Posseduti

X Settimana T.O. –

L’apostolo Paolo sembra levare un grido che è in grado di raggiungere, fino a toccare e scuotere ancora, il nostro cuore: <l’amore del Cristo ci possiede> (2Cor 5, 14). Questa splendida affermazione potrebbe diventare un’esigentissima domanda: <L’amore di Cristo ci possiede?>. Quando si pensa alla “possessione” si pensa quasi automaticamente, e talora in modo alquanto malato, a qualcosa che ha a che fare con le forze che si oppongono – dentro e fuori di noi – ai dinamismi della grazia. Paolo ci ricorda che vi è la possibilità di lasciarsi possedere dall’amore del Cristo, un amore che diventa il luogo di genesi di ogni altro amore necessario alla bellezza della nostra vita come pure della vita degli altri. La parola tagliente del Signore Gesù getta ancora più luce sull’affermazione paolina: <Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno> (Mt 5, 37). In questo detto infuocato del Signore con cui rischiamo di scottarci ogni giorno l’anima, è racchiuso un criterio di discernimento assolutamente necessario: <il di più viene dal Maligno>.

Ciò significa che tutto ciò che è ispirato nel nostro cuore dalla grazia di Dio, porta il segno dell’essenzialità, della discrezione e del basso profilo. Sono questi atteggiamenti che si basano sulla coscienza calma della propria realtà segnata dalla bellezza di un limite da accogliere ogni giorno: <Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello> (5, 36). Non avere bisogno di fare giuramenti significa dare alla propria parola un peso che nasce dal cuore e dalla responsabilità nel portare le conseguenze di quanto viene proferito dalla bocca. Appoggiarsi sull’autorità del <cielo> e della <terra>, di <Gerusalemme> e perfino sulla propria <testa> (5, 34-35), per il Signore Gesù sono tutte formule apparentemente solenni, che evidenziano, in realtà, un vuoto profondo che non sarebbe degno di fiducia. Il Signore ci invita ad usare la parola come luogo di impegno assumendo la stessa attitudine divina che, con la sua parola franca, crea e continuamente ricrea nella sua misericordia e nel suo perdono.

Se entriamo in questo respiro, intriso di una semplicità disarmante, ci troveremo nello stesso dinamismo che anima il continuo movimento delle maree della creazione e della redenzione. Allora, per usare una delle più belle immagini paoline, non guarderemo più la realtà alla <maniera umana> (2Cor 5, 16), ma con la stessa fiducia e lo stesso coinvolgimento che sono di Dio. Per questo, ad ognuno è richiesta un’esigente disciplina della parola, la stessa che nasce da un profondo ordine del cuore. La reciproca lealtà e il richiamo umile al fondamento della Parola, non hanno bisogno di altre garanzie se non quelle che vengono da un amore autentico. Come annotava nel suo Diario, Etty Hillesum: <ogni giorno abbiamo il compito di cercare e di trovare due parole essenziali capaci di dire l’essenziale della vita che è sempre come una pausa tra due parole, tra due amorevoli silenzi>.

Spirito di fede

X Settimana T.O. –

L’apostolo Paolo evoca il necessario <spirito di fede> (2Cor 4, 13) per poter vivere il proprio cammino spirituale e affrontare la gioiosa fatica delle proprie fedeltà. La fede come espressione profonda di legame con la presenza di Dio che anima e accompagna ogni passo della nostra esistenza è ciò che ci permette di custodire tutte le realtà importanti della nostra vita e, in modo del tutto particolare, quelle che sono il frutto delle nostre scelte come <un tesoro in vasi di creta> (4, 7). La duplice consapevolezza della preziosità e della fragilità di ciò che sta al cuore della nostra vita che non può darsi se non attraverso relazioni significative e impegnative dovrebbe darci la capacità di non desistere davanti alle difficoltà, ma di lasciarci interrogare dalle fatiche della vita così come ci lasciamo infiammare e ispirare dalle grandi emozioni e dai profondi sentimenti senza i quali la vita non meriterebbe questo, in verità, questo nome.

Lungi da noi assolutizzare nel senso di decontestualizzare la parola che il Signore Gesù dona a ciascuno di noi nel Vangelo di quest’oggi! L’insegnamento sull’<adulterio> (Mt 5, 32) si trova nel grande discorso della montagna con il quale il Signore insegna ai suoi discepoli ad accogliere i comandamenti di Dio nella loro formulazione tradizionale risalente al profeta Mosè non come dei macigni che stritolano la vita – normalmente quella degli altri – ma come cammini aperti di umanizzazione e di crescita in autenticità personale e fedeltà relazionale. Laddove, non solo in antico ma pure ai nostri giorni, ogni crisi relazionale – tra cui quella coniugale è la più forte a livello sia esistenziale che simbolico – rischia di risolversi nella ricerca di un colpevole e nell’incrocio penoso di accuse, il Signore Gesù si rivolge direttamente e, per certi aspetti, esclusivamente, al cuore di chi lo sta ascoltando: <Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo… E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo> (Mt 5, 29-30).

In questo modo il Signore Gesù ci chiede sempre di ripartire da noi stessi e dal più intimo del nostro cuore per comprendere bene che cosa vogliamo in verità e quale prezzo di dono e, necessariamente, di rinuncia, siamo disposti a pagare per essere fedeli prima di tutto non tanto all’altro cui abbiamo legato e talora consacrato la nostra vita, ma essenzialmente a noi stessi accolti non come mistero autoreferenziale, ma come mistero di comunione, di dono, di amore. Solo in questo contesto di radicalizzazione delle esigenze del cuore che è l’anima di tutto il discorso della montagna possiamo lasciarci interpellare senza trasformarla in una clava da abbattere sul nostro prossimo dalle parole del Signore: <chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore> (5, 28). Tutti noi conosciamo la forza talora irruente del desiderio che è capace di incendiare il nostro cuore e di accendere i nostri sensi. Il Vangelo ci chiede la forza di saper nominare e dominare le nostre passioni disordinare per guardare chiunque non per desiderare nel senso di possedere ma per amare nel senso di liberare il cui primo segno è l’assoluto rispetto della sua libertà in <spirito di fede>.

Libertà

X Settimana T.O. –

L’apostolo Paolo non lascia dubbi: <Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà> (2Cor 3, 17). Potremmo parafrasare questo testo paolino dicendo che il Signore è libertà e non si tira indietro davanti all’esigenza di andare oltre tutti i limiti persino quelli del buon senso o della consuetudine con una capacità di andare sempre più al cuore e all’essenza delle realtà: <Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio> (Mt 5, 22). Se i grandi mali cominciano sempre con piccole distrazioni e sottovalutazioni del bene, il cammino di una pienezza di relazione con i nostri fratelli passa sempre attraverso l’attenzione a quei piccoli semi di consapevolezza e d’amore che assicurano, nel tempo, il grande raccolto della misericordia. Il Signore Gesù ci esorta: <se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli> (Mt 5, 20).

Il Maestro non si accontenta di esortarci, ma si fa esempio di una capacità di lettura del reale che si fa sapiente e coraggiosa interpretazione delle Scritture. Superare non significa, nel linguaggio evangelico, mettere da parte, ma andare oltre come si fa percorrendo una strada o salendo una scala: per fare il passo seguente bisogna assicurare al meglio quello precedente per non cadere e farsi male o, peggio ancora, fare del male. Il nostro cuore è un laboratorio quotidiano di perdono poiché è proprio nella capacità di superare la cieca logica di una giustizia meccanica che ci rendiamo diafani alla presenza dello Spirito di Cristo in noi che si fa visibile e percepibile per quanti ci incontrano. In tal modo si compie in noi oltre che per noi la Scrittura: <E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore> (2Cor 3, 18).

Se siamo sinceri dobbiamo riconoscere come spesso il <Vangelo rimane velato> (4, 3) nella nostra vita di apprendisti discepoli ogni volta che facciamo fatica a credere nella necessità terapeutica di un perdono continuamente ricevuto e ridonato… sempre scambiato come il dono più prezioso e il più necessario alla vita e al suo incremento dentro di noi e attorno a noi: <Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo> (4, 1). Concretamente questa decisione per il perdono si esprime in una capacità di decisione senza rimando alcuno e che non ha bisogno di nessun confronto o approvazione esterne perché si consuma nell’intimità di un cuore esposto alle esigenze della misericordia: <Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono> (Mt 5, 23-24). In questo breve ma così intenso viaggio dall’altare al fratello e dal fratello all’altare si rivela il nostro grado di libertà per questo le parole che riprendiamo al salmo responsoriale possono diventare il grido della nostra supplica in questo giorno: <Donaci occhi, Signore, per vedere la tua gloria>!

Strada

S. Barnaba –

La raccomandazione del Signore Gesù ai suoi apostoli è valida per i discepoli di ogni luogo e di sempre: <Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino> (Mt 10, 7). È chiaro che nulla si potrebbe vivere e condividere <strada facendo> se non si facesse il primo passo quello di “fare strada” con gli altri! La memoria dell’apostolo Barnaba è l’occasione per riaccogliere il mistero del ministero apostolico in modo sganciato dal numero dei <Dodici> per sentire meglio che essere apostoli può significare molto più che essere annoverati nello stretto numero di quanti sono celebrati come colonne e fondamenta della realtà della Chiesa. Nella prima lettura possiamo contemplare come la <grazia di Dio> (At 11, 23) è ancora all’opera e spinge Barnaba a <cercare Saulo> (11, 25) nella coscienza di dover mettere tutte le migliori possibilità al servizio dell’annuncio del Vangelo di Cristo da annunciare <gratuitamente> (Mt 10, 8) come gratuitamente lo si è ricevuto. Siamo così messi di fronte a ciò che potremmo definire il dinamismo proprio di ogni respiro di evangelizzazione: la coscienza grata di essere stati raggiunti dalla grazia di Dio genera un movimento naturale che spinge a cercare gli altri là dove sono senza mai attenderli al varco di dove noi siamo stati posti non certo per nostro merito.

Non solo, l’insegnamento del Signore sottolinea oltre che la gratuità assoluta che esige la condivisione del dono ricevuto, anche una capacità di mettersi sulla strada degli altri senza attendere che siano gli altri a venire verso di noi: <In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti> (10, 11). Se meditiamo questa consegna del Signore ai suoi discepoli e ne contempliamo la sua continuazione esistenziale e attiva nella vita delle prime comunità cristiane, ci rendiamo conto di come non ci sia fedeltà al Vangelo che non sia eccentrica e centrifuga per sua stessa natura. Di Barnaba ci viene detto che è capace di rendersi conto di quanto la grazia sia all’opera nella vita della comunità fino ad essere capaci di intuire il tesoro di possibilità che si cela nel cuore dell’ultimo arrivato che è Saulo tanto che <si rallegrò ed esortava tutti a restare, con cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso che era e pieno di Spirito Santo e di fede> (At 11, 23-24).

Il programma di viaggio della grande avventura dell’evangelizzazione si riassume in qualche verbo: <Guarite… risuscitate… purificate… scacciate i demoni> (Mt 10, 8). Tutto ciò, secondo le indicazioni e l’esempio del Signore, va vissuto e condiviso in uno stile dominato e informato da un avverbio: <gratuitamente>. Ambedue le cose sembrano impossibili senza un atteggiamento di libertà da se stessi che si esprime attraverso una sorta di spoliazione previa necessaria: <né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone> (10, 10). Tutto ciò per Barnaba significherà fare un passo indietro nel gruppo dei “nuovi apostoli” dando tutto lo spazio all’astro nascente che fu Paolo. Barnaba sembra essere un apostolo di seconda classe come noi, con il privilegio di essere tra quei <piccoli> che il Signore pone nella comunità come misura e criterio di discernimento.

Conferma

X Settimana T.O. –

Quella del Signore Gesù è una parola che forse non riusciamo a cogliere in tutta la sua portata e la sua importanza abituati come siamo ormai ad avere a disposizione tutti gli alimenti di cui abbiamo bisogno. Ma nei tempi antichi il sale era un bene primario perché andava prodotto con grande cura e portato in quelle zone in cui non si sarebbe potuto trovare. In alcuni rituali di accoglienza, come segno di attenzione verso l’ospite, gli si offriva oltre che il pane anche un po’ di sale. E il Signore Gesù pensando ai suoi discepoli, pensando a noi che desideriamo essere annoverati tra i suoi discepoli ci dice ancora una volta e in modo così diretto: <voi siete il sale della terra, ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrebbe rendere salato?>. E come se non bastasse a farci temere di essere comunque inadeguati al nostro compito e alla nostra missione di presenza e di testimonianza in mezzo ai fratelli, aggiunge: <Voi siete la luce del mondo> (5, 14).

Ciò che nel vangelo secondo Giovanni è continuamente riferito allo stesso Signore (Gv 8, 12) quale <luce vera> (1, 9) e al profeta Giovanni suo Precursore indicato come <lampada> (5, 35) gioiosa qui viene riferito con la stessa intensità a ciascuno di noi: <così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al vostro Padre che è nei cieli> (Mt 5, 16). Proprio Matteo che tra poco insisterà sulla necessità di compiere ogni cosa <nel segreto> (Mt 6, 4.6.18), subito dopo aver elencato le beatitudini è come se invitasse chiunque ne sperimenti nella propria esistenza una piccola scintilla a non tenerla <nascosta> (5, 14) come <un tesoro geloso> (Fil 2, 6) ma, al contrario, di condividerla come si fa con la luce di una candela in piena notte e di un pugno di sale in cucina. Davanti a questo mistero di dono, che siamo noi stessi tanto da essere obbligati a donare e a condividere a nostra volta, possiamo fare veramente nostre la parole di Paolo: <E’ Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori> (2Cor 1, 24).

In altre parole, dobbiamo continuamente tenere desta la memoria che la fonte della nostra luce non è in noi stessi ma viene da Dio; la fragranza del gusto della nostra vita non è frutto della nostra sagacia, ma è partecipazione alla sapienza che viene dallo Spirito. Una simile consapevolezza non può che generare un atteggiamento di grande disponibilità alla condivisione sempre unita ad una profonda discrezione. Infatti, non siamo <padroni della vostra fede> ma <collaboratori della vostra gioia> (1, 24). La conclusione di Paolo è assai interessante: <perché nella fede voi siete già salvi>. Questo modo di guardare alla vita degli altri come già perennemente abitata dalla presenza del <Figlio di Dio, Gesù Cristo> (1, 19) rende tutto più semplice e più bello. Non si tratta di apportare nulla di nuovo nella vita dei nostri fratelli ma, semplicemente, di scoprirvi e mettere <sul lucerniere> (Mt 5, 15) ciò che già li abita profondamente, ciò che già – forse a nostra insaputa e sempre in modo invisibile – dà sapore e gusto alla nostra stessa vita. Non siamo forse tutti chiamati ad essere <collaboratori> (2Cor 1, 24) della gioia?!

Fratelli tutti

Maria Madre della Chiesa –

Non siamo ancora abituati a vivere questa memoria mariana istituita da papa Francesco per il giorno dopo la solennità della Pentecoste. Il testo degli Atti degli Apostoli proposto per la Liturgia della Parola risuona come una sorta di protocollo per la vita della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo: <Entrati in città, salirono nella stanza al piano superiore, dove erano soliti riunirsi> (At 1, 13). Laddove i Dodici, quasi certamente accompagnati e non solo serviti dalle donne, avevano vissuto il momento della cena pasquale alla vigilia della passione del Signore, il nucleo fondamentale della prima comunità dei discepoli del Crocifisso Risorto, attende il dono promesso dello Spirito. Secondo la cronologia lucana, se la comunione nella carità è il frutto più maturo dell’effusione dello Spirito, ne è pure la premessa essenziale: <Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui> (1, 14).

Questa memoria voluta da papa Francesco per l’intera Chiesa cattolica assume un significato emblematico alla luce dell’ultima enciclica di papa Francesco firmata sulla tomba del Poverello alla vigilia della sua festa: <”Fratelli tutti, scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui”. Con queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita>. 

Il seme di questa universale fraternità è stato fatto cadere si piedi della croce del nostro amato Signore nel momento in cui redasse il suo testamento di tenerezza con la penna della croce e l’inchiostro indelebile del suo sangue versato: <Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé> (Gv 19, 25-27. 

All’indomani dello spegnimento del cero pasquale, che ha rallegrato con la sua colonna di luce le nostre assemblee liturgiche, siamo chiamati a ritornare sotto l’albero della croce. Là possiamo cogliere il frutto non proibito di una tenerezza e di un amore che sono l’univo vero antidoto ad ogni tentazione di regressione all’autoreferenzialità mortifera. La <paura> (Gen 3, 10) sperimentata dalla nostra umanità subito dopo aver acconsentito alla suggestione di potersi dare la pienezza di vita prendendola con le proprie mani, si trasforma in <stupore> (Mc 16, 8) rinnovato. Dopo aver celebrato di nuovo la Pasqua, riprendiamo il nostro cammino nel tempo ordinario nello stupore di un amore che non si lascia vincere da nessuna <paura> perché radicato nella bellezza di camminare insieme e nella promessa che siamo comunque sorelle tutte e fratelli tutti.

Il tuo nome è Altro, alleluia!

PENTECOSTE

La promessa che il Signore Gesù fa ai suoi discepoli alla vigilia della sua passione oggi risuona al nostro cuore in tutta la sua forza e profondità: <Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre>. Ogni volta che facciamo esperienza di altro al di fuori di noi, ogni volta che ci apriamo all’altro… è Pentecoste. La maturità del dono pasquale di Cristo Risorto è come un frutto che finalmente si fa cogliere e, volentieri, si fa gustare per trasmettere ad altri quella vita che ha saputo accogliere in sé. Infatti, l’esperienza non certo vuole morire, con se stessa, ma, per sua natura, chiede di essere trasmessa gioiosamente. Meditando sul mistero della Pentecoste, Antonio da Padova così contempla: <Un rombo accompagna l’arrivo di colui che veniva ad ammaestrare i fedeli. Notate quanto questo si accorda con ciò che leggiamo nell’Esodo: “Appunto il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo fu scosso da tremore” (19,16). Il primo giorno fu l’Incarnazione di Cristo; il secondo fu la sua Passione; il terzo giorno, è la missione dello Spirito Santo. Questo giorno sta arrivando: si sente il tuono, si ode un suono fortissimo; i lampi brillano – i miracoli degli apostoli – una nube densa – la compunzione del cuore e la penitenza – copre il monte, il popolo di Gerusalemme>1.

In realtà, siamo al cinquantesimo giorno dopo la Pasqua di risurrezione, ma viviamo, ancora una volta e in modo ancora più intenso, la grazia del primo e del terzo, del settimo e dell’ottavo giorno che simbolicamente rimandano sempre ad un passaggio della grazia che ci permette di accogliere i doni divini per farli fruttificare nella nostra vita. La mattina di Pentecoste è per la Chiesa l’inizio del suo porsi al cuore dell’umanità come sale e come lievito, capaci di scomparire senza per questo essere assenti. Dopo il trauma della passione e lo shock della risurrezione, finalmente gli apostoli vengono spinti fuori dal cenacolo per rivelarsi come la Chiesa che sta sulla soglia ove l’incontro e il confronto generoso con l’altro è obbligato e desiderato. Proprio quando lo Spirito promesso dal Risorto finalmente <riempì tutta la casa dove stavano> (At 2, 2), i discepoli non sentono più il bisogno di trattenersi all’interno, ma vengono come catapultati all’esterno per farsi prossimi a tutti. 

La vita irrompe come <un rombo dal cielo> (At 2, 2) perché viene da oltre noi stessi e le nostre storie penetrando magnificamente nella nostra esistenza! La vita fa irruzione come <come vento gagliardo> (2, 2) e penetra in ogni angolo più recondito del nostro cuore scuotendoci fin nelle pieghe più nascoste. La vita è come <lingue di fuoco> (2, 3) e si comunica a noi come particella divina che attende di assumere i tratti di un volto preciso, il nostro e un timbro speciale quello della <nostra lingua nativa> (2, 8) che ci definisce fino in fondo, consegnandoci all’altro in dono d’amore gratuito, totale… e in tutta la sua vulnerabilità. Portando a compimento i giorni della letizia pasquale, siamo richiamati all’urgenza di fare posto a quel principio Altro che è la presenza dello Spirito del Risorto al cuore della nostra vita di credenti, presenza che fa di noi il Corpo di Cristo, la Chiesa che non è mai per se stessa, ma per il mondo!


1. ANTONIO DA PADOVA, Omelie per la domenica e le solennità dei santi.

Ton nom est Autre, alléluia !

PENTECOTE –

La promesse que le Seigneur Jésus fait à ses disciples à la veille de sa passion, résonne aujourd’hui dans notre coeur avec toute sa force et sa profondeur : «  Si vous m’aimez, vous observerez mes commandements ; et moi, je prierai le Père et il vous donnera un autre Paraclet pour qu’il reste avec vous pour toujours ». Chaque fois que nous faisons l’expérience de quelque chose d’autre, en dehors de nous, chaque fois que nous nous ouvrons à l’autre…c’est la Pentecôte. La maturité du don pascal du Christ ressuscité est comme un fruit qui se laisse finalement cueillir et, qui, volontiers se laisse goûter pour transmettre aux autres cette vie qu’il a su accueillir en lui. En fait, l’expérience ne cherche pas à disparaître par elle-même, mais, par sa nature, elle demande à être transmise joyeusement. En méditant sur le mystère de la Pentecôte, voici la contemplation d’’Antoine de Padoue : «  Un grondement accompagna l’arrivée de celui qui venait enseigner les fidèles. Remarquez comme cela correspond à ce que nous lisons dans l ‘Exode : «  Dès le troisième jour, à l’aube, il y eut des tonnerres, des lumières et une nuée dense sur la montagne et un son très fort de trompette : tout le peuple fut secoué par des tremblements » ( 19, 16 ). Le premier jour fut l’Incarnation du Christ ; le second fut sa Passion ; le troisième jour est la mission du Saint Esprit. Ce jour est en train d’arriver : l’on entend le tonnerre, l’on perçoit un bruit très fort ; les lumières brillent – les miracles des apôtres – une nuée dense – le mélange du coeur et de la pénitence – couvre la montagne, le peuple de Jérusalem »1.

En réalité, nous sommes au cinquantième jour après la Pâque de la Résurrection, mais nous vivons, encore une fois et de façon plus intense, la grâce du premier et du troisième, du septième et du huitième jour qui, nous renvoient  toujours symboliquement  à un passage de la grâce qui nous permet d’accueillir les dons divins pour les faire fructifier dans notre vie. Le matin de Pentecôte est pour l’Église, le début de sa façon d’être au coeur de l’humanité comme le sel et le levain, capables de disparaître sans pour cela être absents. Après le traumatisme de la passion et le choc de la résurrection, les apôtres sont finalement poussés hors du Cénacle pour révéler au début de l’Église combien la rencontre et la confrontation généreuse avec l’autre est obligée et désirée. Au moment où l’Esprit promis par le Ressuscité «  remplit toute la maison où ils se trouvaient » ( Ac 2, 2 ), les disciples n’éprouvent plus le besoin de se tenir à l’intérieur, mais sont comme catapultés à l’extérieur pour se faire proches de tous.

La vie fait irruption comme «  un grondement du ciel » ( Ac 2,2) car elle vient de plus loin que nous et nos histoires pénètrent magnifiquement dans notre existence ! La vie fait irruption comme «  un vent impétueux » ( 2,2 ) et il pénètre dans chaque angle le plus reculé de notre coeur nous secouant jusque dans les replis les plus cachés. La vie est comme des «  langues de feu » ( 2, 3 ) et se communique à nous comme une parcelle divine qui attend d’assumer les traits d’un visage précis, le nôtre a un timbre spécial : celui de «  notre langue maternelle » ( 2, 8 ) qui nous définit entièrement, s’offrant à l’autre en un don d’amour gratuit, total…dans toute la vulnérabilité. En accomplissant les jours de la joie pascale, nous sommes rappelés à l’urgence de laisser une place à ce fondement de l’Autre qui est la présence de l’Esprit du Ressuscité au coeur de notre vie de croyants, présence qui fait de nous le Corps du Christ, l’Église qui n’est jamais pour elle-même, mais pour le monde !


1. ANTOINE DE PADOUE, Omelie pour le dimanche et les solennités des saints.

Il tuo nome è Affitto, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Alla vigilia di Pentecoste ci congediamo dalla rilettura annuale degli Atti degli Apostoli con quest’immagine apparentemente così prosaica, Alla eppure così densa di significato: <Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento> (At 28, 30-31). In questa vita siamo veramente tutti <in affitto> e sta a noi – al nostro impegno quotidiano – di trasformare il piccolo spazio della nostra esistenza in un luogo di accoglienza in cui la testimonianza discepolare possa fluire <con tutta franchezza e senza impedimento>. Gli Atti degli Apostoli si concludono con una nota di serenità e contrassegnati da una radicale fiducia nel mondo in cui siamo chiamati a vivere e testimoniare. Sappiamo tutti che ben presto per Paolo sarebbe stata la spada a recidere la sua testa come per Pietro, la tradizione attesta la crocifissione, eppure Luca vuole congedarsi dal lettore della prima parte della storia della Chiesa in modo sereno. Certo, potranno accadere cose anche molto dure, ma non c’è nessun contesto, per quanto possa essere sfavorevole, che possa impedire l’accoglienza e l’annuncio.

Alla vigilia di Pentecoste ci congediamo dalla rilettura annuale del Vangelo secondo Giovanni con una nota che, in realtà, invece di chiudere apre ad orizzonti infiniti di esperienza e di testimonianza possibili: <Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere> (Gv 21, 25). Accanto a Paolo e Pietro ricompare la figura dell’altro discepolo <colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: “Signore, chi è che ti tradisce?”> (21, 20). In questo modo delicato, ma così efficace, il quarto Vangelo ci ricorda come la storia di ogni discepolo è unica tanto da dover evitare ogni comparazione per essere invece fedeli fino in fondo a se stessi e al proprio personale cammino. La reazione del Signore alla domanda di Pietro non lascia dubbi: <Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi> (21, 22).

In questa vita siamo <in affitto> non solo per ciò che concerne l’esistenza, ma pure per quanto riguarda la nostra vita di discepoli del cui percorso non siamo padroni, ma umile e amorosi servitori. I primi passi della Chiesa dopo la risurrezione del Signore e la possibilità di riascoltare le parole di Gesù in particolare quelle pronunciate nel Cenacolo possono e devono fare di noi dei testimoni sereni e affidabili di quel dono ricevuto che esige la fedeltà e la passione di una sequela che si rinnova ogni mattina… come l’amore… come la vita. Già le fiamme della Pentecoste riempiono l’aria e il fuoco che abbiamo acceso nella notte di Pasqua si comunica a ciascuno con tutta la sua forza e in una differenza e unicità che sono il miracolo di cui siamo ancora responsabili finché egli <venga> a riprendere possesso della casa <in affitto> che siamo noi.

Il tuo nome è Custodia, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Le ultime parole della prima lettura sono di certo già una prima conclusione – peraltro lasciata volutamente aperta dal redattore degli Atti degli Apostoli – del cammino dell’apostolo la cui situazione viene presentata da Festo ai suoi illustri ospiti: <Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio di Augusto, e così, ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare> (At 25, 21). Festo crede fermamente di essere lui a tenere in custodia Paolo, ma gli sfugge che l’apostolo vive sotto una custodia ben più sicura di quella che prepara l’incontro con l’imperatore. Festo non riesce tanto a capacitarsi di ciò che è veramente in gioco: <ma non portarono alcuna accusa di quei crimini che io immaginavo; avevano con lui alcune questioni relative alla loro religione e a un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere vivo> (25, 19). Davanti a tutto ciò Festo non può che rimanere <perplesso> (25, 20). Infatti, il mistero della risurrezione del Signore non è un’evidenza da sbandierare, ma un’esperienza da assumere fino a lasciare che la sua logica trasformi radicalmente la vita.

Mentre il tempo pasquale si avvia verso il compimento della Pentecoste, ritorniamo ai luoghi amati dal Signore Gesù che evocano i cammini all’aria aperta sotto il sole di Galilea reso ancora più amabile e profumato dalla brezza del lago di Tiberiade. Il Risorto non è un concetto, non è un’astrazione, non è un fantasma… è un compagno di strada che interpella ancora una volta la libertà del nostro cuore per fare il punto del nostro essere discepoli nell’amore. La domanda si fa non solo seria, ma quasi scorticante dopo tutto quello che è successo nei giorni della Pasqua: <Simone, figlio di Giovanni, mi ami?> (Gv 21, 16). Comincia così uno dei dialoghi più difficili della storia in cui il Signore Gesù adatta il suo desiderio alla nostra capacità reale di rispondere e di corrispondere. Alla fine, è il Signore ad arrendersi a Pietro: <Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?> (21, 17).

Paolo e Pietro sono i nostri compagni privilegiati in questo ultimo scorcio del tempo pasquale. Queste due colonne su cui poggia la fede della Chiesa di Roma che presiede alla carità di tutte le Chiese, non sono né di uguale grandezza, né dello stesso spessore, né sono fatte dello stesso materiale umano. La Chiesa di Cristo in cui ciascun discepolo è chiamato a vivere la sua avventura di discepolato non ha un’architettura esteticamente perfetta, ma si rivela attraverso forme tanto imperfette quanto capaci di lasciarsi custodire e guidare verso lidi inimmaginati e verso destini non voluti eppure così amorevolmente assunti… almeno alla fine della corsa. Le parole di Gesù a Simon Pietro permettono di fare un salto magnifico che trasforma le tre domande in una sorta di dichiarazione d’amore non fatta di sentimenti e di slanci, ma di un semplice consenso alla vita che diventa consenso alla morte: <… e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi> (21, 18). L’ultima parola rifonda le prime e le porta a pienezza: <Seguimi>. Non c’è nulla da aggiungere e c’è tutto da assumere in una custodia dell’amore che rimane un mistero… insondabile e prezioso.