Soddisfatti

XXVII Domenica T.O.

Di certo la parabola che il Signore Gesù racconta come risposta all’invocazione dei discepoli che chiedono il suo aiuto può anche turbarci. Infatti, a prima vista, questa parabola non può che essere fastidiosa con l’immagine di un padrone che sembra poter e voler spadroneggiare sui suoi servi cosicché questi debbano, più o meno serenamente, sottomettersi ed essere persino soddisfatti, senza nessun rispetto per se stessi e il loro lavoro. L’ordine finale è perentorio: <dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10). La domanda accorata dei discepoli è anche la nostra: <Accresci in noi la fede!> (Lc 17, 6). La risposta di Gesù che evoca l’immagine di un padrone alquanto prepotente nei confronti della servitù, certo contrasta fortemente con tutto ciò che siamo abituati a sentire nelle parole e nei gesti del Signore, come rivelazione dell’immagine di Dio. In realtà, a ben pensarci, la parabola non parla dell’Altissimo, ma, forse, parla proprio di noi.

Il soggetto dominante della parabola – che è la risposta del Maestro alla domanda sulla fede posta dai discepoli – non è il padrone con il suo comportamento, ma il servo – ciascuno di noi – con l’atteggiamento che maturiamo nei confronti della vita in relazione a Dio, a noi stessi e al mondo che ci circonda e di cui siamo custodi. Per riprendere l’esortazione dell’apostolo, la fede non sarebbe qualcosa che Dio ci può donare solo da parte sua, ma esige il lavoro appassionato di ogni giorno nel <ravvivare il dono di Dio> (2Tm 1, 6). Il profeta Abacuc che descrive lo scontro paradossale tra le due superpotenze del polo orientale che, al declino Assiro vede sorgere il nuovo impero babilonese, ricorda ai figli di Israele di non lasciarsi impressionare dalla forza e dalla potenza degli strapoteri mondani, ma di rimanere saldi aggrappandosi, per così dire, alle radici dell’Alleanza con Dio. Così, la conclusione del profeta, è una sorta di antidoto alla paura e, al contempo, alla tentazione di competere con l’avversario, usando gli stessi metodi della forza. Al contrario: <Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede> (Ab 1, 4).

Questo versetto ampiamente e radicalmente citato dall’apostolo Paolo, per fondarvi la sua teologia della grazia (Rm 1, 17; Gal 3, 11), conferma la parola del Signore Gesù, il quale ricorda ai suoi discepoli che la fede non va aumentata, ma va radicalizzata: <Se aveste fede quando un granello di senape…> (Lc 17, 6). Questa condizione assoluta diventa, nel seguito del testo, l’evocazione di questo servo che non fa le cose che gli sono richieste in uno spirito di asservimento, ma con una sorta di soddisfazione e di gioia. Il rapporto tra Dio e l’uomo non è quello di un datore di lavoro e di un salariato, ma è piuttosto quello dell’amore nuziale che si dona senza calcolare ed è tanto più felice quanto più si può dare con intensità e gratuità. Così il dono della fede è sempre pieno, come lo sono i gesti di un amore autentico. Si tratta di una pienezza che non è data una volta per tutte ma, per sua natura, è continuamente in crescita e lo è – prima di tutto e soprattutto – nella linea della profondità. Sempre uguale a se stessa, la fede, non potendosi accrescere quantitativamente, si può sempre approfondire in un dinamismo di perenne novità… proprio come l’amore.

Satisfaits

XXVII Dimanche T.O. –

La parabole que le Seigneur Jésus raconte pour répondre à l’invocation des disciples qui  lui demandent son aide peut certainement nous perturber aussi. En effet, à première vue, cette parabole ne peut qu’être fastidieuse avec l’image d’un patron qui semble pouvoir et vouloir imposer sa loi sur ses serviteurs de telle façon que ceux-ci doivent, plus ou moins sereinement, se soumettre et être même satisfaits, sans aucun respect pour eux ni pour leur travail. L’ordre final est péremptoire : « dites : ‘Nous sommes des serviteurs inutiles. Nous avons fait ce que nous devions faire’ » ( Lc 17, 10 ). La demande implorante des disciples est aussi la nôtre : «  Augmente en nous la foi ! » ( Lc 17, 6 ). La réponse de Jésus qui évoque l’image d’un patron plutôt autoritaire face à l’asservissement, contraste bien sûr fortement avec tout ce que nous sommes habitués à entendre à travers les paroles et les gestes du Seigneur, comme révélation de l’image de Dieu. En réalité, après réflexion, la parabole ne parle pas du Très-Haut, mais, peut-être parle-t-elle vraiment de nous.

Le sujet dominant de la parabole – qui est la réponse du Maître à la question sur la foi posée par les disciples – n’est pas le patron avec son comportement, mais le serviteur – chacun de nous – par l’attachement que nous développons face à la vie en relation à Dieu, à nous-mêmes et au monde qui nous entoure et dont nous sommes les gardiens. Pour reprendre l’exhortation de l’apôtre, la foi ne serait pas quelque chose que  seul Dieu peut nous donner, mais elle exige un travail passionnant de chaque jour pour «  raviver le don de Dieu » ( 2 Th 1, 6 ). Le prophète Habacuc qui décrit le choc paradoxal entre les deux super puissances du pôle oriental qui, voit surgir le nouvel empire babylonien au déclin d’Assyrie, rappelle aux fils d’Israël de ne pas se laisser impressionner par la force et la puissance des surpuissants mondains, mais de rester solides en s’agrippant, pour ainsi dire, aux racines de l’Alliance avec Dieu. Ainsi, la conclusion du prophète est une sorte d’antidote à la peur et, en même temps, à la tentation de rivaliser avec l’adversaire, en usant les mêmes méthodes de force. Au contraire : « Voici que succombe celui qui n’a pas l’âme droite, alors que le juste vivra par la foi » ( Ha 1, 4 ).

Ce verset amplement et profondément cité par l’apôtre Paul, pour y fonder sa théologie de la grâce ( Rm 1, 17 ; Ga 3, 11 ) confirme la parole du Seigneur Jésus qui rappelle à ses disciples que la foi n’augmente pas, mais s’approfondit : «  Si vous aviez de la foi grosse comme un grain de sénevé… » ( Lc 17, 6 ). Cette absolue condition devient, dans la suite du texte, l’évocation de ce serviteur qui n’accomplit pas les choses qui lui sont demandées dans un esprit d’asservissement, mais avec une sorte de satisfaction et de joie. Le rapport entre Dieu et l’homme n’est pas celui d’un employeur et d’un salarié, mais plutôt celui de l’amour nuptial qui se donne sans calculer et est d’autant plus heureux lorsqu’il peut se donner avec intensité et gratuité. Ainsi le don de la foi est toujours intégral comme le sont les gestes d’un amour authentique. Il s’agit d’une plénitude qui n’est pas donnée une fois pour toute, mais, par sa nature même, elle est en continuelle croissance  et cela – avant tout et surtout – dans le sens de la profondeur. Toujours égale à elle-même, la foi, ne pouvant croître quantitativement, peut toujours s’approfondir dans un dynamisme d’éternelle nouveauté…tout comme l’amour.

Piccolino

San Francesco –

Alla fine del suo testamento Francesco parla di sé come <piccolino> e in questo modo rivela quanto la parola del Vangelo abbia formato la sua vita trasformandola radicalmente. Come la goccia che scava persino la roccia, lo scalpello della parola del Vangelo ha permesso allo scultore divino, con mano ferma e dolcissima, di spogliare, giorno dopo giorno, quest’uomo offertosi interamente all’Amore, di tutto ciò che era in più per liberare l’uomo nuovo, l’uomo vero, l’uomo recuperato alla bellezza di un’armonia ritrovata. Le parole del Signore Gesù si sono magnificamente compiute in Francesco: <hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli> (Mt 11, 25). Sul giaciglio di morte Francesco si fa portare, in un codice che contiene tutta la Bibbia, il Vangelo perché lo possa ascoltare ancora una volta. Non riceve come Benedetto il viatico dell’Eucaristia, ma quello del Vangelo e, sacerdote del Nuovo Testamento senza essere ordinato presbitero, assolve oltre che benedire i suoi fratelli. In tal modo Francesco rivela, alla fine della sua vita, la consapevolezza di una conformazione a Cristo di rara profondità che gli permette di fare sue le parole dell’apostolo: <quando a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo> (Gal 6, 14). Una vita conformata che diventa capace di confermare nella fede i propri fratelli.

In Francesco possiamo contemplare e imparare la via di una conformazione discepolare a Cristo Signore che comincia sempre con il passo necessario della spoliazione da tutto ciò che fa da schermo alla luce trasformante del Vangelo al cui calore siamo chiamati a far sciogliere tutto ciò che in noi rende vana la logica trasformante della croce di Cristo. Claudel, in uno dei suoi tre inni dedicati al santo di Assisi, lo definisce <un uomo ebbro>. Si tratta dell’ebrezza di un amore ritrovato dopo essere stato a lungo cercato che permette a Francesco di riconciliarsi col suo essere <piccolino> fino ad accettarsi serenamente come una creatura tra altre creature. Dopo aver vaneggiato la gloria del cavaliere fino a rischiare lo squilibrio della mente, del corpo e dello spirito, Francesco ha sposato la sua povertà di creatura trovando la gioia e la pace che non si possono acquistare, ma che sempre si possono condividere con tutti. Sempre Claudel dice che <Dio lo fa passeggiare come in paradiso nel mistero delle creature naturali>. In Francesco possiamo ammirare e desiderare la possibilità sempre aperta di ritrovare in noi stessi il neonato e lo sposo.

Solo dopo aver sposato la sua povertà ed essersi riconciliato con la sua vulnerabilità Francesco ha cominciato a danzare la vita in una pienezza, da sempre desiderata e finalmente trovata. Sposata la propria umanità, il piccolino d’Assisi ha conosciuto la gioia impagabile di essere stato sposato dall’amore dell’Altissimo. Paul Claudel lo dice magnificamente: <è requisito perché serva nella sua carne al Crocifisso>. 

Se…

XXVI settimana T.O. –

Il Signore Gesù si rivolge in modo diretto alla città che ha scelto come sua dimora e lo fa con un tono che ha tutte le caratteristiche dell’amore tradito e della predilezione umiliata: <E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai!> (Lc 10, 15). Il seguito del discorso di Gesù non è semplicemente un invito all’obbedienza, ma una vera e propria riproposizione di uno stile che fa dell’incontro, dell’ascolto, della reciproca accoglienza la propria legge e il proprio respiro: <Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato> (10, 16). Questo versetto invocato infinitamente per giustificare e fondare teologicamente l’obbedienza nel corpo ecclesiale, in realtà rivela come l’unico modo per aprirsi al dono di una vita sempre più piena è quello di accettare le varie mediazioni della vita senza sognare interventi e avvenimenti straordinari.

Nelle parole del Signore possiamo sentire una sorta di capovolgimento di ruoli a partire dal quale è Dio che supplica la nostra umanità di fargli e dargli un po’ di spazio che gli permetta di ricolmarci dei suoi doni. È il tipico movimento dell’amore che comporta sempre una certa dose – normalmente eccedente – di vulnerabilità: <Perché se a Tiro e Sidone fossero avvenuti i prodigi che avvennero in mezzo a voi, già da tempo, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite> (10, 13). L’invocazione del salmista può e deve diventare la nostra ardente preghiera: <liberaci e perdona i nostri peccati a motivo del tuo nome> (Sal 78, 9). Abbiamo veramente bisogno di essere liberati dalla scorza e dalla corazza che ci rende insensibili e per questo irraggiungibili dagli appelli della grazia che, in realtà, non ci richiede nulla se non di lasciare che la nostra vita divenga un prodigio di tenerezza e di amore per noi stessi e per gli altri.

Il profeta Baruc con un testo di lamentazione e di ardente richiesta di perdono ci rivela quale sia il difetto dominante della nostra vita di discepoli: <non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, che diceva di camminare secondo i decreti che il Signore ci aveva messo dinanzi> (Bar 1, 18). L’obbedienza cui siamo chiamati non è quella di una sottomissione paralizzante, ma il dinamismo di una vita che si sappia rimettere ogni giorno seriamente e amorevolmente in cammino. Questo comporta ed esige il quotidiano <uscire> (1, 19) da tutto quel sistema di immaginazione e di richiesta di <prodigi> (Lc 10, 13) che invece di arricchire rischia di impoverire sempre di più i passi della nostra conversione. Lasciamoci raggiungere dal desiderio del Signore Gesù che vuole fare della nostra vita la sua casa e cerchiamo di farlo sentire a casa accogliendone la presenza con sentimenti di gratitudine e nella gioia di poter camminare per i sentieri di una intimità capace di illuminare e scaldare la vita. Ascoltare è sempre il primo passo per cogliere l’importanza dell’altro e accoglierla come dono di grazia.

Trasgressione

Santi Angeli Custodi –

Il Catechismo della Chiesa Cattolica non dimentica di parlare degli angeli e lo fa in questi termini: <Gli angeli, come gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare verso il loro destino per una libera scelta e un amore di preferenza>1. Il Concilio Vaticano II, parlando della Chiesa, a sua volta non dimentica di evocare queste figure e lo fa con queste parole: <in comunione con tutta la Chiesa pellegrinante veneriamo gli angeli e innalziamo lodi a Dio che ci conceda il loro potere di intercessione>2. Sembra dunque che gli angeli non siano poi così distanti da noi e che non siano poi così diversi da noi per quelle realtà essenziali che fanno la nostra umana avventura. Come loro, dobbiamo camminare verso una capacità sempre più matura di scegliere e costruire il nostro destino, perché sia segnato da <un amore di preferenza> che non può mai e in nessun modo venire imposto, ma ha bisogno di essere continuamente riscelto. Inoltre, la loro intercessione ci assicura della loro comprensione. Gli angeli comprendono il nostro cammino e la nostra fatica di fedeltà e di amore e si offrono a noi non solo come esempi, ma come alleati e complici del nostro pellegrinaggio di fede, di speranza e di amore. In una parola ci sostengono nel travaglio di corrispondere alla nostra vocazione fondamentale di creature capaci di conservare la memoria del loro Creatore e di vivere secondo la logica del dono di creazione. Questo dono esige l’impegno personale per tutto ciò che ha bisogno di attenzione, di cura, di comprensione… in una parola di custodia.

Nell’Esodo troviamo una parola forte che ci permette di comprendere il senso profondo di questa relazione invisibile e al contempo così sensibile: <Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui; egli, infatti, non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui> (Es 23, 21). Il Signore Gesù conferma questa parola rivolta dall’Altissimo al suo popolo mentre è in cammino nel deserto e diventa un invito chiaro ad evitare con sommo impegno la più terribile delle trasgressioni: quella di voler primeggiare e di non prendersi cura di ciò che è più piccolo. Con una parola così solenne, il Signore Gesù sembra ricordarci che bisogna stare sempre dalla parte dei più piccoli: <Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli> (Mt 18, 10). Questo stare dalla parte di ciò che è piccolo significa impegnarsi in un cammino di continua conversione per evitare di cadere nella trasgressione madre di tutte le trasgressioni che si esprime in quella domanda dei discepoli che abita pure il nostro cuore di discepoli: <Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?> (Mt 18, 1). La memoria degli angeli ci aiuta a non proiettare sul cielo le nostre domande e le nostre angosce, ma ad accogliere sulla terra delle nostre relazioni la logica di cui gli angeli vivono in cielo partecipando così alla loro serenità e alla loro gioia.


1. Catechismo della Chiesa Cattolica, 311.

2. Lumen Gentium, 49.

Adatto

XXVI settimana T.O. –

La domanda che il re pone a Neemia in partenza per la terra di Israele dove cercherà di rimettere in piedi non solo il tempio e la città, ma anche tutto quello che essi simbolicamente rappresentano in realtà riguarda ciascuno di noi: <Quanto durerà il tuo viaggio?> (Nee 2, 6). Possiamo considerare che questo viaggio sia il nostro cammino di discepolato che esige l’interezza del dono e dell’impegno della nostra vita in tutto il meglio che essa ha e che può dare. Il viaggio interiore del nostro diventare, giorno dopo giorno, discepoli del Signore Gesù che ci richiede di chiederci fino a che punto il nostro cammino sia <adatto per il regno di Dio> (Lc 9, 62). Uno degli elementi di discernimento che il Vangelo sembra offrirci è proprio la capacità di vivere all’altezza del proprio desiderio. Non basta solo dire <Ti seguirò dovunque tu vada> (Lc 9, 57). Bisogna anche essere all’altezza e nella disposizione di vivere nella forma del futuro, in un atteggiamento di propensione e sincera accoglienza di ciò che sta per venire senza lasciare nessuno sguardo per il proprio passato per quanto sia chiaramente imprescindibile per il nostro presente come può essere la propria famiglia di origine. 

Il discepolo è chiamato a farsi in tutto simile al Maestro e per questo capace di guardare decisamente e fermamente avanti senza mai volgersi <indietro> (Lc 9, 62). Non si può essere veramente discepoli senza volgersi risolutamente verso l’avvenire che non significa oblio ma orientamento e consapevolezza. Il punto focale della parola del Signore Gesù, che riceviamo attraverso il Vangelo, non è l’invito a rifiutare i propri cari o a sentirsi esentati dai doveri più sacri dell’amore e delle pietà, ma è un invito a guardare con attenzione e con spietata onestà al nostro cuore per sapervi discernere il filo rosso dell’amore autentico e quello nero di un egoismo e narcisismo mascherati.

Diverso ed esemplare è l’atteggiamento di Neemia che, al cospetto del re, è capace di dichiarare con tutta umiltà e verità i suoi progetti e i suoi desideri tanto da fare esperienza della <mano benefica> (Nee 2, 8) di Dio che ne benedice le risoluzioni proprio perché, in prima persona, si è assunto tutta la responsabilità di ciò che ritiene buono e giusto. Di fatto la richiesta di Neemia comporta il lasciarsi alle spalle, la sicurezza e l’agiatezza della vita di corte per riprendere il cammino verso la terra dei padri per ricostruirvi il Tempio che diventa il simbolo della nostra vita continuamente da ricostruire alla luce delle esigenze del Vangelo. Questa fedeltà esige sempre il coraggio di non fare troppi calcoli o troppe previsioni, ma di mettersi in cammino con decisione ferma e disponibilità al rischio perché: <Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio> (Lc 9, 62). Questa parola così forte del Signore Gesù non è una minaccia, e non è certo un modo per difendere se stesso, ma è il segno di un’attenzione ad ogni discepolo che viene preso sul serio in quello che è il suo desiderio ed è messo di fronte a tutte le conseguenze con serietà. Tre sfide che sono tre doni: la libertà dalle cose, dalle persone e, soprattutto, da se stessi. 

Chiaramente

XXVI settimana T.O. –

La decisione degli abitanti di un innominato villaggio di samaritani che non accolgono il Signore Gesù e motivato: <perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme> (Lc 9, 53). Ma accanto a questa chiara presa di posizione che genera una reazione non molto diversa di Giacomo e Giovanni, c’è quella dell’Altissimo che non si lascia mai piegare né contaminare dalle nostre logiche elitarie ed escludenti. Lo possiamo cogliere nelle parole di Zaccaria dove troviamo un’affermazione di rara intensità e capace di dare un respiro assai nuovo al modo di sentire e considerare la relazione tra Israele e gli altri popoli: <Anche i popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’latro: “Su andiamo a supplicare il Signore…> (Zc 8, 20-21). La reazione del Signore Gesù alla richiesta di Giacomo e Giovanni di dare una bella lezione a quanti si sono rifiutati di accoglierli è assai forte: <Si voltò e li rimproverò> (Lc 9, 55). È necessario maturare nella capacità di rispettare non solo i cammini degli altri, ma di accettare che i tempi e i modi di questi cammini abbiano una ritmica diversa da quella che ci sembra giusta o cui siamo abituati da parte nostra.

Un testo del Concilio Vaticano II non solo si fa interprete di questo atteggiamento di apertura inclusiva e radicale verso l’altro, ma rimanda ad una necessaria conversione cui ogni giorno come discepoli siamo chiamati: <La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle religioni [non cristiane]. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che si trovano in essi. >1.


1. Nostra Aetate, 2-3.

Cooperare

Santi Arcangeli –

In una cultura e civiltà sempre più legata alla virtualità può essere assai interessante e terapeutico riscoprire e reinterpretare il ruolo e la presenza degli angeli nella propria vita di persone e di credenti. La realtà in cui viviamo e che accusiamo di materialismo è anche la più prossima alla realtà dell’invisibile: voci, suoni, immagini – in futuro – forse persino persone e cose, si muovono attraverso l’etere creando possibilità sempre nuove di comunicazione… ma non sempre di comunione. Su quest’ultimo punto ecco che la Chiesa, erede della tradizione ebraica e concorde in questo con altre tradizioni religiose, non ha mai smesso di venerare e chiedere l’aiuto degli angeli e in questo giorno festeggia gli Arcangeli: Michele, Gabriele e Raffaele. Ci si potrebbe domandare che senso abbia ipotizzare una “gerarchia” persino tra gli ordini angelici come avviene nella vita dell’ordine umano ma è un modo per indicare la particolare importanza di alcuni eventi di salvezza che sono veri e propri “archi” eventi.

La colletta di questa liturgia sgombra il campo col modo proprio della tradizione liturgica romana austera e asciutta da ogni inutile ricamo sul ruolo degli angeli nella vita della Chiesa e dell’umanità: <O Dio che chiami gli angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza>. Angeli e uomini siamo chiamati a vivere nello e per lo stesso <disegno di salvezza>. E la visione apocalittica realizza come questa cooperazione non è una semplice passeggiata: <Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero> (Ap 12, 7-8). Questa immagine così battagliera fa cadere tutte le sdolcinature e le inutili dorature con cui ci immaginiamo gli angeli di Dio: il loro ruolo è proprio quello di aiutarci, sostenerci e guidarci nel combattimento spirituale che si oppone al compimento del mistero dell’incarnazione nella nostra vita. La parola del Signore Gesù che conclude il vangelo scelto per questa festa ci ricorda il mistero della scala che continuamente mette in relazione la vita di Dio con la vita dell’uomo: <In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo> (Gv 1, 51).

Mentre Natanaele in preda all’entusiasmo dichiara <Rabbì tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele> (1, 49), il Signore Gesù si identifica nel <figlio di uomo> (Dn 7, 13) di cui parla Daniele nella prima lettura. Gli angeli di Dio sono con e per <noi pellegrini sulla terra> (Colletta) non per de-incarnarci o “spiritualizzarci” ma per aiutarci ad essere fino in fondo e integralmente uomini e donne che in terra vivono di quella medesima logica di cui gli angeli vivono <in cielo>. Ci si potrebbe chiedere in che cosa la vita degli angeli e degli uomini è sostanzialmente simile: nel <servirti contemplando la gloria del tuo volto> che è nascosta in ogni volto umano e in ogni creatura sulla terra. Il criterio per discernere la bontà delle realtà invisibili – persino di quelle che conquistano il nostro spazio umano tenendolo sempre più collegato a quello siderale – è la capacità o meno di cooperare alla comunione universale. A Michele, Gabriele e Raffaele possiamo chiedere la <protezione> e la guarigione da tutto ciò che ci rende isolati e impalpabili per essere sempre più capaci – come gli angeli – di farci presenti in tutte le situazioni per cooperare alla gioia dei nostri fratelli, specialmente di quando hanno bisogno di un buon annuncio, di una buona parola, di un bel gesto. Gli angeli e gli arcangeli che la tradizione greca chiama psycopompi, ossia sostegno o custodi delle anime, sono gli antesignani degli psicologi moderni e forse i più efficaci. Freud racconta di un bambino che ha paura del buio e chiede: parla perché così mi sento meno solo! Gli arcangeli ci guariscono da ogni forma di solitudine perché ci fanno sentire in comunione con Dio stesso e ci rendono tutti responsabili di cooperare alla serenità di ciascuno.

Inferno

XXVI Domenica T.O.

Di certo il tema dell’inferno non è più tanto di “moda” e, grazie a Dio, tutta l’aneddotica tradizionale su questo luogo di <tormenti> (Lc 15, 23), descritto con dei particolarismi inquietanti e rivelativi di una fervida quanto rischiosa fantasia, ha ceduto il passo ad una maggiore austerità di immagini a vantaggio di una più profonda sensibilità della posta in gioco. E la posta in gioco è assai alta: il rischio è quello di fallire la propria vita nel tempo e nell’eternità. Questo senso di fallimento e questa coscienza di aver sprecato la propria grande occasione è il sentimento che brucia e consuma quel povero ricco che, alla fine, se fa pena a noi che leggiamo, chissà quanta pena fa al Signore Gesù che racconta questa parabola. Nel capitolo precedente del suo vangelo, Luca ci ha messo di fronte all’abisso della misericordia di Dio che si comporta come pastore che cerca la sua pecora smarrita, come donna che non si dà pace finché non ritrova la dramma perduta, come padre che non smette mai di essere tale. Ora ci pone di fronte all’altra faccia della medaglia: noi e il nostro modo di portare il mistero della vita in relazione a noi stessi, agli altri e a Dio. L’esortazione dell’apostolo ci rammenta l’orizzonte più degno per ciascuno di noi: <Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza> (1Tm 6, 11).

Nella parabola non si dice che il ricco fosse cattivo e il povero buono: semplicemente c’è questa <porta> (Lc 16, 20) in terra che diventa poi un <grande abisso> (16, 26) in cielo. Il vero problema del ricco è quello di non aver visto il povero e, in cielo, chiede di essere visto da chi – in questo caso Lazzaro – non potrebbe neanche riconoscerne il volto: quel volto che è rimasto sempre blindato all’interno, mentre si facevano <lauti banchetti> (16, 19). Il messaggio è chiaro e semplice: come si può pensare di vedersi e incontrarsi in cielo se non ci si è mai incontrati e nemmeno scontrati in terra. Il ricco non è un insensibile, vista la sua preoccupazione per i suoi cari <cinque fratelli> (16, 28), ma è un superficiale che ha dimenticato il “settimo” dei suoi fratelli che è appunto Lazzaro. Così a questo ricco si applica a pennello la parola del profeta: <sdraiati sui loro divani mangiano… Canterellano… bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano> (Am 6, 4-6). È come se non ci fosse il tempo per chiedersi che cosa stia avvenendo davanti alla <porta>, là dove ci sarebbe da imparare ad essere uomini persino dai <cani> (Lc 16, 21). Il ricco non vede nulla, non ha occhi per nessuno se non per se stesso!

Certo: la reazione di Abramo è forte, persino spietata, ma è un modo per mettere in guardia dal pericolo di cadere in una sorta di anestesia spirituale che ci può prendere ogni volta in cui non leggiamo più la nostra vita – nell’abbondanza e nella povertà – proprio e sempre <Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato> (1Tm 6, 13). Il rimedio all’anestesia spirituale è quello di <conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento> (6, 14) aprendosi così ad una “anastasìa” già qui in terra. Invece di starsene <sdraiati> (Am 6, 4) dobbiamo alzarci e oltrepassare quella <porta> blindata che rischia di essere la nostra pietra tombale per l’eternità rivelando, in realtà, a quale inferno ci siamo condannati da noi stessi con una tristissima incuria.

Enfer

XXVI Dimanche T.O. –

Bien sûr, le thème de l’enfer n’est plus vraiment «  à la mode » et, grâce à Dieu, tout l’anecdotique traditionnel sur ce lieu de «  tourments » ( Lc 15, 32 ), décrit avec des particularités inquiétantes et révélatrices  d’une fantaisie débordante et risquée, a cédé la place à une plus grande austérité d’images avec l’avantage d’une plus profonde sensibilité des enjeux. L’enjeu est assez haut : le risque est de rater sa propre vie en temps et en éternité. Ce sens de l’échec et cette conscience d’avoir gaspillé cette grande occasion est le sentiment qui brûle et consume ce pauvre riche qui, à la fin, nous fait même pitié, combien doit-il alors faire pitié au Seigneur Jésus qui raconte cette parabole. Dans le chapitre précédent de son évangile, Luc nous a mis face à l’abysse de la miséricorde de Dieu qui se comporte comme un berger qui cherche sa brebis perdue, ou comme une femme qui n’a de repos que lorsqu’elle retrouve la drachme perdue, et comme un père qui n’arrête jamais d’agir comme tel. Mais nous voici maintenant confronter à l’autre face de la médaille : nous et notre façon de porter le mystère de la vie en relation à nous-mêmes, aux autres et à Dieu. L’exhortation de l’apôtre nous rappelle l’horizon le plus digne pour chacun d’entre nous : «  Toi, homme de Dieu, fuis tout cela, poursuis, au contraire la justice, la pitié, la foi, la charité, à la patience, la douceur » ( 1 Th 6 , 11 ).

Dans la parabole, il n’est pas dit que le riche était méchant et le pauvre bon : simplement, il y a cette «  porte » ( Lc 16, 20 ) sur la terre qui devient ensuite un «  grand abysse » ( 16, 26 ) au ciel. Le vrai problème du riche est de ne pas avoir vu le pauvre et, au ciel, il demande à être vu, mais par qui – dans ce cas précis Lazare – dont il ne pourrait même pas reconnaître le visage : son visage  est toujours resté blindé à l’intérieur, pendant qu’il faisait « bombance » ( 16, 19 ) . Le message est clair et simple : comment peut-on penser se voir et se rencontrer au ciel si l’on ne s’est jamais rencontrés, ni même croisés sur la terre. Le riche n’est pas un insensible, vu sa préoccupation pour ses bien -aimés «  cinq frères » ( 16, 28 ), mais c’est quelqu’un de superficiel qui a oublié le « septième » de ses frères, qui est justement Lazare. Ainsi, pour se riche, s’applique à merveille la parole du prophète : « Allongés sur leur divan, il mangeaient… chantonnaient… buvaient le vin dans de larges coupes et s’enduisaient d’onguents les plus raffinés, mais ne se préoccupaient pas de la ruine de Joseph » ( Am 6, 4-6 ). C’est comme si l’on n’avait pas le temps de se préoccuper de se qui se passe devant «  la porte », là où l’on pourrait apprendre à être humains même pour les «  chiens » – Lc 16, 21 ). Le riche ne voit rien, n’a d’yeux pour personne sinon pour lui !

Certes : la réaction d’Abraham est forte, même sans pitié, mais c’est une façon de mettre en garde du danger de tomber dans une sorte d’anesthésie spirituelle que l’on utilise chaque fois que nous ne lisons plus notre vie  – dans l’abondance et la pauvreté – surtout et toujours «  face à Dieu qui donne vie à toute chose et à Jésus Christ qui a donné son beau témoignage devant Ponce Pilate «  ( 1 Th 6, 13 ). Le remède à l’anesthésie spirituelle est de «  conserver sans tache et de façon irréprochable le commandement » ( 6, 14 ), en nous ouvrant ainsi à une «  anastasie » déjà maintenant sur terre. Au lieu de rester allongés, ( Am 6, 4 ), nous devons nous lever et traverser cette «  porte » blindée qui risque d’être notre pierre tombale pour l’éternité, en révélant, en réalité, à quel enfer nous nous sommes condamnés nous-mêmes par une très triste négligence.