Provati

XXXII settimana T.O. –

La prima lettura spinge lo sguardo del nostro cuore fino a quello che viene indicato come <il giorno del loro giudizio> (Sap 3, 7). Da parte sua il Signore Gesù, nel vangelo, ci fa cogliere non solo e non tanto il tempo, ma anche il modo con cui saremo giudicati nel nostro essere meno degni dell’<incorruttibilità> (2, 23) e dell’<immortalità> (3, 4). Sono queste due nozioni non radicate né radicali nella sensibilità di Israele e che tuttavia, a poco a poco, soprattutto al tempo della predicazione del Signore Gesù, diventano un criterio di discernimento della bontà e della verità del proprio rapporto con Dio. Vivere pienamente questo rapporto con l’eterno, non si limita più ad un corretto modo di comportarsi nel tempo, un modo che garantirebbe una vita serena e felice, ma è qui considerato talmente profondo e vero da avere – in modo del tutto naturale – una valenza eterna. Il concetto di eternità così caro agli Egizi e ai Greci diventa sempre di più anche l’orizzonte della fede di Israele: <In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici> (3, 5).

La solenne promessa non è scevra da qualche malinteso e da una certa ambiguità. Non si tratta infatti di un contrappasso tale per cui più si soffre in vita e più si dovrebbe godere nel futuro di Dio. Si tratta invece di un modo di concepire la vita – che comunque rimane un’avventura da vivere fino in fondo – qui e ora – senza rimandi inutili, e pur sempre con una certezza di pienezza.  Ciò che fa la differenza non è una sorta di “fachirismo” spirituale spinto ad oltranza che, pur con le sue punte di originalità e di venerabilità, ha segnato tante esperienze di fedeltà al Vangelo lungo i secoli, ma è il fatto di essere <provati> e <trovati degni di sé> (3, 5). Ed è a questo che ci invita il Signore Gesù, come è su questo che ci esamina: sulla nostra capacità di essere <degni di sé>! Il modo per capirlo sembra essere assai semplice: <Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10).

Si può intendere questa parola del Signore come l’invito ad una muta e subìta sottomissione, oppure come il modo per manifestare il proprio essere <provati> (Sap 3, 5) nella relazione. Una matura e provata relazione è capace di accettare la sfida di mettere sempre l’altro al primo posto, non facendo troppo caso a se stessi e, al contempo, giocando interamente se stessi in relazione all’altro, per manifestare la verità della propria identità. L’immagine del padrone che non sente neppure il bisogno di ringraziare perché si arroga il diritto di essere servito – nel linguaggio parabolico – può sembrare un po’ dura: <Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?> (Lc 17, 9). In realtà non è del padrone che il Signore ci vuole parlare, bensì di noi chiamati ad essere a nostro agio in un atteggiamento sereno di servizio che non si interessa dell’intemperanze di chi comanda, ma della dedizione con cui si serve l’altro, manifestando così di non ritenersi in nulla il centro del mondo. La sfida è di accettare il proprio ruolo vivendo fino in fondo il compito che la vita ci ha affidato senza troppe complicazioni. Tutto questo può sembrare duro, talora è anche un po’ ingiusto, eppure è l’unico modo per essere liberi davvero.

Pensare al Signore

XXXII settimana T.O. –

Se l’inizio della sapienza è il timore del Signore, è molto bello notare come, secondo il libro della Sapienza di cui cominciamo oggi la lettura liturgica, tutto ciò comincia con una dolce esortazione: <pensate al Signore con bontà d’animo e cercatelo con cuore semplice> (Sap 1, 1). Il Signore Gesù, con la sua parola e i suoi gesti di attenzione e di misericordia, sembra modulare in modo ancora più preciso il senso e il modo di questo pensare al Signore. Questo pensare si fa ricerca del Signore secondo tutte le Sapienze in cui si nasconde e si rivela un raggio dell’unica divina Sophìa. Infatti, sembra che il modo più vero ed efficace di pensare al Signore sia imparare a pensare come il Signore: <Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli>. Per evitare ogni riduzionismo della carità e della generosità, il Signore si premura di aggiungere: <E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai> (Lc 17, 3-4).

Questa parola del Signore sulla necessità di perdonare, senza smettere mai di essere disposti a rinnovarne il dono, è come una perla incastonata tra due altre parole. La prima è una presa di coscienza del reale, assai dura e perentoria: <E’ inevitabile che vengano scandali…> (17, 1), cui segue un’esortazione altrettanto radicale: <State attenti a voi stessi!> (17, 2). La seconda è la reazione dei discepoli che, in realtà, è una preghiera accorata: <Accresci in noi la fede!> (17, 5). Tenendo insieme il respiro della prima lettura con quello del Vangelo possiamo così dire che la sapienza di cui abbiamo bisogno per orientarci tra gli inevitabili <scandali> con cui dobbiamo fare i conti nella vita e nella storia, è la fede. Essa ci permette veramente di apprendere, non senza fatica, a pensare, e quindi ad agire, come il Signore, imparando a coniugare – sapientemente ed efficacemente – la lucidità su ciò che avviene dentro di noi e attorno a noi, senza mai cedere alla tentazione di diventare cinici o, peggio ancora, spietati 

La risposta del Signore Gesù, all’accorato appello dei discepoli, è generosa e pacificante: <Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare” ed esso vi obbedirebbe> (17, 6). La Sapienza sembra quasi applaudire con quel versetto con cui, ogni anno, ci introduciamo nell’Eucaristia della solennità di Pentecoste: <Lo Spirito del Signore riempie la terra e, tenendo insieme ogni cosa, ne conosce la voce> (Sap 1, 7). Lo Spirito del Signore riempie anche il mare ed è capace di colmare tutti i fossati che la vita, con le sue vicissitudini, crea nel nostro cuore fragile. Come pure, talora, allarga e approfondisce i fossati nelle nostre relazioni mai facili. Eppure nulla è impossibile se lasciamo che l’Altissimo non solo sia <testimone> (1, 6) dei nostri <sentimenti> più veri, ma ne diventi anche l’ispiratore e la guida.

Fuori

Dedicazione del Laterano

Il Vangelo scelto per accompagnare questa festa un po’ stupisce: invece di essere la decantazione della bellezza e dell’importanza del luogo sacro in cui cerca Dio nella speranza di incontrarlo, sembra proprio il contrario: <Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio> (Gv 2, 15). Il Signore Gesù sembra comportarsi come un “buttafuori” e davanti a questo gesto così forte da ricordare lo stile profetico di Geremia sempre alle prese con la questione del Tempio, <i Giudei presero la parola> (2, 18). Il testo che accompagna questa liturgia sembra pensato da Giovanni come un paradigma di quello che è tutto il ministero del Signore Gesù che, profeticamente, rivela un modo nuovo di comprensione del rapporto con Dio che si esprime in particolare nel modo di vivere il segno e i segni del culto. Il Vangelo comincia così: <Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme> (2, 13) e si conclude con questa nota che, posta all’inizio del Vangelo non può che essere fondamentale per la sua comprensione: <Quando fu poi risuscitato dai morti…> (2, 22).

Come tutti gli aspetti della vita di fede, così pure il modo di vivere il culto e di costruire e abitare i luoghi della preghiera devono obbedire ad una logica pasquale e non ad una logica, per così dire, sacerdotale e sacrale. L’apostolo Paolo sembra quasi metterci in guardia: <Ma ciascuno stia attento a come costruisce> (1Cor 3, 10) e aggiunge <nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo> (3, 11). Rimane aperta la domanda se sia il santuario a rendere santi i fedeli, o i fedele a rendere santo il tempio. Sempre, entrando in una chiesa per pregarvi personalmente o per partecipare alla liturgia comune, facciamo esperienza di sentirci un poco più vicini al Signore e al mistero della sua presenza in noi e tra di noi. Ogni volta che ci sentiamo un poco più vicini non possiamo che farci sempre più prossimi per far sì che la fragile pietra che siamo diventi forte e fondata a motivo della prossimità con il Signore della nostra vita che abita in mezzo al suo popolo. L’unico fondamento è Cristo ed è lui che oltre a dare la solidità della pietra dona pure la vivificante acqua che permette la vita e il dinamismo di vita secondo la parola del profeta: <vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente> (Ez 47, 1). Così siamo come delle pietre vive che affondano le loro radici nell’acqua nella ferma speranza di poter germogliare. Per questo dobbiamo tenerci legati a Cristo come le pietre l’una sull’altra e l’una con l’altra si poggiano sulla pietra di fondazione, ma siamo anche chiamati a lasciare che il Signore scacci da noi tutto ciò che impedisce alla pietra del nostro cuore di aderire totalmente a Lui: come il muratore pulisce le pietre prima di stendervi la malta e accostarle le une alle altre nella speranza che diventino una sola cosa.

Il segno che la Chiesa è fondata su Cristo è che sia un luogo di vita e il sintomo della vita è ciò che si canta nel salmo responsoriale: <Un fiume rallegra la città di Dio>. La Chiesa che i santi Padri definiscono come il Paradiso ritrovato è allietata da quel <fiume> che è Cristo e diventa così capace di rallegrare ed allietare l’umanità intera offrendosi come un luogo sereno, quasi un porto sicuro.

Dehors

Dédicace du Latran –

L’Evangile choisi pour accompagner cette fête nous étonne un peu : au lieu d’être la décantation de la beauté et de l’importance du lieu sacré où l’on cherche Dieu dans l’espoir de le rencontrer, c’est vraiment le contraire : «  Se faisant un fouet de cordes, il les chassa tous du Temple » ( Jn 2, 15 ). Le Seigneur Jésus semble se comporter comme un « videur » et, face à ce geste si fort qui rappelle le style prophétique de Jérémie toujours concernant la question du Temple, «  Les Juifs prirent la parole » ( 2, 18 ). Le texte qui accompagne  cette liturgie est pensé par Jean comme un paradigme de ce qui représente tout le ministère du Seigneur Jésus qui révèle, prophétiquement, une façon nouvelle de compréhension du rapport à Dieu qui s’exprime, particulièrement, dans la manière de vivre le signe et les signes du culte. L’Evangile commence ainsi : «  La Pâque des Juifs approchait et Jésus monta a Jérusalem » ( 2, 13 ) et se termine par cette annotation qui, mise au début de l’Evangile ne peut qu’être fondamentale pour sa compréhension : «  Quand il ressuscita d’entre les morts… » ( 2, 22 ).

Comme tous les aspects de la vie de foi, la manière de vivre le culte et de construire et habiter les lieux de la prière, doit aussi obéir à une logique pascale et non à une logique, pour ainsi dire, sacerdotale et sacrée. L’apôtre Paul nous met en garde : «  Que chacun soit attentif à sa construction » ( 1 Co 3, 10 ) et il ajoute «  personne ne peut proposer une fondation différente de celle qui s’y trouve déjà : Jésus Christ » ( 3, 11 ). La question reste ouverte : est-ce le sanctuaire qui rend les fidèles saints ou les fidèles qui sanctifient le temple ? En entrant dans une église pour y prier personnellement ou pour participer à la liturgie commune, nous faisons toujours l’expérience de nous sentir un peu plus proches du Seigneur et du mystère de sa présence en nous et entre nous. Chaque fois que nous nous sentons un plus plus proches, nous ne pouvons qu’approcher de la pierre fragile que nous sommes pour qu’elle devienne forte et fondée sur la proximité avec le Seigneur dans notre vie, lui qui habite au milieu de son peuple. La seule fondation est le Christ et c’est Lui qui, en plus de donner la solidité de la pierre, donne aussi l’eau vivifiante qui engendre la vie et le dynamisme de vie selon la parole du prophète : « Et voici que des eaux sortaient de dessous le seuil  de la maison, du côté de l’orient, car la face de la maison regardait l’orient. »  ( Ez 47, 1 ). Nous sommes, ainsi comme des pierres vivantes qui fondent leurs racines dans l’eau de la ferme espérance de pouvoir germer. Pour cela nous devons rester liés au Christ, comme les pierres s’entassent l’une sur l’autre et l’une contre l’autre sur la pierre de fondation, mais nous sommes aussi appelés à permettre au Seigneur  de nous débarrasser de tout ce qui empêche la pierre de notre coeur d’adhérer totalement à Lui : comme le maçon nettoie les pierres avant d’y étaler le mortier et de les emboîter les unes aux autres dans l’espoir qu’elles deviennent un ensemble unique.

Le signe que l’Église est fondée sur le Christ est qu’elle est un lieu de vie et le symptôme de cette vie est ce que l’on chante dans le psaume responsorial : «  Un fleuve réjouit la cité de Dieu ». L’Église et les saints Pères définissent comment le Paradis retrouvé  est égayé par ce «  fleuve » qui est le Christ et devient ainsi capable de rendre l’humanité tout entière joyeuse s’offrant comme  un endroit serein, quasiment, un port sûr.

Relazione

XXXI settimana T.O. –

Il rapporto con le ricchezze non solo economiche, ma persino intellettuali e spirituali ha rappresentato sempre un quesito cruciale per tutti coloro che si sono fatti obbedienti e docili discepoli del Vangelo. Talora si è arrivati ad immaginare nella vita del Signore Gesù una povertà che non ci è attestata nei Vangeli, cadendo in forme di pauperismo non solo eccessive, ma persino fanatiche. In realtà, ciò che sta veramente a cuore al Signore è che nessuno dei suoi discepoli si rinchiuda, attraverso la ricchezza, in un atteggiamento di autoreferenzialità superbo o superficiale. Al contrario, tutti i beni che la vita mette a nostra disposizione dovrebbero essere un mezzo per approfondire la nostra capacità di comunicazione, di relazione, di comunione. Un padre della Chiesa della prima ora, riflettendo sul rapporto dei cristiani con le ricchezze, richiama non tanto la necessità di rinunciarvi, ma di viverne il dono e la possibilità alla luce delle parole e degli esempi di Cristo: <Egli è la via su cui cammina chi ha il cuore puro; la grazia di Dio non si infila in un’animo ingombrato e lacerato da una moltitudine di possessi. Chi considera la sua fortuna, il suo oro e il suo argento, le sue case come doni di Dio, costui testimonia a Dio la sua riconoscenza venendo in aiuto ai poveri con i suoi averi. Egli sa di possederli più per i suoi fratelli che per se stesso. Rimane padrone delle sue ricchezze invece di diventarne schiavo>1.

L’apostolo Paolo, concludendo con il saluto la sua Lettera ai Romani ci testimonia di questa stupenda possibilità di saper mettere a disposizione gli uni degli altri i propri beni, le proprie energie, le proprie possibilità fino a ricordare con una comprensibile commozione come Prisca e Aquila <per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa> e aggiunge <a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano> (Rm 16, 4). Paolo evidenzia come il gesto di bontà e di solidarietà dimostrato verso la sua persona, è capace di creare una sorta di catena di gratitudine. Possiamo custodire con profonda attenzione l’invito del Signore: <Fatevi dunque degli amici…> (Lc 16, 9), perché il rischio è proprio quello di farsi dei nemici, come spesso accadeva ai farisei. Il Signore Gesù ci esorta non ad un pauperismo triste che rischia di abbruttire ed amareggiare la vita, bensì ci chiede di evitare accuratamente di diventare schiavi del denaro o di usare quest’ultimo per schiavizzare il nostro prossimo. 

Davanti alla supponenza beffarda dei <farisei che erano attaccati al denaro> (16, 14), il Signore riporta questo aspetto così delicato e importante – irrinunciabile! – a un livello assai elevato: il rapporto con Dio nel segreto della coscienza ove siamo chiamati a fare le nostre scelte anche riguardo al modo di usare le nostre ricchezze o, semplicemente, le nostre disponibilità non solo economiche, ma anche di energie e di tempo. Per questo il Signore ci ricorda e quasi ammonisce: <Dio conosce i vostri cuori> (16, 15). A noi il compito di non ignorare ciò che c’è nel nostro cuore!


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Può un ricco salvarsi?

Dis-onesto

XXXI settimana T.O. –

Leggiamo uno dei testi più intriganti di tutto il Vangelo in cui il messaggio della salvezza si lascia mediare dal paradosso che si trova a conclusione della parabola e sempre un po’ ci sorprende non poco fino a destabilizzarci: <Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce> (Lc 16, 8). Eppure, non bisogna sottovalutare un aspetto che sta sullo sfondo di questa parabola di certo assai “peperina”. Si tratta di una capacità di vivere e di approfondire la relazione proprio quando la vergogna e l’imbarazzo facilmente indurrebbero a nascondersi e a sottrarsi al confronto. Invece no, assolutamente no! Sembra che il messaggio sotteso, quello più profondo che stimola il nostro cammino di continua e rinnovata conversione, sia racchiuso nel fatto che nonostante la situazione sembra mettersi veramente male il padrone con semplicità e somma apertura: <Lo chiamò e gli disse: “Che sento dire di te?”> (16, 2).

La reazione dell’amministratore che viene qualificato come <disonesto> è, in realtà, di grande onestà. Prima di tutto perché non si giustifica, ma prende coscienza rivelandosi capace di guardare in faccia la realtà: <Che cosa farò ora…?> (16, 3). La soluzione che sembra la più naturale e la più affidabile è quella di intensificare i rapporti: <Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone…> (16, 5). Soprattutto questo amministratore è capace di parlare a se stesso per portarsi oltre se stesso obbligando ad una sorta di verità sulla propria vita che invece di paralizzarlo nelle sue decisioni e azioni gli permette, invece, di andare più lontano. Di fatto ad essere lodata non è la disonestà, ma l’abilità a leggere la situazione con lucidità e a comprendere come ogni soluzione non può che passare attraverso un incremento di relazione: gli amici appunto.

Verrebbe da chiedersi come mai gli innominati denigratori si sono disturbati per denunciare questo amministratore. Viene quasi da pensare che a spingerli a questa denuncia ci sia oltre l’amore per la verità, pure una punta di gelosia per la capacità di quest’uomo a trovare sempre la via per dare il meglio e stare meglio. La domanda rimane aperta. In ogni modo si può azzardare ancora nell’interpretazione di questa parabola tra le più paradossali dicendo che la questione non è semplicemente l’onestà, ma l’integrità. Di questo sembra parlarci l’apostolo Paolo quando dice: <vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo> (Rm 15, 15-16). Non basta accontentarsi di essere onesti, è necessario essere pure scaltri nel cercare di trovare sempre il modo di portare avanti la speranza di una vita migliore per se stessi e per gli altri: equilibrio mai facile da creare e sempre difficile da mettere in pratica.

Cento per cento

XXXI settimana T.O. –

Così esordisce Ambrogio di Milano nel commentare il testo del Vangelo di oggi che non può essere gustato in pienezza se non nella memoria della terza parabola che ne completa il quadro: <Non senza motivo san Luca ci presenta di seguito tre parabole: la pecora che si era smarrita ed è stata ritrovata, la dramma che era stata perduta, poi ritrovata, il figlio prodigo che era morto, e poi è tornato in vita. Cosicché, sollecitati da questo triplice rimedio, curiamo le nostre ferite.… Chi sono questo padre, questo pastore, questa donna? Non sono forse Dio Padre, Cristo, la Chiesa? Cristo ha preso su di sé i tuoi peccati, ti porta nel suo corpo; la Chiesa ti cerca; il Padre ti accoglie. Come un pastore, ti riporta; come una madre, ti ricerca; come un Padre, ti riveste. Prima la misericordia, poi l’assistenza, infine, la riconciliazione.  Rallegriamoci quindi che questa pecora, che era perduta in Adamo, sia ripresa in Cristo. Le spalle di Cristo sono le braccia della croce; lì ho deposto i miei peccati, lì, sul nobile legno di questa croce, ho riposato>1.

Tre modi per dire la stessa cosa in modo diverso e ad un livello di profondità crescente. Il primo registro è la questione del numero. Prima di tutti una pecora perduta su cento: uno per cento; poi una moneta su dieci: dieci per cento; e infine – nella parabola che non leggiamo nella Liturgia ma che portiamo nel cuore – un figlio contro un altro figlio, uno su due: cinquanta per cento. A meno che non si tratti, in realtà, del cento per cento, visto che il pastore, la donna e infine il padre misericordioso si coinvolgono interamente e persino paradossalmente nelle loro opere di ricerca e di ritrovamento. La nostra condizione umana è sempre segnata da una certa “perdizione” che la misericordia di Dio continuamente riscatta e reintegra. L’apostolo Paolo lo dice con accenti appassionati: <nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore> (Rm 14, 7-8). 

Nella sequenza delle parabole della misericordia troviamo al centro del trittico una moneta che è un oggetto di valore ma è una cosa inanimata, totalmente passiva e senza coscienza. La prima parabola parla di una pecora, una realtà animata capace di sentire, di vedere, persino di soffrire ma non è né una volpe né un gatto: è una pecora! Solo alla fin troviamo quel figlio – meglio quei figli – che non sono solo cercati dal padre, ma che devono pure lasciarsi trovare esercitando la loro libertà e giocandosi con le esigenze della loro personale libertà e coscienza per poter accedere ad un livello reale di umanità. Tra tutti i particolari di queste parabole possiamo lasciarci conquistare dall’atteggiamento del buon pastore che, in realtà, il Signore Gesù qualifica pensando piuttosto a noi: <Chi di voi, se ha cento pecore… > (Lc 15, 4). Questo tale si avventura e porta le pecore sulle sue spalle quasi regalandole un ritorno all’ovile in prima classe. E poi quella donna che prima di spazzare la casa <accende la lampada> (15, 8). La moneta che sta cercando infatti dovrebbe riflettere la luce e quindi farsi più facilmente trovare. Questa lampada può farci pensare allo Spirito Santo che abita in noi, che ci illumina e ci rivela a noi stessi per fari brillare e continuamente ritrovare l’immagine divina che è incisa nella nostra umanità. Possiamo identificare in questa donna la Chiesa che spazza pur ti far brillare e di ritrovare condividendo la sua gioia con tutte <le amiche e le vicine> (15, 9). In questo contesto la domanda di Paolo trova una risposta che supera interamente i termini della domanda: <Ma tu, perché giudici tuo fratello? E tu perché disprezzi tuo fratello?> (Rm 14, 10). Se lo stiamo cercando non lo stiamo certo né giudicando né, tantomeno, disprezzando, ma lo stiamo amando al cento per cento!


  1. AMBROGIO DI MILANO, Commento al Vangelo di Luca, 7, 207-209 

Finire il lavoro

XXXI settimana T.O. –

L’invito del Signore Gesù non lascia dubbi. Bisogna non solo saper progettare e immaginare la propria vita – e in particolare la propria vita di discepoli – ma bisogna saper <finire il lavoro> (Lc 14, 29). Per comprendere appieno cosa possa significare questo invito del Signore Gesù nella concretezza della vita di ogni giorno ci viene in aiuto la parola dell’apostolo Paolo quando dice: <non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge> (Rm 13, 8). Davanti a questa sfida entusiasmante non bisogna dimenticare che amare l’altro significa ingaggiare una <guerra> (Lc 4, 31) contro il proprio egoismo fino ad accettare di <costruire una torre> (14, 28) che non ha nulla a che vedere con quella di Babele, ma è ben più simile all’arca di Noè. Per il Signore è chiaro che nessun compimento sarà possibile nella nostra vita se non passando attraverso il crogiolo di una scelta preferenziale che sa dare una gerarchia ad ogni aspetto dell’esistenza senza escludere i sentimenti più radicali e gli affetti più radicati: <suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle…> (14, 26).

Di certo potrà sembrare un paradosso che l’apostolo inviti a praticare generosamente <l’amore vicendevole> e che il Signore esiga dal suo discepolo di saper ordinare gli affetti più cari fino a subordinarli alla sequela. In realtà <l’amore> di cui parla l’apostolo corrisponde a ciò che il Signore Gesù richiede dal suo discepolo chiamato ad assumere <la propria croce> (14, 27) che, normalmente, coincide con <la propria vita> da accogliere e da purificare attraverso un continuo esercizio di scelta capace di preferire sempre l’altro a se stessi. Preferire significa mettere prima, mettere davanti. Si tratta di far passare sempre avanti ciò che è richiesto dal dono di noi stessi secondo l’esempio che abbiamo ricevuto da Cristo Signore. Questo è un lavoro da <finire> e che passa attraverso una capacità di <rinuncia> (14, 33) che è imprescindibile in ogni autentico dinamismo di scelta.

Se la giustizia si gioca normalmente nell’orizzonte del limite, l’amore è sempre oltre ogni limite tanto da essere comunque una forma di ingiustizia. L’ingiustizia dell’amore che Cristo Signore ha assunto portando la sua propria croce rivelando e tracciando per i suoi discepoli un cammino che non può mai accontentarsi della giustizia. Il Signore ci invita a non coltivare le nostre illusioni sull’amore e ad aprirci invece ad un amore concreto, fattivo che si costruisce e si esprime giorno dopo giorno. Ed è così che la <propria croce> (14, 27) diventa “proprio” il simbolo di questo amore più grande. Per entrare in questa conformità al Vangelo è necessario prendere coscienza che essere <discepolo> (Lc 14, 27) è un’arte che esige la totalità di noi stessi. L’apostolo Paolo ci offre, a sua volta, un criterio fondamentale per discernere il nostro grado di conformità a Cristo: <non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge> (Rm 13, 8).

Pigrizia

XXXI settimana T.O. –

La lettera ai Romani che leggiamo da qualche giorno nella Liturgia comincia ad avviarsi verso la conclusione. La riflessione arguta di Paolo sul mistero di Cristo si traduce sempre più concretamente in una esortazione a lasciare che questo mistero illumini e trasformi interamente e in modo efficace tutta la nostra vita: <Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile> (Rm 12, 16). La ragione remota e fondante della carità che si invera in una stima reciproca e in una cura del cammino dell’altro perché possa conoscere la pienezza della vita in una gioia inconsutile, si radica in una consapevolezza di cui prendere coscienza ogni giorno: <pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri> (12, 5). Questa parola dell’apostolo Paolo ci permette di comprendere ancora meglio lo sbigottimento e l’ira che insorgono ed esplodono nel cuore e dal cuore di quell’uomo che <diede una grande cena e fece molti inviti> (Lc 14, 16).

Quando i primi invitati rifiutano di partecipare alla cena adducendo vari motivi per <scusarsi> (14, 18), la reazione è fortissima tanto che la conclusione è assai amara: <Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena> (14, 24). Questa parola deve scuoterci non poco. Infatti, la parabola viene raccontata dal Signore Gesù in risposta all’esultazione entusiasta di uno dei suoi ascoltatori: <Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!> (14, 15). Davanti a questa bella espressione, il Signore Gesù sente il bisogno di ricordare a quanti lo seguono che se l’invito è per tutti, nondimeno il rischio è che lo possano realmente accogliere quanti sono catalogabili tra <i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi> (14, 21). Solo costoro, infatti, sono in grado di cogliere la portata di gratuità di un simile invito tanto da non frapporvi nessun altro impegno e onorare così il desiderio di quell’uomo. 

L’esortazione dell’apostolo va a toccare un pericolo sempre in agguato nel nostro cuore: <Non siate pigri nel fare il bene> (Rm 12, 11). Vi è una pigrizia che potremmo definire attiva, quella che ci rende indisponibili a prendere iniziative per la nostra vita richiudendoci in una ripetitività paralizzante. Vi è poi una pigrizia più sottile che si identifica con una sorta di insensibilità verso gli appelli e le possibilità che continuamente la vita ci offre e richiedono un ascolto e un’accoglienza pronti e fattivi. Perché questo accada è necessario avere un cuore libro e un’agenda abbastanza leggera o almeno disponibile e aperta all’imprevisto. Questo necessita che ci sia una gerarchia nelle nostre priorità. Si tratta di una gerarchia da ritoccare continuamente se non vogliamo diventare sordi agli appelli che ci vengono attraverso la vita. La più grave forma di pigrizia è quella che non ci fa aprire il cuore e le scelte alla necessità di cambiare i nostri programmi per gioire dell’esperienza di essere <un solo corpo> (Rm 12, 5) e di sedere tutti insieme come <commensali> (Lc 14, 15). Dunque, la vera beatitudine non sta semplicemente nel fatto di prendere <cibo nel regno di Dio>, ma di condividerlo sentendosi responsabili della propria presenza per la gioia di tutti.

Sarai beato

XXXI settimana T.O. –

Le due letture di quest’oggi sembrano incrociarsi per formare una sorta di bouquet capace di rallegrare il cuore e dare una direzione alla vita di ogni giorno. Infatti, se il Signore Gesù ci regala una parola di grande speranza: <e sarai beato perché non hanno da ricambiarti> (Lc 14, 14), l’apostolo Paolo ci svela il segreto di questa felicità nel fatto di assomigliare a Dio stesso. L’apostolo ci ricorda che <Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!> (Rm 11, 32). Il banchetto di cui si parla nel Vangelo non si limita così ad una questione di etichetta o di buona creanza, ma diventa il simbolo stesso del modo in cui Dio intrattiene una relazione di benevolenza con ciascuno dei suoi figli. Tutto ciò fa esultare Paolo: <O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie> (11, 33). L’esultazione dell’apostolo diventa, nella parola del Signore Gesù. un’indicazione assai concreta che ci rende capaci di trovare tutta la nostra felicità nel voler essere come il Padre dei cieli, simili al Padre di tutti: <Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio> (Lc 14, 12).

L’orizzonte in cui il Signore Gesù ci chiede di contestualizzare i nostri gesti e le nostre parole è quello della concretezza e della contingenza del tempo presente, ma con un’apertura sull’eternità capace di dare al nostro cuore ampiezza e profondità: <Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti> (14, 14).