen!

Il tuo nome è Piano, alleluia!

II Settimana di Pasqua –

Dopo una nervosa discussione nel Sinedrio per mettere a tacere gli apostoli, il lungo intervento di Gamaliele sortisce l’effetto di attenersi al suo saggio <parere> (At 5, 39). Questo saggio maestro ebbe il privilegio di educare l’ardente Saulo seminando nel suo cuore non solo la radicalità della devozione secondo la tradizione dei padri, ma pure una segreta apertura da cui è passato il lievito del Vangelo di Cristo che ha reso il suo insegnamento un nutrimento sostanzioso per generazioni di credenti. La saggezza di Gamaliele nasce da un cuore capace di leggere con onestà e lealtà la realtà senza illudersi di poter piegare il corso della storia alle proprie visioni né tantomeno di dirigerlo attraverso le proprie paure: <Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana verrebbe distrutta; ma se viene da Dio non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!> (5, 38-39). Gamaliele è un uomo <stimato da tutto il popolo> (5, 34) che oggi diremmo essere un vero pastore che non approfitta della sua posizione, ma rimane un autentico discepolo che si lascia interrogare dalla storia e si lascia sorprendere dal <piano> di Dio che raramente segue i nostri tempi e i nostri modi. Gamaliele è un rabbino che non è caduto nella trappola del “clericalismo” che, come ebbe a dire papa Francesco all’inizio del suo ministero, rischia di essere <untuoso e presuntuoso>1.

Il Signore Gesù, della cui parola e dei cui gesti gli apostoli si fanno continuazione e attuazione nella storia, potremmo dire essere della “scuola di Gamaliele”. Il lungo capitolo sesto di Giovanni in cui il Cristo definisce se stesso come <pane> comincia con una nota e con una domanda. La prima nota riguarda il suo sguardo che si rivela attento e decentrato da se stesso: <vide che una grande folla veniva da lui> (Gv 6, 5). Questo sguardo di attenzione che i sinottici identificano con la <compassione> (Mc 6, 34) si fa interrogazione: <Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?> (Gv 6, 5). Questo duplice movimento di constatazione e di interrogazione è l’anima stessa della vita della Chiesa fondata sulla logica eucaristica che il Signore ci propone in questo capitolo giovanneo che leggiamo ogni anno durante il tempo pasquale. La comunità dei discepoli del Signore vive la sua relazione con il Maestro come un luogo di passaggio della compassione che va da Cristo a tutti coloro che hanno bisogno di attenzione e di cura. Ogni giorno la Chiesa è chiamata a rinascere attraverso la celebrazione dell’Eucaristia a questa sua vocazione fondamentale e fondante che dal sacramento continuamente passa all’esistenza di tutti.

Vi è una terza nota che non va sottovalutata per evitare che l’Eucaristia perda il suo senso più profondo: <Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo> (Gv 6, 15). Non c’è nessuna possibilità di guadagno, ma solo di perdita. Non sarà mai “re” come si aspetta la gente… come noi stessi ci aspetteremmo e desidereremmo (1Sam 8, 20). Quel <ragazzo> (Gv 6, 9) di cui Andrea parla al Signore Gesù è l’unico che si trova già nel piano di Dio e che invece di esprimere un <parere> (At 5, 39) compie un gesto che crea uno stile… lo stile eucaristico, lo stile evangelico.


1. Messa Crismale del 2014

Il tuo nome è Veritiero, alleluia!

II Settimana di Pasqua –

Nel dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo risplende una luce particolare attraverso una parola che non solo ci interroga, come l’intero discorso fatto dal Signore al suo interlocutore, ma pure ci chiede di aprire gli occhi su un modo di essere di Dio che forma il nostro stesso modo di pensare e di agire. Di tutto ciò si fa interprete lo stesso Giovanni Battista che sembra continuare e confermare quanto il Signore ha appena annunciato a Nicodemo: <Chi ne accetta la testimonianza, conferma che Dio è veritiero> (Gv 3, 33). Potremmo dire che il fondamento della verità divina è ciò che viene detto solennemente subito dopo: <Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa> (3, 35). Si tratta non di una verità dogmatica, ma di una verità di relazione che si attua in un dono continuo e assoluto che diventa il fondamento stesso di ogni obbedienza che sia secondo il Vangelo. Alla luce di questa rivelazione della stessa vita intima di Dio possiamo comprendere il senso profondo della reazione degli apostoli alle ingiunzioni del Sinedrio: <Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini> (At 5, 29). Questa parola degli Apostoli potrebbe essere intesa così: “Bisogna obbedire come Dio!”.

Se contempliamo in modo attento il mistero della vita intima di Dio ci rendiamo conto che a presiedere la vita divina è un gioco infinito di dono: <Colui infatti che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura egli dà lo Spirito> (Gv 3, 34). A questa logica di comunicazione non solo continua, ma pure assoluta, si oppone l’ingiunzione e la lamentela del Sinedrio: <Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo> (At 5, 29). In questo l’atteggiamento del Sinedrio non è affatto <veritiero> (Gv 3, 33) perché si sottrae al confronto leale e aperto con la storia preferendo la via dell’oblio e dell’occultamento. Diverso è il cammino di testimonianza dei discepoli del Risorto chiamati continuamente a lasciarsi rischiarare dalla luce di una relazione che “fa verità” nella e sulla propria vita e per questo è capace di ordinare ogni cosa e ogni relazione perché sia manifestazione ed espressione di una relazione più profonda ed essenziale.

La verità non è un concetto astratto che rischia di diventare persino un’arma contro gli altri, ma è un atteggiamento di obbedienza alla vita che ha bisogno di una crescente e sempre più matura capacità di mettersi in ascolto con ambedue le orecchie del cuore e dell’anima: una tesa verso l’altro della relazione con Dio e l’altra ricettiva di tutto ciò che ci raggiunge e ci interpella attraverso le esigenze dei nostri compagni di cammino. La <conversione e perdono dei peccati> (At 3, 31) si invera in un atteggiamento di ascolto e di obbedienza non servile, ma creativo e inventivo che non può certo entusiasmare quanti fondano le loro relazioni di potere sulla paura: <All’udire queste cose essi si infuriarono e volevano metterli a morte> (3, 33).

Il tuo nome è Uscire, alleluia!

II Settimana di Pasqua –

Nel parlare comune quando vogliamo indicare fine di una pensa diciamo che una persona è uscita dal carcere! La liturgia della Parola si apre con questa immagine riguardante gli apostoli: <Ma durante la notte, un angelo del Signore aprì le porte del carcere, li condusse fuori e disse: “Andare e proclamate…”> (At 5, 19). La vita della Chiesa, la testimonianza dei discepoli del Risorto è costantemente in “uscita” e non c’è nessun tipo di impedimento che possa imprigionare la libertà che viene dal Vangelo e la necessità che l’annuncio di salvezza venga donato a tutti. Eppure, non bisogna dimenticare che ogni movimento di uscita dei discepoli radica nel mistero stesso di Cristo Signore che di sé ha questa chiara consapevolezza: <Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna> (Gv 3, 16). Questo dono si offre come la <luce> (3, 21) con una naturalezza e dolcezza che non ha nulla di costrittivo e di impositivo. La figura di Nicodemo che <di notte> è andato a trovare il Signore diventa per noi uno specchio per fare il punto del nostro cammino di rinascita nelle acque battesimali del Vangelo. In queste acque, ogni giorno, siamo invitati a immergere la nostra vita per conformarla a quella di Cristo Signore che sembra voler ricordare quanto sia completamente nuovo il modo di intendere la propria relazione con l’Altissimo: <Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui> (3, 17). 

La parola della croce e della risurrezione del Signore Gesù scardina quel sistema di cui Nicodemo fa parte e da cui sente il profondo bisogno di uscire per respirare a pieni polmoni l’esperienza della grazia. Possiamo ben comprendere l’irritazione del <sommo sacerdote con tutti quelli della sua parte, cioè la setta dei sadducei, pieni di gelosia> (At 5, 17) che cercano in tutti i modi di imprigionare gli apostoli per non essere costretti a fare un cammino di conversione nel senso di una libertà da condividere con tutti. Per i notabili del popolo non è sopportabile tanta libertà, tanta speranza… in una parola: così tanta vita: <Ecco, gli uomini che avete messo in carcere si trovano nel tempio a insegnare al popolo> (5, 25).

Non è raro che imprigioniamo la Parola oppure accettiamo, per paura o per superficialità, che essa non sia sufficientemente libera. Ogni giorno siamo chiamati a uscire dalle prigioni delle nostre paure e dei nostri comodi per liberare la Parola e permetterle di compiere la sua corsa liberatrice a favore di tutti. Il mistero della Pasqua è un mistero quotidiano in cui siamo chiamati a compiere l’esodo dal nostro Egitto interiore alla libertà e bellezza del Tempio di Dio in cui possiamo e vogliamo annunciare la sua Parola di libertà e di gioia. L’unico <giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce> (Gv 3, 19).

Immersa

Santa Caterina da Siena

La vita di Caterina da Siena così legata alle alterne e, talora, così inquiete vicende del suo tempo è immersa – continuamente e quietamente – nella stessa vita di Dio. Sin da giovane, il sogno di Caterina fu quello di farsi una <piccola cella interiore nel suo cuore>. Proprio per la sua continua cura dell’interiorità, questa donna assomiglia così tanto a quei <piccoli vasi> (Mt 25, 4) di cui sono provviste le vergini sapienti. Si potrebbe dire che Caterina è un piccolo vaso che ha saputo raccogliere, custodire e distribuire l’olio dello Spirito di Cristo. Proprio a partire da questa capacità di interiorità si spiega e si dispiega tutto l’agire e l’intervenire così risoluto e deciso di Caterina, la quale non teme di rivolgersi al papa con un’autorevolezza magnifica. In un’epoca come la nostra in cui siamo tentati di cedere o all’eccessivo attivismo oppure ad un comodo quietismo, Caterina ci indica la strada maestra dell’immersione contemplativa nel mistero di Dio che <è luce e in lui non ci sono tenebre> (1Gv 1, 5).

Da questa serena e vitale immersione nasce ogni azione che ha come fonte e fine niente altro se non la vera <comunione con lui> (1, 6). Solo questa profonda comunione cercata e coltivata permette di trovarsi all’interno e non all’esterno della vita stessa di Dio. Il vangelo ci fa sentire con un certo timore il rumore che attraversa i cuori quando <la porta fu chiusa> (Mt 25, 10). In quel momento è necessario ed è bello trovarsi dentro e mai fuori per dedicarsi alla conversazione interiore che crea le condizioni della personale conversione. Solo una conversione profonda può essere la premessa più sicura e promettente di ogni cambiamento e miglioramento esteriore. Quando – ventenne – Caterina ricevette l’anello invisibile che la rendeva sposa di Cristo pensò che questo dovesse comportare una maggiore separazione, mentre il Signore le fece intendere che voleva stringerla a sé <mediante la carità del prossimo>, cioè mediante la mistica della contemplazione come fonte di un dinamico amore sempre più audace. Come spiega Giovanni Paolo II: <L’impulso del maestro divino svelò in lei come un’umanità di accrescimento>1.

Possiamo chiedere alla patrona d’Italia e copatrona della nostra vecchia giovane Europa, proprio il dono di un accrescimento di umanità attraverso l’amore di Cristo e dei fratelli. Che non ci capiti, proprio per mancanza di umanità, di sentirci dire dall’interno della casa in festa per la ritrovata intimità con lo Sposo: <In verità vi dico: non vi conosco> (Mt 25, 12). E nel medesimo capitolo del vangelo di Matteo la conoscenza di Cristo come Signore della nostra vita è legata alla capacità – quasi irriflessa – di riconoscerlo e di servirlo nei <fratelli più piccoli> (25, 45). Per questo un’altra cosa possiamo chiedere per il nostro Paese e per i popoli della nostra Europa: avere occhi e cuore per quei <fratelli più piccoli> che bussano alla porta delle nostre nazioni per condividere la nostra vita e per crescere con noi verso un accrescimento di umanità. Sapremo così accogliere chiunque portando in mano e nel cuore quel ramoscello di ulivo con cui Caterina sfidò gli odi e le chiusure del suo tempo non escluse quelle della Chiesa dei suoi giorni. Non ci resta che invocare dal profondo del nostro cuore: Santa Caterina prega per noi!


1. GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica per il VI° centenario del transito di santa Caterina da Siena, 29 aprile 1980.

Il tuo nome è Libertà, alleluia!

II Settimana di Pasqua –

Dopo l’intensa esperienza della Settimana Santa e dell’Ottava di Pasqua continuiamo a vivere la letizia pasquale in modo non meno intenso, ma, di certo, più raccolto e intimo. Il cammino verso la Pentecoste sarà per ciascuno di noi una sorta di immersione interiore nel mistero pasquale di Cristo per coglierne il senso più profondo che tocca la nostra vita nelle pieghe più segrete e la irradia della luce che viene dalla risurrezione. La prima lettura si apre con una nota che non possiamo assolutamente sottovalutare: <rimessi in libertà, Pietro e Giovanni…> (At 4, 23). La lettura degli Atti degli Apostoli più volte – dall’inizio fino alle catene di Paolo con cui il libro si conclude – ci mette di fronte al dramma della libertà in un duplice aspetto. La libertà dalle costrizioni e dalle persecuzioni esterne che fanno da sfondo a quel cammino interiore di liberazione e di vera libertà e segnano il cammino della Chiesa nascente diventando un dono per tutti. Ma essere liberi non è cosa facile!

La figura di Nicodemo ogni anno sembra prenderci per mano, per passare dalle apparizioni del Risorto che segnano e rallegrano l’Ottava di Pasqua, ad un incontro personale con le esigenze della risurrezione che esige un vero cambiamento di vita. Se la prima lettura si apre con l’evocazione della <libertà>, il Vangelo contestualizza l’incontro tra Nicodemo e Gesù <di notte> (Gv 3, 2). Portiamo ancora nel cuore i racconti della Passione del Signore come pure quelli della risurrezione. Non possiamo certo dimenticare né la gioia che squarcia la notte del mattino di Pasqua con l’esultanza per la risurrezione del Signore, ma non possiamo neppure dimenticare quella <notte> (13,30) in cui il traditore sembra sprofondare come inghiottito dalla propria cecità e insensibilità all’amore del Signore. Eppure, non possiamo neppur dimenticare che uomini buoni e giusti come Giuseppe e Nicodemo presiedono alla sepoltura del Signore e preparano con i loro aromi i profumi della risurrezione. La celebrazione del mistero pasquale diventa così invito esistenziale ad entrare personalmente nel mistero pasquale: <In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio> (3, 3).

I giorni che ci separano e ci preparano alla Pentecoste sono per ciascuno di noi una rinnovata possibilità di rinascere <dallo Spirito> (3, 6). Come gli apostoli alle prese con le primizie del loro ministero anche noi siamo chiamati a vivere quotidianamente una sorta di piccola Pentecoste che ci permetta ogni giorno di rimetterci in cammino verso il nostro cuore da cui siamo chiamati a raggiungere tutti i nostri fratelli e sorelle in umanità portando loro – come fece Maria salendo alla casa di Elisabetta – i doni pasquali: <Quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza> (At 4, 31). La libertà come dono pasquale non è una realtà che ci possa essere donata o tolta dall’esterno, ma è l’esperienza di una liberazione interiore da ogni paura che ci permette di essere fedeli alla novità di vita che sentiamo dentro di noi come una promessa che continuamente ci fa <rinascere> (Gv 3, 4). Il segno è che possiamo dare del “tu” a Dio come fanno gli apostoli nella loro preghiera, senza temere nessun potente di turno senza mai dimenticare che per <rinascere dall’alto> bisogna cominciare dal proprio basso>.

Il tuo nome è insieme, alleluia!

II Domenica di Pasqua –

Il testo degli Atti degli Apostoli ci fa entrare nel mistero di questa seconda domenica di Pasqua e ci permette, al contempo, di concludere l’Ottava, portandoci all’essenziale del dono pasquale di Cristo: <Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli>. Pertanto, il contesto che fa di questi <segni> e di questi <prodigi> un’autentica manifestazione della potenza della risurrezione, perché dal cuore dei discepoli si doni al mondo intero, è il seguente: <Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone> (At 5, 12). La testimonianza più forte ed eloquente della prima comunità cristiana è questa capacità di comunione che crea le possibilità di una reale e autentica comunicazione. Questa realtà è così importante per la vita della Chiesa che il Signore Risorto sembra doversi assicurare che i legami tra suoi discepoli, scossi e dispersi dallo shock della sua Passione, siano convenientemente riannodati e profondamente risanati. Per questo <Otto giorni dopo> quando <i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso> ancora una volta <Venne Gesù…> (Gv 20, 26).

Questo venire di Gesù, nella discreta potenza della sua risurrezione, sembra un modo per rassicurarsi che l’amore, la comunione e la discepolare complicità dei discepoli, non solo si ristabilisca, ma quasi venga rafforzata e approfondita. La conclusione del Vangelo di questa domenica può diventare per noi una sorta di mappa spirituale per verificare l’efficacia del mistero pasquale nella nostra vita: <Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome> (Gv 20, 30-31). Abbiamo bisogno di <stare insieme> (At 5, 12) per poter fare esperienza della visita del Risorto che ci incontra in modo del tutto personale, diventando non solo <mio Signore e mio Dio> (20, 28), ma “mio fratello gemello”, senza il quale la mia vita non esiste come vita di relazione, di condivisione e di amore.

Tommaso si trova a vivere la stessa esperienza che Giovanni vive <nell’isola chiamata Patmos> e che di sé scrive: <vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù> (Ap 1, 9). Non bisogna dimenticare come e quanto, questa fraternità, sia frutto della sua <estasi, nel giorno del Signore> (Ap 1, 10). Il testo della prima lettura si conclude con questa nota: <e tutti venivano guariti> (At 5, 16) e potremmo dire che sempre, il Signore Risorto, viene tra noi perché possiamo essere guariti da ogni nostro bisogno di dissociarci dai fratelli, tentazione in cui si manifesta la nostra più profonda dissociazione interiore. Abbiamo bisogno di <stare insieme> (At 5, 12) perché il Signore Risorto possa ritrovare tra di noi e dentro di noi la sua casa. Forse è di questi <segni> e di questi <prodigi> che abbiamo bisogno… e hanno bisogno i nostri fratelli e sorelle perché possano aprirsi alla risurrezione, non solo di Cristo, ma anche alla propria.

Ton nom est ensemble, alléluia !

II Dimanche de Pâques –

Le texte des Actes des Apôtres nous fait entrer dans le mystère de ce deuxième dimanche de Pâques et nous permet, en même temps de conclure l’Octave, en nous emmenant à l’essentiel du don pascal du Christ : «  beaucoup de signes et de prodiges adviendront dans le peuple par l’oeuvre des apôtres ». Pourtant, le contexte qui fait de ces «  signes » et de ces « prodiges » une authentique manifestation de la puissance de la résurrection, pour qu’ils soient donnés du coeur des disciples au monde entier, est le suivant : «  Ils se tenaient tous, d’un commun accord, sous le portique de Salomon » ( Act 5, 12 ). Le témoignage le plus fort et le plus éloquent de la première communauté chrétienne est cette capacité de communion qui crée la possibilité d’une réelle et authentique communication. Cette réalité est si importante pour la vie de l’Église, que le Seigneur Ressuscité semble devoir s’assurer que les liens entre ses disciples, secoués et dispersés par le choc de sa Passion, soient renoués et profondément assainis. Pour cela «  Huit jours plus tard » lorsque «  les disciples étaient à nouveau à la maison avec Thomas » «  Jésus vint… » encore une fois  ( Jn 20, 26 ).

Cette arrivée de Jésus, dans la puissance discrète de la résurrection, semble une manière de se rassurer que l’amour, la communion et la complicité des disciples, non seulement soit rétablie, mais aussi renforcée et approfondie. La conclusion de l’Evangile de ce dimanche peut devenir pour nous une sorte de plan spirituel pour vérifier l’efficacité du mystère pascal dans notre vie : «  En présence de ses disciples, Jésus fit beaucoup d’autres signes qui n’ont pas été écrits dans ce livre. Mais ils sont signalés afin que vous croyiez que Jésus est le Christ, le Fils de Dieu et pour que, en croyant, vous ayez la vie en son nom » ( Jn 20, 30-31 ). Nous avons besoin «  d’être ensemble » ( Act 5, 12 ) pour pouvoir faire l’expérience de la vie du Ressuscité qui nous rencontre de façon toute personnelle, devenant, non seulement «  Mon Seigneur et mon Dieu » ( 20, 28 ), mais «  Mon frère jumeau » sans lequel ma vie n’existe pas comme une vie de relation, de partage et d’amour.

Thomas vit la même expérience que celle de Jean «  dans l’île appelée Patmos » d’où il écrit en parlant de lui » votre frère et votre compagnon dans la tribulation, le règne et la constance en Jésus » ( Ap 1, 9 ). Il ne faut pas oublier comment et combien cette fraternité est le fruit de son « extase le jour du Seigneur » ( Act 5, 16 ) et, nous pourrions dire que le Seigneur Ressuscité vient toujours parmi nous afin que nous puissions être guéris de tout envie de nous dissocier de nos frères, tentation où se manifeste notre dissociation intérieure la plus profonde. Nous avons besoin « d’être ensemble » ( Act 5, 12 ) pour que le Seigneur Ressuscité puisse trouver entre nous et en nous sa demeure. Sans doute est-ce de ces «  signes » et de ces «  prodiges » dont nous avons besoin…et dont ont besoin nos frères et sœurs pour pourvoir s’ouvrir à la résurrection, non seulement du Christ, mais aussi à la nôtre.

Il tuo nome è Guarito, alleluia!

Ottava di Pasqua –

La liturgia ci chiede oggi di guardare al mistero della risurrezione da un altro punto di vista, quello di quanti ne sono profondamente disturbati e infastiditi. Si tratta, naturalmente dei capi, gli anziani e gli scribi che, dopo aver pensato di aver risolto il caso “Gesù”, si ritrovano a gestire, come spesso accade, un problema ancora più grande. Devono misurarsi non solo con la <franchezza di Pietro e di Giovanni> (At 4, 13) e, ancor più gravemente, devono fissare lo sguardo su chi sta <in piedi, vicino a loro>. Si tratta dell’<uomo che era stato guarito> e i notabili, abituati a tenere sempre le fila del discorso, non sapevano che cosa replicare> (4, 14). Situazione più che imbarazzante per quanti hanno fatto di tutto per sbarazzarsi di Gesù nel modo più radicale possibile. Il risultato di tutto ciò è che Pietro e Giovanni, non solo non si lasciano intimidire, ma arrivano persino a reagire con una parola che segna la fine di un’era e l’inizio di un nuovo modo di concepire il rapporto con Dio. Non solo, un nuovo modo di relazionarsi con quanti pensano di rappresentarlo sulla terra, talora eliminandone la presenza e il profumo dal cuore dei suoi figli: <Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato> (4, 19, 20).

L’ultima cosa che i discepoli hanno visto è ciò che il nome di Gesù è capace di fare: rimettere e far restare <in piedi> un uomo da sempre costretto a trascinarsi più come una bestia che come una creatura umana. Lo stare <in piedi> è il segno caratteristico degli umani e, soprattutto, è il modo umano di relazionarsi riconoscendosi reciprocamente dignità, fiducia, rispetto, credibilità. La risurrezione del Signore Gesù dai morti non è un miracolo che semplicemente lo riguarda e lo riscatta, è un assoluto capovolgimento delle umane sorti, per cui il mondo non si divide più in chi deve sempre obbedire e chi si sente autorizzato a comandare, sempre abusando del nome di Dio. Nel Cristo, risollevato dalla prostrazione della morte, ogni uomo è radicalmente <guarito>.

Siamo abituati a pensare che siano le malattie a propagarsi e a contaminare seminando sempre più ampiamente tristezza e morte. Con la risurrezione del Signore Gesù dai morti è la vita a propagarsi in modo incontrollabile, come un riso incontenibile che attraversa il corpo dell’umanità da cima a fondo. I discepoli ormai non hanno più paura di stare in piedi davanti al Sinedrio senza sentirsi in dovere di tenere gli occhi bassi e la lingua rigorosamente annodata. Sì, è vero, sono <persone semplici e senza istruzione> (4, 13), ma aver ritrovato tutta la ricchezza del loro essere <stati con Gesù> non solo li rende coraggiosi, ma fa loro sentire la necessità di dare la medesima possibilità di stare in piedi e di sentirsi guarito anche a chi ha teso la mano verso di loro, chiedendo l’elemosina di un aiuto. Si compie così la consegna del Risorto ai suoi discepoli prima di ritornare al Padre suo e rimettere le sorti della storia nelle nostre mani affidandola alle nostre cure: <Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura> (Mt 16, 15). 

Il tuo nome è Beneficio, alleluia!

Ottava di Pasqua –

Gli apostoli non si lasciano intimidire ed è proprio Simon Pietro, che non aveva resistito alle illazioni di una serva fino a rinnegare il suo Maestro, ad essere ora capace di mettere le cose in chiaro: <Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo…> (At 4, 8-9). Nel cuore degli apostoli è viva la memoria di tutto ciò che hanno vissuto con il Signore prima e dopo la sua Pasqua e ancora più pungente è il ricordo struggente della loro assenza durante la celebrazione esistenziale della Pasqua del Maestro. Ciò che resta è una sensazione profonda di essere stati beneficati, di essere stati rimessi sul sentiero della speranza e della vita anche quando tutto sembrava essere dominato dalla delusione e da un senso palpabile di morte della speranza: <ma quella notte non presero nulla> (Gv 21, 3). Eppure, nonostante tutto quello che è avvenuto, nel cuore dei discepoli sopravvive, per così dire, una docilità che permette comunque di ricominciare: <La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci> (21, 6). Uno dei messaggi più forti e più importanti del mistero della risurrezione, che stiamo celebrando in questi giorni di letizia pasquale, è la rinnovata speranza che tutto può sempre ricominciare.

Pietro lo ricorda con forza nel Sinedrio: <Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati> (At 4, 11-12). Le parole di Pietro non fanno che confermare un’esperienza che è quella mirabilmente vissuta dal discepolo amato. Questi è capace di riconoscere il Signore a distanza fino ad indicarlo agli altri discepoli. Quando si è imparato a conoscere il Signore, lo si può sempre riconoscere nonostante gli annebbiamenti del cuore e i turbamenti della storia: <E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?”, perché sapevano bene che era il Signore> (Gv 21, 12). Questa certezza nasce proprio dal riconoscimento di questi gesti di cura e di amore che sono inconfondibili e fanno sentire il <beneficio> (At 4, 8) della presenza ritrovata del Signore il quale continuamente rinnova l’invito materno: <Venite a mangiare> (Gv 21, 12).

Ancora una volta si ricomincia dal quotidiano… il Signore Gesù raggiunge i suoi discepoli nel luogo a loro proprio e si accompagna al loro lavoro abituale. Anche dopo la risurrezione, il Signore non smette il suo grembiule di servitore tanto che colui che ha lavato i piedi ai suoi discepoli prima della Pasqua, ora fa arrostire il pesce e improvvisa del pane cotto sulla brace per riprendere così il filo dell’amore attraverso i gesti consueti dell’intimità. Per questo bisogna gettare la rete <dalla parte destra> (21, 6) ossia dalla parte giusta tenendo conto della presenza e della parola del Signore e non affidandosi al caso e a noi stessi che, spesso, accecati dalla paura rischiamo di sbagliare verso, per andare incontro alla corrente e al flusso della vita.