Noi stessi

Ss. Corpo e Sangue di Cristo

Noi tutti siamo ministri del dono che riceviamo dal Signore Gesù che ci invia a tutti gli uomini e donne affamati di verità. Comunicare al corpo e al sangue di Cristo non è un affare privato e intimo: significa prendere parte alla missione stessa del Salvatore servendo tutti secondo la parola che il Signore rivolse ai suoi discepoli e continua a rivolgere a noi che vogliamo essere suoi discepoli: <Voi stessi date loro da mangiare> (Lc 9, 13). Il vescovo Agostino così ricorda ed esorta: <Queste cose, fratelli, si chiamano sacramenti proprio perché in esse si vede una realtà e se ne intende un’altra. Ciò che si vede ha un aspetto materiale, ciò che si intende produce un effetto spirituale. Se vuoi comprendere il mistero del corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo Paolo che dice ai fedeli: “Voi siete il corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1 Cor 12, 27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero di voi: ricevete il mistero che siete. A ciò che siete rispondete: “Amen” e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo”, e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen>1.

Il fatto di non leggere il testo dell’istituzione dell’Eucaristia alla vigilia della Passione, ma un passo del ministero di compassione del Signore Gesù ci ricorda che tutta la vita del Signore Gesù fu una vita eucaristica come deve essere anche la nostra. Per questo il Vangelo comincia con una nota che contestualizza quella che non viene indicata come moltiplicazione ma come distribuzione dei pani, ma tutta la vita sacramentale della Chiesa: <Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure> (Lc 9, 11). Prima di tutto il Signore guarisce e poi sfama istituendo quell’ordine della compassione di cui l’Eucaristia è sacramento non cultuale ma esistenziale secondo l’esempio di Melchisedek evocato dalla prima lettura. Come le mani del terapeuta dicono la cura, come i gesti della tenerezza esprimono l’amore, il pane e il vino sono il segno di una presenza reale di Cristo nella nostra vita che si fa sacramento della vita che ci viene da Dio e che siamo chiamati a donarci reciprocamente sempre con quella qualità divina di assoluta gratuità che guarisce il cuore da ogni paura e da ogni illusione di inutile e triste autonomia.


1. AGOSTINO, Discorsi, 272.

Nous-mêmes

Fête du Corps et du Sang du Christ  –

Fête du Corps et du Sang du Christ – Nous sommes tous ministres du don que nous recevons du Seigneur Jésus qui nous envoie vers tous les hommes et femmes affamés de vérité. Parler du Corps et du Sang du Christ n’est pas une affaire privée et intime : cela signifie prendre part à la mission même du Sauveur en servant tout le monde selon la parole que le Seigneur adresse à ses disciples et continue à nous adresser, à nous qui voulons être ses disciples : «  Donnez-leur vous-mêmes à manger » ( Lc 9, 13 ). L’évêque Augustin nous rappelle et nous exhorte ainsi : «  Frères, ces choses s’appellent sacrements parce que l’on voit en eux une réalité qui en désigne une autre. Ce que l’on voit a un aspect matériel et ce que cela signifie produit un effet spirituel. Si tu veux comprendre le mystère du corps du Christ, écoute l’apôtre Paul qui dit aux fidèles : «  Vous êtes le corps du Christ et ses membres, chacun pour sa part » ( 1 Co 12, 27 ). Si donc vous êtes le corps et les membres du Christ, votre mystère est aussi déposé sur la table du Seigneur : recevez le mystère que vous êtes. A ce que vous êtes, répondez : «  Amen » et en le répondant vous le signifier. Tu te dis, en fait :« le Corps du Christ », et tu réponds «  Amen ». Sois membre du corps du Christ, pour que ton Amen soit véridique »1.

Le fait de ne pas lire le texte de l’institution de l’Eucharistie à la vigile pascale, mais un passage du ministère de compassion du Seigneur Jésus, nous rappelle que toute la vie du Seigneur Jésus fut une vie eucharistique comme doit être également la nôtre. Ainsi, l’Evangile commence par une annotation qui contextualise toute la vie sacramentelle de l’Église et qui n’est pas indiqué comme multiplication, mais comme distribution des pains : » Jésus se mit à parler à la foule du règne de Dieu et à guérir ceux qui avaient besoin de soins ( Lc 9, 11 ). Avant tout, le Seigneur guérit et rassasie ensuite, instituant cet ordre de la compassion dont l’Eucharistie est le sacrement non cultuel mais existentiel selon l’exemple de Melchisédech évoqué dans la première lecture. Tout comme les mains du thérapeute parlent de soin et les gestes de la tendresse expriment l’amour, le pain et le vin sont le signe d’une présence réelle du Christ dans notre vie qui se fait sacrement de la vie qui nous vient de Dieu et dont nous sommes appelés à redonner réciproquement toujours avec cette qualité divine entièrement gratuite qui guérit le coeur de toute peur et de toute illusion d’une inutile et triste autonomie.


1. AUGUSTIN, Discours, 272.

Anzitutto

XI Settimana T.O. –

La conclusione del Vangelo è una degna conclusione della lettura che, in questi giorni, abbiamo fatto della seconda lettera ai Corinzi. Il Signore Gesù raccomanda ai suoi discepoli lo spirito delle beatitudini che si invera in un atteggiamento di semplice e coraggiosa fiducia che libera da ogni ansia senza mai far scadere nella superficialità e nella banalità: <Cercate, invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena> (Mt 6, 33-34). Tutta la vita dell’apostolo Paolo, che può essere assunta come un modello di ispirazione per ogni crescita nella discepolanza, è stata un lungo cammino di purificazione da quella tendenza alla preoccupazione che può diventare, come era avvenuto nel caso di Saulo, talmente ossessiva da rendere pensabile nientemeno che la persecuzione.

Alla fine della sua vita e del suo ardente servizio all’annuncio del Vangelo, Paolo si rivela come un uomo e un credente che, finalmente, si è arreso alla grazia che ha dovuto imparare a conoscere come un mistero di misericordia e di perdono. Per questo il sommo e la somma di ogni rivelazione si trova in una parola che contrappone il modo di sentire e di salvare da parte di Dio e il tremendo arrovellarsi cui spingono le suggestioni di <Satana> (2Cor 12, 7) e si riassume in una parola chiara, dolce e massimamente liberante: <Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza> (12, 9). Se ci lasciamo toccare realmente dalla parola del Vangelo possiamo dire che la nostra forza sta nell’abbandono e nella fiducia, i quali ci aprono ad una relazione con Dio e con noi stessi nel segno della semplicità e dell’essenzialità: <non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?> (Mt 6, 25).

A questa domanda che il Signore pone anche al nostro cuore in quelle che sono le nostre scelte quotidiane non si risponde certo a parole, ma con scelte concrete in cui si manifesta la nostra scelta di campo in cui il fulcro di ogni discernimento è la relazione con Dio nella memoria chiara e distinta che <Non potete servire Dio e la ricchezza> (Mt 6, 24). Per poter comprendere e poter vivere tutto ciò l’esortazione del Signore Gesù è di uscire dalle nostre complicazioni: <Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo> (6, 26.28). Se guardiamo veramente gli uccelli del cielo e i gigli del campo impareremo a guardare a noi stessi in un modo più semplice e più vero… in modo più naturale. Così grazia e natura si sposano e si riconciliano per poter anche noi dire con Paolo: <Mi vanterò quindi ben volentieri nelle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo e questo vale ben più che tutte le <visioni> e <rivelazioni> (2Cor 12, 1) che non sono da ricercare <anzitutto>, ma da accogliere come un di più.

Povero

XI Settimana T.O. –

Il salmo con cui rispondiamo alla prima lettura ci aiuta ad assumere la nostra più profonda e promettente identità: <Questo povero grida e il Signore lo ascolta> (Sal 33, 7). Dopo averci consegnato la forma della preghiera, il Signore Gesù ci affida il criterio di discernimento per essere autentici nella nostra vita e nella nostra ricerca. Il primo criterio è lapidario: <Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore> (Mt 6, 21). Ambrogio di Milano mette in guardia i suoi ascoltatori: <Tu sei ‘carceriere’ dei tuoi beni e non proprietario, tu che seppellisci il tuo oro sottoterra (Mt 25,25), sei il suo servo e non il suo padrone: “Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. In quest’oro, hai quindi sepolto il tuo cuore. Vendi piuttosto il tuo oro e compra la salvezza; vendi il minerale e acquista il Regno di Dio, vendi il campo e riscatta per te la vita eterna>1. Per fare questo è necessario assumere il secondo criterio facendo memoria di ciò che spiega ancora il Signore Gesù ai suoi discepoli: <La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso> (6, 22). 

Normalmente pensiamo che gli occhi ci servano per vedere le cose fuori di noi; invece, il Signore ci ricorda che l’occhio per essere un sano organo per cogliere ciò che avviene all’esterno deve essere, prima di tutto, un organo interiore capace di cogliere il reale che sta fuori di noi a partire da ciò che coltiviamo attraverso le scelte del cuore. Solo così potremo avere quella semplicità che è garanzia di libertà e di verità. L’apologia dell’apostolo Paolo ci fa comprendere come possiamo discernere il livello di semplicità e di luminosità del nostro cuore proprio a partire dal nostro grado di disponibilità ad impegnare realmente la nostra vita fino a rischiare di persona per ciò che sentiamo essere il <tesoro> irrinunciabile della nostra esistenza: <molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte> (2Cro 11, 23).

Come ricorda un maestro contemporaneo, quasi in contrappunto a quanto diceva Ambrogio di Milano: <Il cuore umano è complicato e instabile, ripiegato su se stesso fin dalla nascita. Niente di più instabile del nostro cuore che continua ad agitarsi senza sapere dove fissare la sua attenzione: cerca la felicità, poiché la gioia del cuore è la vita dell’uomo, ma spesso si sbaglia di oggetto>2. Tutta la vita ci è consegnata come l’occasione per dare pace e gioia al nostro cuore, permettendogli di esercitare la sua funzione fondamentale che è quella di scegliere ciò che desidera senza cedere all’illusione di ciò che, in realtà, riempie ma non sazia, acceca ma non illumina, brucia ma non scalda.


1. AMBROGIO, Su Nabaoth, 58

2. C. FLIPO, Jésus maitre de vie, Salvator, Paris 2010, p. 18.

Sposo

XI Settimana T.O. –

Gli accenti della prima lettura sono di rara intensità e risuonano in modo particolarmente toccante attraverso il pentagramma delle emozioni più sacre e più forti. Se all’inizio troviamo un’affermazione commovente: <vi ho promesso infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta> (2Cor 11, 2), alla fine il testo diventa appassionato: <Cristo mi è testimone: nessuno mi toglierà questo vanto in terra di Acàia! Perché? Forse perché non vi amo? Lo sa Dio!> (11, 10). Queste ardenti parole dell’apostolo possono farci entrare nel mistero della preghiera che il Signore ci trasmette come un ministero di vita e di amore. Prima di donarci le parole della preghiera, che sono capaci di scavare nel nostro cuore lo stile evangelico della contemplazione imprescindibilmente legata alla purificazione del cuore e all’intercessione, il Maestro ci attrezza, per così dire, con la consegna di una sorta di condizione previa di ogni preghiera che sia secondo il cuore di Cristo: <Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sai di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate> (Mt 6, 7-8).

Con queste parole il Signore Gesù ci rivela che ogni umana preghiera è capace di raggiungere il cuore di Dio e farsi carico delle necessità e delle speranze di tutti nella misura in cui si riparte continuamente dalla consapevolezza di una cura di Dio che prima di essere richiesta e invocata va riconosciuta e accolta come la realtà che previene ogni nostra supplica tanto da orientare e rettificare ogni nostro desiderio. Secondo l’insegnamento e l’esempio del Signore Gesù, il primo passo della preghiera è di volgerci a Dio in modo preciso chiamandolo e riconoscendolo quale <Padre nostro> (6, 9). La consapevolezza e la gratitudine per il fatto di avere un <Padre> condiviso ci aiuta a condividere la vita tanto che le nostre stesse suppliche prima di essere rivolte a Dio perché ci soccorra e ci esaudisca, sono il modo più autentico per prendere coscienza di ciò che dobbiamo essere e fare gli uni per gli altri tanto che diventiamo ciò che domandiamo.

Se gli ultimi quattro capitoli della seconda lettera ai Corinzi vengono definiti <la lettera di lacrime> dell’apostolo che si sente umiliato e addolorato dall’atteggiamento dei cristiani di Corinto sedotti dalle mode spirituali del loro tempo, la preghiera insegnataci dal Signore Gesù crea uno stile di orazione radicalmente impastato con la vita e raggiunge la sua acme nella richiesta di perdono che si fa pronta disponibilità al necessario perdono. È la preghiera secondo il “Padre nostro” a rendere la nostra vita <vergine e casta> (2Cor 11, 29 in quanto capace di apertura assoluta e di dono incondizionato. La castità non va identificata semplicemente – si fa per dire! – con la continenza sessuale, ma con un atteggiamento di libertà nei confronti di se stessi e degli altri che apre spazi di dono autentico.

Con gioia

XI Settimana T.O. –

La Liturgia ci propone oggi lo stesso testo che segna, ogni anno, l’inizio della Quaresima. Per questo potremmo dire che, in realtà, ogni giorno può diventare per noi una sorta di piccolo “mercoledì delle ceneri” con cui riprendiamo, daccapo e con rinnovato amore, il nostro cammino di conversione. L’apostolo Paolo ci esorta prima di tutto ad assumere uno stile di conversione che si può riassumere così: <con gioia>! La prima lettura è come una finestra aperta sul mistero di Dio che si riflette nella nostra vita: <Ciascuno dia quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia> (2Cor 9, 7). Stando a quello che ci dice del Padre il Signore Gesù, possiamo immaginare e credere che l’Altissimo <che vede nel segreto> (Mt 6, 4) scruta e accompagna <con gioia> ogni nostro piccolo o grande segno di conversione. Questa gioia passa sempre attraverso una interiorizzazione nemica di ogni spettacolo ipocrita. Se ogni mattina può e deve essere per noi il rinnovato inizio di un cammino di conversione, il primo passo di questo viaggio interiore è l’obbedienza alla parola del Vangelo che ci mette in guardia non dagli altri, ma da noi stessi: <State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli> (6, 1).

In realtà, c’è una corrispondenza magnifica tra ciò che vede il nostro Padre che è nei cieli e ciò che possiamo sentire nell’intimo segreto del nostro cuore nel quale l’Altissimo ama abitare discretamente, ma così efficacemente se solo gli diamo veramente e generosamente spazio. Non si tratta solo di sentire la soddisfazione di uno sguardo del Padre che valga più dell’ammirazione del mondo intero, ma, ancor di più, sotto questo sguardo noi possiamo maturare una serenità interiore per cui la testimonianza del nostro cuore, illuminato dallo sguardo compiaciuto del Padre, ci basta per trovare pienezza e gioia liberandoci così da ogni inutile e frenetica attesa del plauso che ci potrebbe venire dagli altri. Così possiamo comprendere come la parola consegnataci dal Signore Gesù non ci mortifica, ma ci dilata nella nostra serenità e pace: <Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra> (6, 3). 

L’apostolo conferma e chiarisce ulteriormente ciò che il Signore ci consegna nel Vangelo: <tenete presente questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà> (2Cor 9, 6). Il salmista ci offre una sorta di ritratto di quello che siamo chiamati a diventare riflettendo in noi il volto invisibile del Padre che è nei cieli: <Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti: misericordioso, pietoso e giusto> (Sal 111, 4). Siamo chiamati ad esercitarci nell’arte del segreto per essere capaci, in verità, di libertà e di amore. Nel nostro cuore – nel segreto del nostro cuore siamo chiamati a chiarire a noi stessi quanto e come vogliamo darci…fino a che punto vogliamo donarci… per quali motivazioni profonde vogliamo seminare il dono di noi stessi con larghezza.

Premura

XI Settimana T.O. –

Ciò di cui l’apostolo Paolo ci parla nella prima lettura ci può sembrare anche abbastanza banale. Eppure, la portata simbolica di ogni gesto di condivisione e di carità ha un peso rivoluzionario in quelle che sono le nostre relazioni fraterne. Paolo esorta e allo stesso tempo ammira: <E come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa> e aggiunge <Non dico questo per darvi un comando, ma solo per mettere alla prova la sincerità del vostro amore con la premura verso gli altri> (2Cor 8, 7-8). Il termine <premura> può sembrare una parola assai leggera e, invece, può diventare il primo passo di gesti e di scelte assai importanti nel nostro modo di porci non solo davanti, ma accanto agli altri. Ancora di più è altamente, significativo il fatto che l’apostolo Paolo sembra esplicitare la forma di questa premura apparentemente così banale calandola, per così dire, nello stampo dello stesso mistero dell’incarnazione: <Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà> (8, 9).

Queste parole dell’apostolo Paolo ci permettono di cogliere nella sua più alta profondità la provocazione del Vangelo che potremmo definire una sorta di dichiarazione di guerra contro tutto ciò che nel nostro cuore tende a restringere il coraggio della generosità. Continuando la sua catechesi, che sta a fondamento di ogni esperienza discepolare, il Maestro lancia un’ulteriore provocazione ai suoi ascoltatori e a noi che ci vantiamo di essere tra coloro che vogliono seguire il Signore: <Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?> (Mt 5, 46-47). Il Signore Gesù ci chiede di fare della nostra vita un simbolo della sua stessa passione di dono che lo ha portato a diventare uno di noi fino a mettersi nelle nostre mani accettando persino che lo mettessimo sotto i nostri piedi. Tutto ciò non certo per una sorta di masochismo gratuito che sarebbe alquanto malato, ma per una fedeltà al proprio cuore che è stata capace di rivelarci il cuore stesso di Dio come Padre. 

L’esortazione finale del Vangelo di quest’oggi diventa così un programma aperto a tutti gli imprevisti e disposto a rispondere a tutte le urgenze relazionali che la vita pone davanti a noi: <Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste> (Mt 5, 48). L’<opera generosa> (2Cor 8, 6) evocata e consigliata dall’apostolo Paolo, che si concretizza in un piccolo gesto di solidarietà, diventa così il simbolo di un atteggiamento di fondo che ci rende persone sempre in atto di donare persino quando riceviamo qualcosa perché si accoglie tutto e tutti con sentimenti di gratitudine e di stupore.

Accogliere

XI Settimana T.O. –

L’inizio della prima lettura può fungere da portale per comprendere appieno le gravi parole del Signore Gesù che, come sapiente pittore, continua a dare colori e profondità all’affresco delle beatitudini quale stile di vita che dona la vita: <poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio> (2Cor 6, 1). Accogliere la grazia diventa, nell’insegnamento del Signore accogliere fino all’estremo ogni nostro fratello, riconoscendo così di avere raggiunto la consapevolezza di avere continuamente bisogno, a nostra volta, di essere accolti. Il primo passo per esprimere e vivere l’accoglienza dell’altro, che è sempre un farsi accogliere dall’altro, è quello non solo di saper dare del tempo, ma di essere persino disposti a perdere tempo: <E se uno ti costringe ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due> (Mt 5, 41). Riascoltando questo insegnamento il cuore ricorda quasi automaticamente quel camminare dei Risorto accanto ai due discepoli che fanno la strada da Gerusalemme ad Emmaus che dista dalla città santa ben <undici chilometri> (Lc 24). Quante cose si possono scoprire camminando insieme, quanti pregiudizi possono cadere e quali amicizie e umane complicità possono rafforzarsi con quell’andare dei piedi che distende la mente, scioglie la lingua e conforta il cuore.

Il Signore fa memoria di quanto si trova scritto nella Legge: <Occhio per occhio e dente per dente> (5, 38) e, proprio mentre lo rammenta non senza devozione, ci aiuta ad andare oltre per non trasformare la vita in un grande cimitero ma far sì che appaia sempre di più come un giardino in cui ci si scambia il dono di un’accoglienza reciproca vera e umile al contempo. Come ricorda Doroteo di Gaza: <intendo l’umiltà vera, non un abbassamento a parole e ad attitudini, bensì una disposizione veramente umile, nell’intimo del cuore e dello spirito. Per questo il Signore dice: “Sono mite e umile di cuore»”. Chi vuole trovare il vero riposo per la sua anima impari dunque l’umiltà>1. Questo diventa assolutamente più facile se facciamo nostra l’attitudine dell’apostolo Paolo: <come poveri, ma capaci di arricchire molti, come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!> (2Cor 6, 10).

La legge del taglione, che facilmente ci viene di disprezzare come antiquata e per molti aspetti barbara, in realtà è già un balbettìo e un bisbiglio di vangelo con cui si cerca di arginare la cieca violenza che ci serra il cuore prima di farci stringere i pugni. La parola di Cristo, come pure l’esortazione dell’apostolo, non sono certo un lasciapassare per il male, né, tantomeno, un invito a incoraggiarlo e a farlo dilagare, ma ben più profondamente apre il nostro cuore ad accogliere uno spirito nuovo che ci permette di porre l’attenzione non sul torto che eventualmente ci viene fatto, ma sempre sul fratello che lo sta compiendo. Tenere fisso lo sguardo sulla persona senza lasciarci distogliere dal male che compie, significa neutralizzare il male poiché oltre le sue maschere repellenti sappiamo cogliere il bisogno concreto del nostro simile che attende se non di essere amato, almeno di essere rispettato come <malvagio> (Mt 5, 39) e questo è il primo passo di un’accoglienza che può – forse deve – ancora crescere.


1. DOROTEO DI GAZA, Istruzioni, 1, 8.

Sapienza

Santissima Trinità

La liturgia della Parola di questa solennità ricapitolativa di tutto l’anno liturgico esordisce con queste parole: <Così parla la Sapienza di Dio!>. Senza tradire il testo potremmo trasformare queste parole e dire: “Così parla l’Amore di Dio”. Dopo le intense settimane della Quaresima e della Pasqua culminate nella celebrazione della Pentecoste, siamo chiamati ad immergerci nel Mistero che origina i misteri che celebriamo e da cui attingiamo come credenti la linfa della fede, della speranza, della carità. La Sapienza-Amore sembra cantare nello stupore della tenerezza più grande: <Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra> (Pr 8, 23). E quando la Sapienza fatta carne, fatta voce, fatta dono di vita fino all’estremo del dono pasquale parla di se stessa, in realtà, non riesce che a parlare di altri: <Quando verrà lui, lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità…> (Gv 16, 13). La verità cui lo Spirito ci guida interiormente non è un concetto, ma è la porta di una relazione possibile e desiderata: <Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio: per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà> (Gv 16, 14-15).

L’apostolo Paolo sembra cercare di far crescere i cristiani di Roma in quella che potremmo definire la consapevolezza della mediazione senza la quale non ci può essere un’autentica esperienza di fede pasquale: <giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio> (Rm 5, 1-2). Nella misura in cui ci sprofondiamo nel mistero di Dio-Uni-Trino possiamo imparare ad accogliere il mistero di noi stessi e delle nostre relazioni in un modo sempre nuovo tanto da essere in grado di comporre in pacifica armonia le diverse dimensioni del nostro essere e del nostro entrare in relazione con gli altri e con l’Altro. La festa della Trinità nutre la nostra speranza di essere capaci di comunione per diventare capaci di unicità fino a portare il fardello di una solitudine solidale come le tre Persone divine la cui Sapienza è l’Amore e il cui Amore è l’unica versa Sapienza che <non delude>. 

La ragione prima e ultima di questo dinamismo è riassunta ancora una volta dall’apostolo Paolo: <l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato> (Rm 5, 5). Celebrare la festa della Trinità non è un invito ad adorare un concetto, ma ad entrare in un autentico dialogo d’amore con Dio per entrare in dialogo con i nostri fratelli e sorelle in umanità tanto da poter dire a nostra volta: <giocavo davanti a lui ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo> (Pr 8, 30-31).

Il nostro Dio ci dice: “Io sto bene con te tanto da abitare dentro di te”! Tutta la vita ci è data per poter dire al nostro Dio: “Anch’io sto talmente bene con te da voler diventare come te”.

<La Trinità non è tre persone giustapposte, ma tre generosità che si donano reciprocamente in pienezza. Ciascuna delle tre persone non è per se stessa se non donandosi alle altre due. Ognuna delle Persone divine non è se stessa se non fuori di sé non c’è nessuna possibilità di alcun ripiegamento su se stessi>1.


1. F. VARILLON, Joie de croire, joie de vivre, Centurion, Paris 1981, pp. 139-140.

Sagesse

Sainte Trinité –

La liturgie de la Parole de cette solennité, récapitulation de toute l’année liturgique, nous exhorte par ces paroles : «  Ainsi parle la Sagesse de Dieu ! ». Sans trahir le texte, nous pourrions transformer ces paroles et dire : «  Ainsi parle l’Amour de Dieu ». Après les semaines intenses du Carême et de Pâques dont le point culminant est la célébration de la Pentecôte, nous sommes appelés à nous immerger dans le Mystère à l’origine des mystères que nous célébrons et dont nous atteignons, comme croyants, la lymphe de la foi, de l’espérance, de la charité. La Sagesse-Amour semble chanter dans l’étonnement d’une grande tendresse : « J’ai été fondée dès l’éternité ; depuis le commencement, avant l’origine de la terre » ( Pr 8, 23). Et, lorsque la Sagesse faite chair, voix, don de vie jusqu’à l’extrême du don pascal, parle d’elle-même, elle ne réussit, en réalité, que de parler des autres : «  Lorsqu’Il viendra, Lui, l’Esprit de vérité, Il vous guidera vers toute la vérité… » ( Jn 16, 13 ). La vérité vers qui l’Esprit nous guide intérieurement, n’est pas un concept, mais c’est la porte d’une relation possible et désirée : « Il me glorifiera, car c’est de mon bien qu’il prendra pour vous en faire part. Tour ce qu’a le Père est à moi : voilà pourquoi j’ai dit : c’est de mon bien qu’il prendra pour vous en faire part » ( Jn 16, 14-15).

L’apôtre Paul semble chercher à faire grandir les chrétiens de Rome dans ce que nous pourrions définir comme la conscience de la médiation sans laquelle il n’y a pas d’authentique expérience de la foi pascale : « Ayant donc reçu notre justification de la foi, nous sommes en paix avec Dieu par notre Seigneur Jésus-Christ, lui qui nous a donné d’avoir accès par la foi à cette grâce  en laquelle nous sommes établis et nous nous glorifions dans l’espérance de la gloire de Dieu » ( Rm 5, 1-2 ). Dans la mesure où nous  nous approfondissons dans le mystère de Dieu – Un- Trinité, nous  pouvons apprendre à accueillir notre propre mystère et celui de nos relations de façon toujours plus renouvelée afin d’être toujours plus capables de composer en harmonie pacifique les différentes dimensions de notre être et de notre manière d’entrer en relation avec les autres et avec l’Autre. La fête de la Trinité nourrit notre espérance d’être capables de communion pour devenir capables d’unité jusqu’à porter le fardeau d’une solitude comme les trois Personnes divines dont la Sagesse est l’Amour et dont l’Amour est l’unique véritable Sagesse qui ne «  déçoit pas ».

L’unique et seule raison de ce dynamisme est résumé encore une fois par l’apôtre Paul : «  L’amour de Dieu a été répandu dans nos coeurs par le Saint Esprit qui nous fut donné » ( Rm 5, 5 ). Célébrer la fête de la Trinité n’est pas une invitation à adorer un concept, mais à entrer dans un authentique dialogue d’amour avec Dieu pour entrer en dialogue avec nos frères et sœurs en humanité pour pouvoir dire à notre tour : «  J’étais à l’oeuvre auprès de lui, me réjouissant chaque jour et jouant sans cesse en sa présence, jouant sur le globe de sa terre et trouvant mes délices parmi les enfants des hommes » ( Pr 8, 30-31 ).

Notre Dieu nous dit : «  Je me sens bien avec toi et je viens habiter en toi » ! Toute la vie nous est donnée pour pouvoir dire à notre Dieu : «  Moi aussi je suis tellement bien avec toi et je voudrais devenir comme toi ».« La Trinité n’est pas trois personnes juxtaposées, mais trois générosités qui se donnent réciproquement en plénitude. Chacune des trois personnes n’agit pas pour elle-même, si ce n’est en se donnant aux deux autres. Chaque Personne divine n’est pas elle-même en soi, mais extérieurement à elle et il n’y a aucune possibilité de repliement sur soi-même »1.


1. F. VARILLON , Joie de croire, joie de vivre, Centurion, Paris 1081, pp. 139-140.