Distrazione

XXXIII settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù ci commuovono e ci interrogano profondamente: <Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace!> (Lc 19, 42). Raramente il Signore Gesù usa il <se>, ma in questo caso lo usa in tutta la sua carica emotiva che tocca e un po’ anche sconvolge il cuore. In realtà non si tratta di interpretare questa parola del Signore riducendone il significato al rifiuto dei suoi contemporanei di accogliere il suo messaggio così esigente fino ad essere percepito troppo scomodo. Si tratta di sentire come e quanto ogni giorno il cammino del Signore è <vicino> alla <Gerusalemme> (19, 41) del nostro cuore e si fa pressante invito alla necessità e alla bellezza di accogliere la sua presenza per la nostra vita che si rivela pacificante e, al contempo, dinamizzante. Eppure, sappiamo bene, come spesso il nostro cuore è distratto. Come annota in un verso rovente Christian Bobin: <perdiamo il paradiso per distrazione>.

Potremmo reagire alle parole irrorate di lacrime del Signore Gesù con un piccolo proposito: essere meno distratti, essere meno distratti da noi stessi. Solo così potremo sottrarci a quella terribile esperienza che fa della nostra cittadella interiore una città devastata dall’incuria interiore: <distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata>.

Non così <Mattatia e i suoi figli> (1Mac 2, 16) i quali sono capaci di cogliere la visita di Dio attraverso le esigenza ben dure delle situazioni della vita dando prova di saper vivere col fatto di non avere timore a decidere. Il primo passo di questa capacità è di non cedere alle lusinghe: <Tu sei uomo autorevole, stimato e grande> (2, 17). Mattatia non dimentica che la sua grandezza è direttamente proporzionale alla sua capacità di farsi piccolo davanti alle esigenze di un’alleanza che accompagna nella misura in cui si accetta che sempre ci preceda. Dante, nella Divina Commedia, parla anche di coloro che hanno passato la loro vita senza fare né il bene né il male, i quali <vissero per se stessi> tanto che il paradiso chiude loro la porta e l’inferno non li vuole fare entrare. La loro punizione è quella di correre nudi inseguiti da migliaia di api. Per l’eternità dovranno rammentarsi del fatto che non si può vivere senza prendere posizione cedendo alla distrazione che rimanda continuamente senza mai assumere il peso di una decisione. 

La vita ci mette di fronte a delle scelte e si tratta della pace da scegliere, la pace da coltivare, la pace da condividere: la pace di oggi che radica nell’attenzione di ieri e nel desiderio rinnovato che prepara l’avvenire. Non dobbiamo sbagliare campo di battaglia: è il nostro cuore. Non dobbiamo rimandare all’infinito: è per oggi!

Creatore

XXXIII settimana T.O. –

Possiamo veramente riconoscere in questa misteriosa e preziosa <moneta d’oro> (Lc 19, 16) la nostra vita che viene data come dono e affidata come qualcosa di cui siamo responsabili e di cui non possiamo abusare e, soprattutto, che non possiamo nascondere. Dei <dieci dei suoi servi> (19, 13) evocati all’inizio della parabola, in realtà, ne incontriamo solo due che riferiscono al loro padrone che la moneta ha fruttato nel primo caso <dieci> (19, 16) e nel secondo caso <cinque> (19, 18). Accanto a questi due servitori zelanti e intraprendenti si staglia la figura di <un altro> (19, 20) il quale confessa, con grande dovizia di particolari, che cosa ha scatenato nel suo cuore quel gesto di affidamento da parte del padrone che avrebbe richiesto una capacità di accoglienza e di impegno: <Signore, ecco la tua moneta d’oro, che ho tenuto nascosta in un fazzoletto; avevo paura di te, che sei un uomo severo> (19, 20-21). Il Vangelo non ci dice nulla degli altri sette servi che pure hanno ricevuto la moneta con la consegna di farla <fruttare> (19, 13). Possiamo legittimamente immaginare che qualcuno di questi altri servi non ce l’abbia fatta a far fruttare e che si sia presentato davanti al padrone con la semplice moneta che aveva ricevuto o, persino, senza più nulla perché gli affari della vita possono anche andare male. Eppure, ci sembra di poter immaginare l’eguale benevolenza di questo padrone che si dimostra spietato solo contro questa immagine falsata del suo cuore ed è profondamente ferito da quel servo che non è stato capace di intuire la sua benevolenza ed è rimasto chiuso nella sua <paura>.

L’esperienza dei fratelli Maccabei, unitamente alla loro madre <ammirevole e degna> (2Mac 7, 20), ci fa prendere coscienza del fatto che la moneta d’oro della vita, non solo può essere spesa, ma persino apparentemente sprecata purché ci sia una consapevolezza fiera della sua preziosità che, invece, sfugge ad <Antioco> (7, 24) troppo preso da se stesso e così insensibile al cammino di quanti sono capaci di credere nella vita e di sperare nel Creatore. La lezione che la madre trasmette ai suoi figli per sostenerli a non barattare il dono di un’esistenza degna e fiera è di rara intensità: <Non so come siate apparsi nel mio seno, non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita, poiché voi ora per le sue leggi non vi preoccupate di voi stessi> (7, 22-23).

Dalle parole di questa madre intrepida possiamo cogliere il segreto non solo per vivere, ma per vivere in pienezza. Questo segreto è la memoria di un Creatore che ci ha dato la vita come un dono talmente grande da dover immaginare che Egli stesso sia capace di rinnovare fino a reinventare continuamente questo dono, soprattutto quando qualcuno si arroga il diritto di mettersi al posto dell’Altissimo. La speranza della risurrezione diventa così il segreto stesso della vita. Se davanti al martirio di questi sette fratelli come dinanzi al mistero di ogni sofferenza innocente ci chiediamo dove sia Dio, la risposta la troviamo nel mistero indicatore e solutore di questo <viaggio> di cui ci parla il Signore Gesù nel Vangelo. Per questo non bisogna sottovalutare l’inquadratura della parabola. Quando tutti si aspettano che Gesù si manifesti come il Messia facendosi carico dei problemi di tutti, il Signore ci rimanda alla nostra responsabilità e alla necessità ineludibile del nostro impegno. In realtà si tratta di essere capaci come il Signore di trafficare fino all’ultimo e al massimo grado possibile la moneta d’oro che siamo.

Costretto

XXXIII settimana T.O. –

Nella prima lettura ci viene raccontato del <dignitoso> Eleazaro che viene <costretto ad aprire la bocca e a ingoiare carne suina> (1Mac 6, 18). Nel Vangelo incontriamo un uomo apparentemente meno dignitoso – essendo definito come peccatore e <ricco> – che viene costretto dal Signore Gesù a farsi toccare dalla sua misericordia fino a farsi trasformare più per osmosi che per forza. Per introdurci in questa meditazione del mistero di una costrizione che si fa dolce opportunità prima del Vangelo leggiamo ancora una volta un testo che, precedendo la lettura, ce ne da una chiave di interpretazione: <Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati> (1Gv 4, 10). Di fatto è proprio questa divina prevenienza che sta al cuore dell’incontro tra il Signore Gesù e il <piccolo> Zaccheo, il quale nonostante il suo desiderio <di vedere chi era Gesù> (Lc 19, 3) deve imparare ed accettare di essere visto <per primo> dal Signore che passa non in modo distratto nella nostra vita ma in modo attento e amoroso per la nostra vita: <Gesù alzò lo sguardo…> (Lc 19, 5). San Gregorio Magno, facendo riferimento a Zaccheo, dice che <il sicomoro è considerato un fico pazzo> e aggiunge: <Zaccheo, che era basso di statura, salì dunque sul sicomoro e vide il Signore, poiché quanti scelgono umilmente ciò che è follia secondo il mondo, arrivano ad una contemplazione penetrante della Sapienza di Dio>1. Ma per noi tutti non è facile scendere dalla nostra pazzia che ci fa desiderare sempre di salire, perché questo ci dà l’impressione di vedere meglio la nostra vita poiché ci permette di controllare meglio la vita degli altri. Tutto questo è uno dei modi che noi escogitiamo <per attaccamento alla vita> (2Mac 6, 20). 

Ed ecco che il Signore <per primo> ci rivolge la parola e ci aiuta, come si fa con un bambino che si è imprudentemente arrampicato su un albero troppo alto, perché si possa scendere agevolmente per non farci male e accondiscendere al bene che ci viene proposto e offerto: <Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua> (Lc 19, 5). Forse Zaccheo non avrebbe mai avuto il coraggio di invitare Gesù nella sua casa ed ecco che è il Signore ad invitarsi per primo, permettendo a questo <capo dei pubblicani e ricco> (19, 2) di manifestare, finalmente, chi è veramente e che non è solo <un peccatore> (19, 7) ma un uomo in cammino e – proprio perché così piccolo di statura – quasi animato da un desiderio continuo di crescita. Alla stessa logica di crescita obbedisce la vita di <Eleàzaro, uno degli scribi più stimati, uomo già avanti negli anni e molto dignitoso nell’aspetto della persona> (2Mac 6, 18) il quale non cede alle lusinghe dei suoi “amici” che lo spingevano a <fingere di mangiare le carni sacrificate imposte dal re> (6, 21).

Veramente c’è sempre tempo e modo di crescere in fedeltà come Eleàzaro, e in generosità come Zaccheo, e questo nella misura in cui facciamo esperienza di quanto e di come Dio ci abbia amati per primo (cfr. 1Gv 4, 10) tanto da costringerci ad un atto di onore che ci obbliga a fargli spazio nella nostra casa anche mettendo a rischio la nostra reputazione e perfino la sussistenza di quel modo di vita cui siamo ormai abituati.


1. GREGORIO MAGNO, Commento morale a Giobbe, 46, 79.

Sedotti

XXXIII settimana T.O. –

La prescrizione del re non lascia scampo: <che tutti formassero un solo popolo e ciascuno abbandonasse le proprie usanze. Tutti i popoli si adeguarono agli ordini del re> (1Mac 1, 41-42). In realtà come si vede nella conclusione del testo non proprio tutti si adeguarono al desiderio di quella <radice perversa> (1, 10) che imperversò nel mondo attorno a Israele come un uragano di seduzione. Se non tutti si lasciarono sedurre non furono pochi coloro che furono ammaliati dall’autostima di una cultura – in questo caso quella ellenistica – che sottilmente vanta la propria superiorità fino a comunicare agli altri un senso di inferiorità. Viene ricordato con una data precisa <Nell’anno centoquarantacinque, il quindici di Chisleu> il momento in cui fi innalzato <sull’altare un abominio di devastazione> (1, 54). Eppure, sarebbe stato a tutti evidente, soprattutto ai sapienti formati a culto della ragione, che il modo di sentire e di servire Dio in Israele era, di certo, più elevato e meno superstizioso. Eppure, la seduzione è un meccanismo che fa sentire l’attrazione per ciò che soddisfa la propria superficialità anche a prezzo di sacrificare la propria sapienza. Per questo <Stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco> (1, 56). Nella storia più volte e da più parti si è cominciato con il bandire e il bruciare i libri prima di bandire le persone e sopprimere la gioia della diversità.

Di tutt’altro tenore è ciò che avviene sulla strada che porta a Gerico ove <un cieco seduto lungo la strada a mendicare> (Lc 18, 35) percepisce il passaggio di Gesù come si percepisce l’avvicinarsi di una raggio di sole anche ad occhi chiusi: illumina e scalda. L’annuncio che viene dato a questo cieco è l’annuncio che può ridare speranza alla nostra vita: <Passa Gesù, il Nazareno!> (18, 36). E quando il Signore passa nella nostra vita non lo fa con l’aria del seduttore che si impone, ma con l’atteggiamento di chi, avendo occhi e cuore per l’altro, sa lasciarsi toccare fino a fari fermare dalla sofferenza e dal desiderio: <Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui> (18, 40). Un testo di Gregorio Magno ci porta al cuore dell’esperienza del cieco che diventa la nostra stessa chiamata: <Attraverso l’impegno attivo della nostra vita seguiamo quel Gesù che percepiamo nella nostra anima. Guardiamo con attenzione la strada attraverso cui egli cammina e seguiamone le tracce imitandolo. Perché seguire Gesù, significa imitarlo>1.

Imitare il Signore Gesù significa prendere continuamente le distanze da quell’atteggiamento seduttivo che troviamo nella prima lettura per essere capaci di mettersi in ascolto del bisogno e del desiderio dell’altro fino a riconoscerne tutta la preziosità inviolabile: <La tua fede ti ha salvato> (18, 42).


1. GREGORIO MAGNO, Omelie sui Vangeli, II, 2, 8.

In mezzo

XXXIII Domenica T.O.

Le parole con cui il Signore Gesù ci accompagna verso la fin di questo anno liturgico possono stupire, ma in realtà non stupiscono affatto. Ciò di cui parla il Signore, infatti, non è nulla di nuovo, le cose che presenta ai suoi ascoltatori, sono realtà terribilmente ordinarie nella vita della nostra umanità, sia a livello esterno e catastrofico come possono essere i terremoti, sia per quanto riguarda le tragedie relazionali che si consumano nell’ambito delle nostre relazioni più care. In tal modo il Signore ci chiede di non lasciarci distrarre dagli eventi che sembrano straordinari per rimanere attenti, vigilanti e profondamente centrati sul centro della nostra interiorità, comprendere quale sia il nostro posto, e non lasciarlo – per nessun motivo – fino all’ultimo. La consegna non lascia dubbi: <Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita> (Lc 21, 19). Il regno di Dio, infatti, si realizza e si compie non nella sospensione o peggio ancora nella fuga dal nostro vissuto, ma “in mezzo” a tutto ciò che fa la nostra vita e quella dei nostri fratelli e sorelle in umanità.

L’apostolo Paolo non solo smorza le grandi attese escatologiche dei cristiani di Tessalonica, ma li esorta a non trasformare il desiderio e l’attesa del ritorno del Signore in un pretesto per non vivere fino in fondo le proprie responsabilità storiche, esistenziali e solidali. Anche in questo caso la consegna è chiara: <ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità> (2Ts 3, 12). Se è vero che attendiamo con desiderio grande il compiersi delle promesse e l’avvento del Regno rimane pur vero che in Cristo Gesù è stato rivelato che il regime in cui tutto ciò si può e si deve dare è quello dell’incarnazione e dell’impegno nella storia. Ciò che ci permette di guadagnare l’orizzonte escatologico è in termini di libertà e di verità, non in termini di estraniamento né di superficialità o, peggio ancora, cedendo alle gramaglie della sublimazione.

La storia non è una realtà che dobbiamo come subire in attesa che si consumi e, per così dire, ci assolva così dal grave compito di attraversarla e di trasformarla. La sfida non è quella di cominciare il conto alla rovescia della fine della storia, ma di cominciare ogni mattina a dare il proprio apporto alla storia come se fosse il primo giorno e come se fosse anche l’ultimo… come se fosse l’unico. È al cuore delle nostre vite che si incrociano magnificamente il mondo presente e quello che attendiamo nella fede, nella speranza e nell’amore. È proprio facendo esperienza dei più grandi desideri che portiamo dentro, con il necessario confronto con ciò che è segnato, invece, dal limite, dalla caducità e dall’effimero, che il Regno di Dio si costruisce oltre noi, ma mai senza di noi. Ogni situazione può e deve diventare così <occasione> per <dare testimonianza> (Lc 21, 13). Il profeta Malachia ci ricorda, con immagini forti, come <tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia> e che <quel giorno, venendo, li brucerà> (Ml 3, 19). Badiamo dunque di non lasciarci <ingannare> (Lc 21, 8) prima di tutto da noi stessi e poi dalla paglia dei nostri desideri effimeri e dei nostri possenti egoismi di cui <non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta> (21, 6).

Au milieu

XXXIII Dimanche T.O. –

Les paroles avec lesquelles le Seigneur Jésus nous accompagne vers la fin de cette année liturgique peuvent étonner, mais, en réalité, elles ne surprennent pas du tout. Ce dont parle le Seigneur, n’est, en fait, rien de nouveau, les choses qu’il présente à ses auditeurs sont des réalités terriblement ordinaires dans la vie de notre humanité, soit  d’un point de vue extérieur et catastrophique, comme peuvent l’être des tremblements de terre, ou en ce qui concerne les tragédies relationnelles qui se jouent dans le contexte de nos relations les plus chères. De cette façon, le Seigneur nous demande de ne pas nous laisser distraire par les événements qui semblent extraordinaires, pour rester attentifs, vigilants et profondément concentrés sur le point central de notre intériorité et comprendre quelle est notre place, sans l’abandonner – sous aucun prétexte – jusqu’à la fin. La consigne ne laisse aucun doute : «  Par votre persévérance, vous sauverez votre vie » ( Lc 21, 19 ). En effet, le règne de Dieu se réalise et s’accomplit, non par l’arrêt ou pire encore par la fuite de notre vécu, mais «  au milieu » de tout ce qui fait notre vie et celle de nos frères et sœurs en humanité.

L’apôtre Paul, non seulement atténue les grandes attentes eschatologiques des chrétiens de Thessalonique, mais il les exhorte à ne pas transformer le désir et l’attente du retour du Seigneur en un prétexte pour ne pas vivre entièrement ses propres responsabilités historiques, existentielles et solidaires. Dans ce cas aussi, la consigne est claire : « Nous vous recommandons de gagner le pain en travaillant avec tranquillité » ( 2 Th 3, 12 ). S’il est vrai que nous attendons avec un grand désir l’accomplissement de la promesse et l’avènement du Règne, il est également vrai qu’il a été révélé dans le Christ Jésus et que le schéma prévu pour que tout cela puisse et doit se réaliser est l’incarnation et l’engagement dans l’Histoire. Ce qui nous permet de rejoindre l’horizon eschatologique est, en termes de liberté et de vérité, non en termes  d’éloignement ni de superficialité, ou, pire encore, en cédant aux chants des sirènes de la sublimation.

L’Histoire n’est pas une réalité que nous devons subir en attendant, pour ainsi dire, qu’elle se consume ou qu’elle nous absolve de l’important devoir de la traverser et de la transformer. Le défi n’est pas de commencer le compte à rebours à partir de la fin de l’Histoire, mais de commencer chaque matin à donner notre propre contribution à l’Histoire, comme si c’était le premier jour ou aussi le dernier…comme si c’était l’unique. C’est au coeur de nos vies que se croisent magnifiquement le monde présent et celui que nous attendons dans la foi, l’espérance et l’amour. C’est justement en faisant l’expérience des plus grands désirs que nous portons en nous, au contact de l’affrontement nécessaire  de ce qui nous est indiqué par les limites, la précarité et le provisoire, que le Règne de Dieu se construit malgré nous, mais jamais sans nous. Chaque situation peut et doit devenir ainsi « une occasion » pour «  donner un témoignage » ( Lc 21, 13 ). Le prophète Malachie nous rappelle par de fortes images combien «  tous ceux qui commettent l’injustice seront comme de la paille » et que «  le jour venu, Il les brûlera » ( Mi 3, 19 ).  Soyons donc prudents de ne pas nous laisser « tromper » ( Lc 21, 8 ) tout d’abord par nous-mêmes et ensuite par la paille de nos désirs éphémères et de nos puissants égoïsmes dont «  il ne restera pas pierre sur pierre : tout sera détruit » ( 21, 6 ).

Strada

XXXII settimana T.O. –

La memoria dell’Esodo si fa profezia quotidiana per aiutare, sostenere e orientare il nostro cammino, attraverso i tempi e le stagioni della vita, verso una più profonda esperienza di libertà e di verità: <il Mare Rosso divenne una strada senza ostacoli e i flutti violenti una pianura piena d’erba> (Sap 18, 7). Lasciandoci ispirare da questo versetto della Sapienza per interpretare la parabola del Signore Gesù <sulla necessità di pregare sempre> (Lc 18, 1), potremmo immaginare la preghiera come l’arte di spianare la strada alla vita! La forza della <vedova> (18, 3) di cui ci parla il Signore Gesù sta proprio nella sua disperazione. In realtà questa donna non ha più niente da perdere ed è proprio per questo che può permettersi il “lusso” della povertà di andare <continuamente> (18, 5) ad importunare il giudice che, al contrario, ha da perdere almeno il suo tempo e la sua quiete. Il fatto che il Signore Gesù faccia ricorso all’immagine di una vedova importuna e la offra come modello non solo di preghiera, ma – prima ancora – di vita, non può lasciarci insensibili.

Il cammino del credente sembra essere quello di spianare continuamente una strada facendo sì che emerga la <terra asciutta> proprio <dove prima c’era acqua> (Sap 18, 7). In tal modo la preghiera diventa il luogo di trasformazione per eccellenza e non il modo per sottomettere se stessi ad una cieca e, troppo sovente, triste rassegnazione. Aprire il proprio cuore a Dio, manifestando i propri bisogni e presentando le proprie necessità, è prima di tutto un atto di coraggio che ci permette di fare la nostra professione di fede in una speranza mai sopita: le cose, le realtà, persino le persone e, prima di tutto noi stessi, possono e possiamo cambiare, devono e dobbiamo accettare di essere trasformate. Già questo passo verso la speranza che si fa preghiera e implorazione è, per certi aspetti, un sottile esaudimento della preghiera. Questo perché la preghiera non ci fa soggiacere in modo passivo, ma ci sottrae alla tentazione di farci complici di quella muta rassegnazione che sarebbe tanto gradita a quanti assomigliano a quel <giudice che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno> (Lc 18, 2).

La preghiera è capace di far crollare il muro dell’indifferenza e dell’autoreferenzialità, per questo, ben aldilà del suo esito puntuale e visibile, è la più grande e la più duratura forma di resistenza a tutto ciò che rischia di imprigionare nella palude del <Mar Rosso> (Sap 18, 7). In questo mare infido rischia di annegare la speranza e di essere annientata la libertà di desiderare e di immaginare un futuro migliore o, almeno, diverso. Per questo, se la preghiera è un fuoco capace di discernere come <spada affilata> (18, 15) ogni ripiegamento sul proprio piccolo ego, ha bisogno – per divampare – della scintilla della fede come apertura a un di più e a un diverso che sempre disturba e rimette in cammino, come il popolo stretto nella disperazione di trovarsi con il mare davanti e il Faraone alle spalle. Allora la domanda del Signore Gesù è veramente una <spada>: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 8). La fede è, infatti, come una strada si cui camminare e senza la quale ogni cammino sarebbe impensabile.

Affascinati

XXXII settimana T.O. –

Cosa c’è di più bello e di più santo che essere <affascinati> (Sap 13, 3) dalla <bellezza> dell’universo, come pure essere emozionati da tutte le bellezze che abitano il nostro cuore di umani? Eppure, la Sapienza ci mette in guardia dal rischio di fermarci troppo presto e di lasciarci così irretire <dall’apparenza> solo <perché le cose viste sono belle> (13, 7). L’invito è di partire dal fascino per andare oltre, verso una comprensione sempre più piena del mistero della vita in cui si riflette il dono generoso di Dio come Creatore e <sovrano> (13, 8) di tutte le cose. Ciò che l’Altissimo si aspetta da noi non è, certo, una servile sottomissione alla sua gloria, bensì un pieno esercizio dei doni di cui, nella creazione e nella redenzione, ci ha ricolmati perché potessimo portarli a pienezza con la nostra intelligenza e il nostro amore. L’esortazione della Sapienza suona come un continuo ampliamento della coscienza: <pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza> e ancora <pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati> (13, 3-4).

Questo appello alla nostra intelligenza di creature è un atto di rispetto e di onore verso di noi da parte del Creatore il quale esige, come ricambio, il fatto che sappiamo fare tesoro delle nostre possibilità senza fermarci troppo in fretta alle apparenze tanto da confondere il segno con il Significato. Se cadessimo in questa trappola non faremmo che confonderci su noi stessi come avvenne ai tempi dei patriarchi: <mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti> (Lc 17, 27). Forse il vero motivo di questo disorientamento così radicale è che i nostri padri avevano scambiato se stessi per degli <dèi> (Sap 13, 3). Pietro Crisologo commenta così l’atteggiamento di Dio: <Al momento del diluvio, la sua vendetta purificò la terra dal male che sembrava ormai così inveterato. Per questo chiamò Noè a generare un mondo nuovo, lo incoraggiò per questo con dolci parole. Così lo onorò con la sua fiducia familiare, lo istruì con bontà sul presente e lo consolò, con la sua grazia, riguardo al futuro. Piuttosto che dargli degli ordini lo rese partecipe del suo progetto e racchiuse così nell’arca il seme del mondo intero, affinché l’amore della sua alleanza facesse superare il timore della schiavitù cosicché una comunione d’amore potesse conservare ciò che lo sforzo comune era riuscito a salvare>1.

Ancora continua il dramma di ciò che potremmo definire il mistero continuo e sempre presente della salvezza della nostra umanità in cui siamo personalmente e perennemente coinvolti. Il Signore ci consegna la regola perché <l’ignoranza> (Sap 13, 1) non ci inganni: <Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva> (Lc 17, 33). Una vita viva è sempre rivelazione di Dio, ma ciò che ci rende veramente vivi come <il fuoco o il vento o l’aria veloce> (Sap 13, 2), è il saper dare la vita ritrovando continuamente, a contatto e alla scuola della verginale bellezza della natura, la nostra remota consapevolezza che è la nostra gioia più segreta: essere creature di Dio, affascinate dalla sua infinita bellezza e non prigioniere della propria piccola prestanza.


1. PIETRO CRISOLOGO, Sermoni, 147; PL 52, 594.

Veloce

XXXII settimana T.O. –

Il Signore risponde alla provocazione degli scribi e dei farisei con una nota che ha persino qualcosa di comico: <Vi diranno: “Eccolo là”, oppure “Eccolo qui”; non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno> (Lc 17, 23-24). Come i farisei all’epoca di Gesù e i profeti di ventura e sventura di tutti i tempi, anche noi siamo tentati di programmare in giorni, più o meno vicini o più o meno lontani, la manifestazione del regno di Dio. Ma nulla e nessuno possono tenere sotto controllo l’irrompere della presenza di Dio nel nostro quotidiano tanto da renderlo un anticipo reale di ciò che attendiamo e speriamo. Per sostenere e rettificare ogni nostra attesa, il Signore Gesù non ci tiene nell’ignoranza, né consegna il nostro cuore ad un’inutile sospensione: <Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!> (17, 21). A questo punto potremmo riprendere, versetto per versetto, la prima lettura e pregare come una litania, applicando le qualità della Sapienza di Dio – al suo rivelarsi in Cristo Signore – come piena manifestazione del suo essere presente non solo in mezzo a noi, ma prima di tutto e soprattutto, dentro di noi.

Forse la prima di queste qualità potrebbe essere questa: <La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa> (Sap 7, 24). Per questo motivo non è assolutamente possibile controllarne o dirigerne il movimento. Al contrario, l’unico modo è di lasciarsi prendere dal suo flusso di vita, tanto da entrare completamente nel movimento di quella grazia che <E’ effluvio della potenza di Dio ed emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa> (7, 25). Quello che la Sapienza indica come <effluvio> per noi ha un volto e un nome: Gesù! La sua presenza non è qualcosa che possiamo inseguire o dirigere a nostro piacimento, ma solo accogliere con gratitudine e umiltà poiché veramente è <più radiosa del sole e supera ogni costellazione>, come pure <paragonata alla luce risulta più luminosa> (7, 29).

Non ci sarebbe nulla di più ridicolo che andare a caccia di stelle come i bambini, con le loro reti, vanno gioiosamente a caccia di farfalle. Davanti al cielo trapuntato di stelle l’unico atteggiamento serio e degno è quello della contemplazione, dell’ammirazione, dell’accoglienza. Così per il mistero del regno di Dio la domanda giusta non è <Quando verrà…?> (Lc 17, 20). La questione è di mettersi nella condizione di accogliere il “come” – concreto e quotidiano – con cui il Regno di Dio si invera nella nostra vita e nella nostra storia: <Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione> (17, 25). È qui che si fa la differenza: nella capacità di accogliere il dono del regno di Dio nella forma in cui il Signore Gesù ce lo ha annunciato e lo ha reso presente alla nostra vita nella sua persona. Sì, è la croce che <governa a meraviglia l’universo> (Sap 8, 1) e <passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti> (7, 27).

Sempre Lui

XXXII settimana T.O. –

Forse, in realtà,  è lo stesso Signore – lui che è anche l’unico verso buon samaritano (Lc 10, 33) – ad essere questo unico lebbroso che torna per ringraziare. In ogni modo, tra quell’unico che tornò indietro sui suoi passi e il Signore Gesù, possiamo riscontrare un’intesa senza la quale nessuna esperienza di profonda e totale salvezza sarebbe mai possibile. Non per altro è a quest’uomo che il Signore rivolge la parola, una parola che riconosce, normalmente, la bontà e la verità dell’intuizione e del cammino: <Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato> (Lc 17, 19). Siamo ammirati e conquistati da quest’uomo che ritorna sui suoi passi e che, dopo l’incontro personale e così grato con il Signore Gesù, non solo non enfatizza l’elogio che gli viene accordato, ma neppure – approfittando e amplificando la lode di cui è oggetto – mette in cattiva luce i suoi compagni di malattia che sono divenuti compagni di guarigione. Del resto non poteva essere molto diverso! Nella sventura poteva accompagnarsi ad altri, ma una volta guariti dalla lebbra, i suoi compagni l’hanno lasciato solo non solo a ringraziare, ma pure a vivere, perché egli è <samaritano> e, in certo modo, ai loro occhi resta “lebbroso”. 

E allora, proprio e solo allora, questo samaritano riesce a comprendere che l’unico con cui può condividere la sua esperienza e la sua gratitudine è il Signore Gesù, esperto di ogni debolezza e fine conoscitore di ogni emarginazione, soprattutto quella dovuta agli imperativi religiosi. La domanda sembra naturale, ma forse è ben più gravida di conseguenze di quanto si possa immaginare a prima vista: <E gli altri nove dove sono?> (17, 17). Si potrebbe parafrasare a questo punto ciò che la Sapienza dice di quanti sono posti più in alto e parlare di quanti sono stati oggetto di una benevolenza e di una grazia veramente particolari: <poiché il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto. Gli ultimi infatti meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore> (Sap 6, 5-6).

Come può insinuare il Signore Gesù che i nove lebbrosi non hanno la fede? Di fatto non hanno atteso di essere guariti per presentarsi ai sacerdoti, ma vi sono andati direttamente sulla sua parola… non sono i sacerdoti che danno la guarigione ma solo la constatano (Lv 14). In una parola i dieci lebbrosi mettendosi in cammino dimostrano tutta la loro fede, ma ciò che fa la differenza è la capacità di riconoscenza. Il Samaritano tornando indietro dice che per lui lodare Dio e ringraziare Gesù sono cose inseparabili. Tutto questo rivela ciò che manca agli altri nove: la capacità di essere solidali con il loro “fratello” samaritano. Con lui hanno condiviso la supplica, ma, una volta guariti, lo lasciano tornare sui suoi passi da solo visto che non sarebbe potuto entrare al tempio con loro perché: <Era un Samaritano> (Lc 17, 16). Una reminiscenza del Vangelo secondo Giovanni ci aiuta a cogliere la più grande profondità di questo episodio perché i notabili del popolo, a corto di accuse e di tranelli, non troveranno di meglio – ossia di peggio – che scagliarsi contro Gesù con queste parole: <Non diciamo con ragione che sei un Samaritano e hai un demonio?> (Gv 8, 48). Per aprire a tutti la via della vita, non solo il Cristo si è fatto buon samaritano di tutte le nostre ferite, ma ha accettato – per noi e per la nostra salvezza – di farsi considerare anche “cattivo samaritano”… sempre Lui!

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