Buono!

XX settimana T.O. –

Nella Liturgia della Parola che ci accompagna in questi giorni, si respira quasi una certa urgenza. Non possiamo certo dimenticare la risposta che il Signore Gesù ha dato a quel giovane che prima lo interroga e poi se ne va triste per la sua strada: <Buono è uno solo.> (Mt 19, 17). Questa immagine sembra ora ritornare in modo ancora più forte quasi come una divina provocazione lanciata verso il nostro modo di sentire e concepire i rapporti: <Oppure sei invidioso perché io sono buono?> (Mt 20, 15). La bontà di Dio si esprime in una capacità di andare oltre il merito per guardare invece al bisogno di ciascuno fino a saperlo ricolmare in pienezza. Ciò che viene detto dal Signore Gesù nella parabola non fa che confermare ciò che viene intuito dalla parabola che troviamo nella prima lettura ove: <Si misero in cammino gli alberi per ungere un re su di essi> (Gdc 9, 8). Quella degli alberi che camminano sembra un sogno che rimane sospeso nell’inconscio umano da sempre tanto da comparire in molte fiabe antiche e moderne.

Gli alberi in realtà si rifiutano tutti di regnare sui loro simili perché sono ben paghi della loro realtà. Alla fine solo il rovo si lascia corrompere per così dire da se stesso e dalla sua propria stoltezza: <Se davvero mi ungerete su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano> (9, 15). Se mettiamo in relazione le due parabole potremmo arriva a dire che gli operai della prima ora i quali nel ritirare il loro salario <mormoravano> (Mt 20, 11) si comportano proprio come il rovo. Infatti, sembra che non si siano resi conto del dono che è stato loro concesso e invece di essere grati sono infastiditi dalla grazia che è stata usata anche agli altri.

Spesso ci identifichiamo con i primi chiamati a lavorare nelle vigna, ma, forse a ben guardare, siamo tutti un po’ ritardatari e <senza far niente> (20, 6). La cosa più importante è che il padrone della vigna ci ha presi a giornata noi che siamo stata scartati e non siamo stati assunti da nessun altro. Vivere in questa coscienza e gratitudine dovrebbe cambiare il nostro modo di guardare e di valutare gli altri. Il <rovo> di cui ci parla la prima lettura è così diverso da quel <roveto> che arde senza consumarsi e soprattutto senza consumare chi si avvicina ma diventando, al contrario, luogo di relazione e di rivelazione. Il fuoco della bontà non brucia ma cuoce, mentre la gelosia e l’invidia non possono che consumare fino ad annientare. Alla fine dell’apologo narrato nel libro dei Giudici proprio il rovo, che non è nemmeno degno di essere chiamato albero, accetta di porsi come re degli alberi portando tutto e tutti e alla rovina. Ciò che manca al rovo è la saggezza di riconoscere di non essere un albero e di agire per questo diversamente dagli alberi, senza entrare in competizione con loro e tenendosi serenamente al suo posto.

Farsi salvare

XX settimana T.O. –

Le parole del Signore Gesù sono un po’ esasperanti: <In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli> (Mt 19, 23). E se non bastasse la cosa viene ribadita e radicalizzata con un esempio che sembra scoraggiare ogni speranza: <Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio> (19, 24). Per comprendere la parola del Signore, ci viene in aiuto la prima lettura ove la domanda di Gedeone nasconde già la risposta che il Maestro darà a Pietro: <Perdona, mio Signore: come salverò Israele? Ecco la mia famiglia è la più povera di Manasse e io sono il più piccolo nella casa di mio padre> (Gdc 6, 15). La risposta è lapidaria: <Io sarò con te e tu sconfiggerai i Madianiti come se fossero un uomo solo> (6, 16). In realtà, non c’è nessuna possibilità di salvarsi, se non nella misura in cui si acconsente ad essere salvati. Il dialogo che il Signore Gesù intesse con i suoi discepoli è la continuazione dello shock di quel giovane che si allontana in modo così toccante ed inquietante.

Al cuore dell’incontro tra il Maestro e il <giovane> discepolo mancato vi è l’evocazione dei comandamenti elencati nella seconda tavola delle Torah ove troneggia l’invito a non rubare. Il ricco, secondo la logica del Vangelo, è sempre un ladro potenziale perché, confidando sulle proprie ricchezze, è meno incline a fare affidamento sulla grazia di un dono tutto da ricevere e sempre da condividere. Un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli, proprio perché avrà la tendenza a non lasciarsi accogliere pensando di potervi accedere con i propri mezzi quasi ne avesse il diritto. Eppure, il Signore non lascia nello sconcerto totale i suoi discepoli, ma li incoraggia con una promessa: <In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele> (Mt 19, 28). Perché questo avvenga bisogna accettare di entrare nella logica del <Figlio dell’uomo> che è una logica di perdita, di offerta, di kenosi e non di “ruberia spirituale”.

Sempre la grande tentazione è quella di presentarci davanti a Dio come dei cammelli che, nella Scrittura, sono segno di ricchezza (cfr. Gb 42, 12) poiché <sulle loro gobbe trasportano tesori> (Is 30, 6). Di fatto il giovane che si era presentato a Gesù si offriva al suo sguardo “ben carico” delle sue osservanze mentre il Signore gli chiede di alleggerirsi il più possibile. La risposta dei discepoli se è costernata è pure molto sincera. Tutti, infatti, o siamo o ci sentiamo dei cammelli carichi di una qualche ricchezza da offrire. In ciascuno di noi vi è una tale paura di non essere accolti nella nostra povertà da indurci a dimenarci pur di offrire qualcosa per dimostrare all’altro che valiamo qualcosa e che non siamo poi così miserabili: <Intanto, non te ne andare di qui prima che io torni a te e porti la mia offerta da presentarti> (Gdc 6, 18). Sempre il Signore accoglie le nostre offerte, ma ci porta oltre ogni nostra offerta permettendoci così di farci salvare per poter, finalmente, veramente salvare.

Idoli

XX settimana T.O. –

Il libro dei Giudici è capace di affondare il dito e la lama direttamente nella piaga del nostro cuore: <gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti> (Gdc 2, 12). In una parola, si potrebbe dire che tutti i mali vengono dalla dimenticanza che crea un’autoreferenzialità difficile da guarire, se non attraverso il cauterio della prova e dell’umiliazione: <In tutte le loro spedizioni la mano del Signore era per il male, contro di loro> (2, 15). Si potrebbe arrivare a dire che nel Vangelo assistiamo ad una sorta di spedizione in piccolo che sortisce lo stesso risultato di naufragio: <un tale si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?> (Mt 19, 16). Molto probabilmente davanti ad una domanda come questa ci sentiremmo ammirati e ci precipiteremmo a fornire una risposta con tutti i particolari del caso per soddisfare al massimo colui che interroga con tanta devozione e riverenza.

Il Signore Gesù, invece, reagisce molto diversamente: <Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo> (19, 17). L’evocazione dei comandamenti fatta dal Signore Gesù si richiesta di questo tale è assai singolare e significativa perché si limita alla seconda tavola delle Dieci Parole che riguarda la relazione con gli altri che culmina con la contaminazione di un versetto del Levitico: <e amerai il prossimo tuo come te stesso> (19, 19). Stranamente questo tale si sente perfettamente a posto con tutte le esigenze di un amore così esigente fino a dire: <Tutte queste cose le ho osservate> (19, 20). A questo punto la malattia è tremendamente conclamata! Questo tale ritiene che si possa fare tutto per bene e di conseguenza poter raggiungere la pienezza del buono. In realtà, non è così secondo il Signore!

Ciò che manca a questo tale è la consapevolezza della complessità del cuore e dell’inevitabile ambiguità della vita, tanto da essere alla ricerca di una ricetta che, più o mono consciamente, rischia di portare a forme sempre più sottili di idolatria. Nell’elenco dei comandamenti sembra che al centro si trovi proprio quello che recita così: <non ruberai> (19, 19). Si tratta di qualcosa di molto più profondo ed esigente del semplice non rubare, di tratta di resistere alla tentazione di appropriazione per rimanere in una libertà del cuore che esige una povertà da se stessi. Per cominciare ecco qual è il consiglio del Signore: <vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo> (19, 21). Non si tratta di una semplice misura pauperistica… ben di più si tratta di un modo nuovo di percepire se stessi e quindi di porsi in relazione a Dio e agli altri. La conclusione non lascia dubbi e, soprattutto, non ci lascia in pace: <Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze> (19, 22). Per dirla con il libro dei Giudici questo <tale> che si rivela infine essere un <giovane> aveva troppi <idoli>, forse era idolo di se stesso e per questo è necessario il lungo tempo della prova che è sempre un necessario impoverimento per imparare a non rubare e ad assumere. Non si tratta di avere di più collezionando anche meriti spirituali, ma di avere meno da esibire di se stessi e più da accogliere per se stessi e per gli altri.

Quale pace?

XX Domenica T.O.

La lettera agli Ebrei ci invita a vivere <tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede> (Eb 12, 2) che oggi ci provoca con una domanda inaspettata: <Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra?> (Lc 12, 51). In realtà ci verrebbe da dire proprio con tutto il cuore: “Sì, noi speravamo che ci portasse la pace” (cfr. Lc 24, 21), così come annunciarono gli angeli: <…pace in terra agli uomini che egli ama> (Lc 2, 14). Ma cosa è la pace? Spesso, forse troppo spesso: <Ognuno parla di pace con il prossimo mentre nell’intimo gli ordisce un tranello> (Gr 9, 7) tanto da meritare il rimprovero di Gesù che dice <Ipocriti> (Lc 12, 56) ossia: gente che recita un personaggio senza assumere fino in fondo la responsabilità della propria personalità. La pace – shalom – nella Scrittura, è un punto di arrivo e non un comodo e scontato punto di partenza. Per questo, il Signore Gesù non viene a gettare acqua sul fuoco delle nostre tensioni, delle nostre ansie e delle nostre lotte, ma le purifica dalle scorie delle nostre paure e dei nostri egoismi, perché siano luoghi di crescita nella verità su noi stessi e sugli altri: dei veri laboratori di pace a caro prezzo. 

Si tratta di accogliere un Dio che, dopo aver provocato la vita, torna continuamente a provocare alla vita… la quale non comincia mai da noi stessi né finisce in noi stessi: <padre e figlio, madre e figlia, suocera e nuora> (Lc 12, 53) e così via… così avanti!  Il Signore Gesù si premura di portare la <divisione> (12, 51) laddove si rischia la morte per assorbimento, tanto che <d’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contre tre> (12, 53). Non si dice “due contro due” ma <due contro tre>! Quando noi fondiamo la pace – la nostra pace – sulla parità, sugli accordi e sui compromessi, il Signore inserisce il mistero della disparità – il mistero stesso della Trinità Santissima -. La pace a cui il Signore chiama ciascuno di noi non è frutto di ipo-crisia ma di un sovrappiù di discernimento – yper-krisis -, di attenzione e di dono di sé: <egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi si sottopose alla croce> (Eb 12, 2). Per questo una pace alla leggera non è degna di questo nome e – comunque – non ha niente a che vedere con il dono pasquale del Signore, la cui pace è frutto del coraggio attinto alla fonte che zampilla interiormente e che dà forza per resistere fino al sangue.

La croce sotto cui Gesù ha accettato di camminare non è semplicemente l’acconsentire di essere <l’uomo dei dolori che ben conosce il patire> (Is 53, 3), ma ancor più di non aver rifiutato di essere come il profeta Geremia “uomo di conflitti” perché sempre irriducibile ad ogni vuoto accomodamento superficiale: <voi avrete pace mentre una spada giunge alla gola> (Gr 4, 10). La croce, unica via per la verità che dà pace, è il coraggio di rimanere soli e nudi – come il profeta nella cisterna secca – abbracciando quel cammino di individuazione che passa per la porta stretta della differenziazione il quale, rendendoci consapevoli della nostra anima una e unica, ci apre le vie dell’un-animità che non vuol dire abdicare alla propria personalità, ma orientarsi verso la stessa meta, <fissando lo sguardo> nella stessa direzione e camminando con le gambe del proprio desiderio con l’ardore del proprio fuoco <che ardeva nel mio cuore mi sforzavo di contenerlo ma non potevo> (Gr 20, 9).

Quelle paix ?

XX Dimanche T.O. –

La lettre aux Hébreux nous invite à vivre «  en tenant le regard fixé sur Jésus, auteur et perfectionniste de la foi » ( He 12,2 ) et elle nous provoque aujourd’hui par une question inattendue : « Croyez-vous que je sois venu apporter la paix sur la terre ? » ( Lc 12, 51 ). En réalité, l’on pourrait vraiment dire de tout coeur : «  Oui, nous espérions que tu nous apporterais la paix » ( cf Lc 24, 21 ), de la même manière que l’annonçaient les anges «  …paix sur la terre aux hommes qu’Il aime » ( Lc 2, 14 ). Mais qu’est donc la paix ? Souvent et même trop souvent : «  quelqu’un parle de paix avec le prochain alors qu’en son for intérieur, il lui tend un piège » (Je 9, 7 ), méritant ainsi le reproche de Jésus «  Hypocrite » ( Lc 12, 56 ) ou encore : individu qui joue un personnage sans assurer de fond en comble la responsabilité de sa propre personnalité. La paix  – shalom – dans les Ecritures, est un point d’arrivée et non une commode et supposé point de départ. Pour cela, le Seigneur Jésus ne vient pas jeter de l’eau sur le feu de nos tensions, de notre anxiété et de nos luttes, mais il les purifie des scories de notre peur et de nos égoïsmes, afin qu’ils soient lieux de croissance dans la vérité sur nous-mêmes et sur les autres : des vrais laboratoires de paix de grande valeur.

Il s’agit d’accueillir un Dieu qui, après avoir provoqué la  vie, continue encore à provoquer à la vie…laquelle ne débute jamais de nous-mêmes ni ne finit en nous : « père et fils, mère et fille, belle-mère et belle-fille ( Lc 12, 53 ) ainsi de suite… et cela continue ! Le Seigneur Jésus s’empresse d’apporter la «  division » ( 12, 51 ) là où l’on risque la mort par absorption, de telle façon que «  désormais, en effet, dans une maison de cinq personnes, on sera divisé trois contre deux et deux contre trois » ( 12, 53 ). Il n’est pas dit «  deux contre deux », mais «  deux contre trois » ! Lorsque nous fondons la paix – notre paix, sur la parité, sur des accords et des compromis, le Seigneur y insère le mystère de la disparité – le mystère même de la Sainte Trinité – la paix à laquelle le Seigneur appelle chacun de nous n’est pas le fruit d’une hypo-crisie mais d’un surplus de discernement –yper-krisis – d’attention et de don de soi : « Jésus, qui au lieu de la joie qui lui était proposée, endura une croix » ( He 12, 2 ). Pour cela, une paix à la légère n’est pas digne de ce nom et – donc- n’a rien à voir avec le don pascal du Seigneur, dont la paix est le fruit du courage puisé à la source qui faillit intérieurement et donne la force pour résister jusqu’au sang.

La croix sous laquelle Jésus a accepté de marcher n’est pas simplement l’assentiment d’être «  l’homme des douleurs qui connaît bien le Père » ( Is 53, 3 ), mais plus encore celui qui n’a pas refusé d’être comme le prophète Jérémie «  homme des conflits » car toujours irréductible à tout accommodement vide et superficiel «  Vous aurez la paix alors qu’une épée touchera votre cou » ( Je 4, 10 ). La croix, unique voie pour la vérité qui donne la paix, est le courage de rester seul et nu – comme le prophète dans la citerne sèche- en embrassant ce chemin d’individualité qui passe par la porte étroite de la différentiation, chemin qui en nous rendant conscients de notre âme unique, nous ouvre la voie de l’un-animité qui ne signifie pas abdiquer de sa personnalité, mais s’orienter vers le même but «  en fixant le regard » dans la même direction et en marchant avec les jambes de son désir avec l’ardeur de ce feu «  qui brûlait dans mon coeur, je m’efforçais de le contenir, mais je n’y arrivais pas » ( Je 20, 9 ).

Integrità

XIX settimana T.O. –

Giosuè invita il popolo a continuare ed intensificare il suo cammino nella fede con queste parole: <temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà> (Gs 24, 14). Il Signore Gesù nel Vangelo consegna ai suoi discepoli una parola che può e deve orientare il cammino di ogni giorno: <Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli> (Mt 19, 14). Mettendo insieme questi due testi potremmo concludere che l’<integrità> raccomandata da Giosuè non è altro che questa capacità di accogliere ciò che non si può imporre da solo – come i bambini – e dare spazio nella propria vita a ciò che ha maggiormente e talora urgentemente bisogno di attenzione, di accoglienza, di cura. La reazione dei discepoli davanti al fastidio che possono dare dei bambini è evidenziata crudamente dall’evangelista: <ma i discepoli li rimproverarono> (19, 13). C’è anche in noi la tendenza a non volere tra i piedi nessuno che disturbi il nostro programma e ci chieda un’attenzione e una cura impreviste. Soprattutto anche noi facciamo fatica a dare spazio a tutte quelle realtà piccole e fragili di cui pure è necessariamente intessuta la nostra vita e quella di coloro che condividono con noi il cammino dell’esistenza.

L’ultimatum di Giosuè risuona anche per noi: <scegliete oggi chi servire> (Gs 24, 15)! Non si tratta semplicemente di eliminare gli <dèi> (24, 14) serviti e adorati dai nostri padri, ma è necessario rinunciare all’idolatria di se stessi per aprirsi sempre di più e sempre meglio all’accoglienza di Dio nei segni più piccoli della sua presenza con cui bussa alla porta del nostro cuore e chiede di essere accolto nella nostra vita. Portiamo dentro di noi una sorta di attrazione fatale per ciò che è grande e appariscente perché questo ci permette di sfuggire al confronto esigente con tutto ciò che in noi è così fragile e così piccolo da esigere cura e attenzione. Giosuè continua la sua esortazione: <rivolgete il vostro cuore al Signore, Dio di Israele> (24, 23) e il Signore Gesù concretizza ulteriormente il senso di questa conversione sempre necessaria col ricordare ai suoi discepoli che sempre bisogna saper ricominciare dai <bambini> (Mt 19, 14)

Giosuè ricorda al popolo che il Signore <è un Dio santo, è un Dio geloso> (Gs 24, 19). Il Signore Gesù ci fa scoprire come questa santità e gelosia divine si inverano nella predilezione dell’Altissimo per ciò che è piccolo e ci chiede continuamente di saper e voler entrare in questa medesima logica e modalità di approccio al reale.

Come una rosa

Assunzione di Maria

La vita della Madre di Dio, di Maria, può essere compresa come un tema ben scritto dall’inizio alla fine. Oggi, contemplando il mistero dell’Assunzione potremmo dire che alla fine la Madre di Dio ha ricevuto un “dieci e lode” per quella sua vita completamente donata e messa al servizio del mistero di Cristo. Il mistero di Maria riconosciuta da Elisabetta come la <Madre del mio Signore> (Lc 1, 43) illumina e guida il cammino della nostra stessa vita che se è un tema tutto ancora da scrivere nondimeno è un compito che possiamo affrontare con serenità ed entusiasmo senza paura di fallire senza per questo non poter anche sbagliare. Il canto del Magnificat che si trova all’inizio dell’esperienza di fede e di amore di Maria, in realtà, è l’anticipo della fine coronata da un senso di grazia che avvolge tutta la sua vita e se l’ha sconvolta all’inizio, l’ha coronata alla fine. Questo canto di gioia che sembra quasi “scappare” dalle labbra di Maria con meravigliosa spontaneità nel momento della visita a sua cugina attraversa la calura estiva come un soffio rinfrescante e si fa annuncio di un mondo nuovo, di un modo nuovo in cui la salvezza si offre a tutti come orizzonte possibile di vita e quale <segno grandioso> (Ap 12, 1) che indica il cammino.

Maria non ha mai avuto dubbi su se stessa: <sono la serva del Signore> (Lc 1, 38) e in questo si fa modello della Chiesa chiamata continuamente a vivere in una radicale povertà e gratitudine di fronte al dono di Dio. È in questa consapevolezza di radicale povertà e di assoluta grazia che radica il mistero e la missione della Chiesa chiamata a camminare nella storia con umiltà e pazienza. Nel mistero dell’Assunzione si disvela tutto il mistero della nostra stessa visitazione da parte del Signore nelle pieghe del quotidiano e, persino, negli angoli più umbratili della nostra esistenza. Anche per noi si apre l’orizzonte per poter cantare a piena voce il nostro Magnificat. Il segno caratteristico della fede di Maria è il suo rapido passo che la fa salire verso la casa di Elisabetta come la gazzella del Cantico facendosi essa stessa arca del Signore che non è più portata da altri e trascinata da buoi, ma porta lo stesso Signore della vita.

La solennità dell’Assunzione è come una rosa sbocciata in piena estate… questo fiore che si offre quando si ama, si dona ben aldilà di tutte le nostre aspettative, di tutte le nostre occupazioni sia di lavoro che di vacanza. L’Assunzione di Maria ci ricorda che l’amore di Dio è capace di accompagnare la vita da prima del suo germogliare fino ad oltre la sua stessa consumazione. Il Figlio accoglie sua madre baciata dallo Spirito nel seno stesso dell’amore eterno del Padre che è capace di accogliere non solo ciascuno dei suoi figli e delle sue figlie, ma di accoglierci nella totalità della nostra storia che, infine, fa tutt’uno con il disegno di Dio stesso e del suo desiderio. Per questo oggi, mentre celebriamo il compimento dell’esperienza di fede di Maria, in realtà celebriamo la nostra stessa speranza. La nostra speranza è di essere come un fiore il quale non si può che coltivare, offrire, ammirare ma che non si può stringere nella propria senza rischiare di sciuparlo e se è una rosa di pungersi. Una rosa non si può che respirare e così la nostra vita e il nostro essere presenti alla vita degli altri è chiamata a diventare leggera e amabile come un profumo che si sente, ma non si tocca né si possiede pur restandone inebriati. La Vergine Madre che sale verso il cielo dell’amore compiuto ci indica il cammino e ci ricorda il grande compito di non fermarci e quasi neppure soffermarci sulle inevitabili spine accontentandoci – di fa per dire – di respirare insieme il profumo del dono della vita aldilà di ogni violenza, di ogni ingiustizia, di ogni egoismo in attesa che tutto si compia per tutti: <L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte> (1Cor 15, 26).

Pregato

XIX settimana T.O. –

La reazione del padrone con il servo di cui ha avuto pietà risuonano anche nel nostro cuore come sottile rimprovero che ci ammutolisce: <Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato> (Mt 18, 32). Il seguito del testo dà a questa parola del Signore Gesù un peso importante perché la pone come conclusione di una sezione del vangelo secondo Matteo: <Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano> (19, 1). Il lungo e articolato cammino che il Signore Gesù fa fare ai suoi discepoli per prendere coscienza di quella che è la logica in cui vivere i loro rapporti fraterni e che fa della Chiesa un vero e delicato laboratorio di umanità, termina con un rimando alla vita interiore e più specificatamente alle condizione e alle conseguenze della nostra preghiera. Come il popolo varca le porte della terra promessa attraversando il Giordano, così il Signore – sempre attraverso il Giordano – entra in Giudea avvicinandosi così al suo mistero pasquale in cui l’Innocente si farà icona del Padre che ama fino alla fine e per questo non può che perdonare oltre ogni fine.

Nella preghiera, infatti, presentiamo al Padre quelle che sono le nostre necessità e, ancor più spesso, mettiamo davanti a Lui le nostre fragilità e le nostre impotenze. Proprio nella preghiera ci è dato di fare esperienza non sempre di essere esauditi – almeno per quelle che sono le nostre aspettative immediate e i nostri tempi di realizzazione immediata – ma sempre facciamo esperienza di essere accolti. Secondo la parola del Signore Gesù tutto ciò dovrebbe dare al nostro cuore una capacità crescente di fare altrettanto con i nostri fratelli e sorelle in umanità. Per questo persino quando non possiamo esaudire, dobbiamo sempre accogliere il mistero della debolezza e del bisogno dell’altro che si fa preghiera: <Abbi pazienza con me e ti restituirò> (18, 29).

Nella vita di ciascuno di noi, come discepoli, e nella missione della Chiesa quale segno di salvezza per l’umanità, tutta la preghiera che si fa perdono radicale in quanto ci aiuta ad assumere fino in fondo la realtà impotente dell’altro si fa rivelazione. Si tratta di una rivelazione di presenza – quella di Dio – che ci strappa alle nostre paure di proseguire e osare nonostante tutto il viaggio nelle terre sempre sconosciute e un po’ selvagge della relazione. La parola che il Signore Dio rivolge a Giosuè, alla vigilia del passaggio del Giordano che segna la fine dell’esodo e l’inizio della sedentarizzazione nella terra promessa, può valere ogni volta che osiamo entrare nella terra – necessariamente diversa – della relazione con l’altro: <Da ciò saprete che in mezzo a voi vi è un Dio vivente…> (Gs 3, 10). Il popolo di Israele si aspetta che Dio scacci tutti gli altri proprio come noi ci auguriamo di non doverci confrontare troppo con gli altri. Per questo, attraverso la preghiera, impariamo ad assumere l’atteggiamento di Dio stesso che condona a tutti a ciascuno il <debito> (Mt 18, 32) della propria realtà umana normalmente per quanto diversamente povera e indigente. L’arca che i sacerdoti introducono nella terra degli altri per renderla santa e riconosciuta come ormai la propria, può essere assunta quale simbolo di quel lavoro quotidiano della preghiera in cui impariamo a perdonare <di cuore> (18, 35) dopo aver sperimentato il dono incommensurabile di essere stati perdonati più che di cuore dal Padre. 

Accordare!

XIX settimana T.O. –

La parola del Signore Gesù su quella che comunemente chiamiamo “correzione fraterna” porta, in realtà, alla luce il legame indissolubile che la creazione ha istituito tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e il cosmo. La parola del Signore rivolta a tutti <i suoi discepoli> risuona forte e chiara: <tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo> (Mt 18, 18). Si può certamente fondare su questo versetto la necessaria potestà che si esercita competentemente nella Chiesa, ma su questa parola solenne del Signore affonda le sue radici la verità di ogni relazione non solo col <fratello> (18, 15) ma col cosmo intero. Ciò che si fa all’altro, ciò che si vive con l’altro, ciò che si affronta per l’altro non si risolve <sulla terra> ma ha la sua conseguenza e, per certi aspetti, raggiunge la sua pienezza di senso <in cielo>. Un monaco così commenta l’imprescindibile legame che intercorre tra Cristo e la Chiesa, tra ciascuno e ogni suo simile: <Tutto è comune tra lo Sposo e la sposa: l’onore di ricevere la confessione e il potere della remissione. Come Sposo umile e fedele, non vuole fare niente senza la sposa. Guardati bene dal separare il capo dal corpo; non impedire a Cristo di esistere interamente; perché Cristo non è mai intero senza la Chiesa, e nemmeno la Chiesa lo può essere senza Cristo. Cristo totale, integro è il capo e il corpo>1. Di questa integrità siamo tutti responsabili e artefici attraverso la correzione e il perdono.

Partendo da questo orizzonte prima che arrogarsi il diritto di ammonire l’altro in tanti modi è necessario premunirsi dal rischio di pensare che persino le realtà che vanno affrontate <fra te e lui solo> (18, 15) hanno una conseguenza <in cielo> e quindi una valenza eterna e che riguarda tutti e tutto perché aumenta o impoverisce quell’armonia che è principio e condizione della vita piena. Il Signore ci assicura solennemente che <se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà> (18, 19). Ac-cordarsi per chiedere nella preghiera non può che essere il segno e il frutto di una con-cordia nel vivere fino a <dare la vita> (Gv 15, 13). E questo è possibile solo – come ama ripetere Chiara Lubich – se accettiamo e amiamo di mettere di <mezzo> (Mt 18, 20) e al centro assoluto delle nostre relazioni umane il Signore Gesù e la sua logica pasquale. In questa medesima logica: <Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab…> (Dt 34, 5) in adempimento sereno della terribile parola: <Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!> (34, 4).

Eppure, la morte di Mosé non crea, per molti aspetti, nessun vuoto, ma subito <Giosué figlio di Nun> (34, 9) è in grado di prendere il suo posto e di assicurare serenamente la continuazione e il coronamento dell’esodo. Il grande Mosè <con il quale il Signore parlava faccia a faccia> (34, 10) ha vissuto con-cordemente non solo con Dio ma anche con Giosué il quale <era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui> (34, 9). Mosè occupa interamente il suo posto e onora il suo ruolo ma con la grande capacità di essere serenamente sostituibile perché assolutamente accordato sulla volontà di Dio come fosse uno strumento musicale nella mani dell’artista. Forse il grande dramma che si nasconde sotto ogni <colpa> (Mt 18, 15) che rompe la comunione è proprio la fatica ad accordare lo strumento del nostro cuore prima di farlo suonare e talora, ahimé, stonare!


1. ISACCO DELLA STELLA, Omelie, 11, 13.

Cammina

XIX settimana T.O. –

La promessa con cui il Signore Dio sigilla la sua storia con il popolo appena salvato suona in questi termini: <perché il Signore, tuo Dio, cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà> (Dt 31, 6). Questo è il testamento spirituale di Mosè e questo sarà il testamento del Signore Gesù alla fine del vangelo di Matteo: <Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo> (Mt 28, 20). Pertanto, questa promessa diventa ancora più chiara alla luce delle parole dello stesso Signore Gesù nel vangelo di quest’oggi in cui si incrociano due discorsi. Il primo verte sull’accoglienza del Regno con in cuore l’atteggiamento di un <piccolo> (Mt 18, 4). Il secondo ci riporta all’immagine stupenda del buon pastore che si fa rivelazione del cuore stesso di Dio: <Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda> (18, 14). Sant’Ambrogio così supplica: <Vieni, senza farti aiutare, senza farti annunciare; ora, sei tu che io attendo. Non prendere la frusta. Prendi il tuo amore; vieni con la dolcezza del tuo Spirito. Non esitare a lasciare sui monti queste tue novantanove pecore. Sulle cime dove le hai poste, i lupi non hanno accesso>[1].

Mettendo insieme le suggestioni di questi testi possiamo dire che non abbiamo nulla da temere perché il Signore non solo cammina con noi, ma continuamente cammina pure davanti a noi e, come il buon pastore che va in cerca della pecora perduta, non solo ci fa strada, ma adatta il suo passo a quello della pecora più lenta… al passo del più <piccolo>. Proprio come quando si va a passeggio con un bambino si è naturalmente portati a seguire il suo ritmo per renderlo felice e insegnargli a gioire del fatto di poter camminare. Così il Signore si comporta con ciascuno di noi. Mentre Mosè si rende conto di avere portato a compimento la sua missione presso il popolo non trova da dire altro se non questo: <Io oggi ho centovent’anni. Non posso più andare e venire…> e aggiunge che se egli non potrà attraversare il Giordano con il popolo nondimeno <Il Signore, tuo Dio, lo attraverserà davanti a te> (Dt 31, 1-3).

Le parole che Mosè rivolge al titubante Giosuè sono rivolte, in realtà, a tutti i piccoli: <Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo> (31, 8). Come fanno notare i rabbini, nelle Scritture l’invito a non temere e ad avere fiducia ricorre per 365 volte, una per ogni giorno dell’anno! Non temiamo di essere piccoli, non temiamo neppure i nostri inevitabili e talora necessari smarrimenti, il Signore ci cerca, ci trova, ci consola… non abbiamo che da fidarci fino ad affidarci. Questa esperienza di un Dio che cammina non solo con noi, ma persino davanti a noi non solo dovrebbe radicalmente rassicurarci, ma pure dovrebbe darci la forza e la gioia di condividere questo dono di consapevolezza di una radicale compagnia con tutti coloro che fanno strada con noi.


1. AMBROGIO, Commento al Salmo 118, 22, 27.