Convertire… in manna

IV Domenica T.Q. 

La Liturgia di questa domenica si apre con una solenne proclamazione da parte del Signore Dio al suo servo Giosuè nel momento in cui finalmente i piedi e i cuori degli Israeliti toccano finalmente la terra santa delle più sante promesse: <Oggi hi allontanato da voi l’infamia dell’Egitto> (Gs 5, 9). Il segno di un cammino compiuto e di una Pasqua interamente realizzata non sono come fuga dalla terra delle umiliazioni, ma anche come possibilità di pieno esercizio della propria libertà e creatività suona così: <E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan> (5, 12). Ciò vuol dire che da quel giorno il popolo dovette cominciare a lavorare la terra perché essa potesse dare la pienezza dei suoi frutti. L’esperienza del cammino nel deserto in cui il popolo riceve dal cielo il nutrimento di ogni giorno non è che la porta di ingresso in quella ordinarietà in cui ognuno è chiamato a ritornare al proprio lavoro, alla propria creatività, alla propria responsabilità.

Questo testo del libro di Giosuè scelto dalla Liturgia per introdurci alla lettura di una delle pagine più commoventi non solo delle Scritture ma di tutta la letteratura universale, ci aiuta ad intuire ciò che non è scritto e a osare una risposta alla collera del figlio maggiore della parabola. Si potrebbe glossare così e osare una conclusione che non è scritta: <E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato il vitello grasso e trascorso la notte a danzare, la festa cessò e ricominciò la vita ordinaria di lavoro e di condivisione della fatica>. In tal modo verrebbe a cadere l’scandalo adirato del figlio maggiore che si sente così ferito dalla benevolenza paterna che rischia di essere, ai suoi occhi, un segno di debolezza e quasi l’approvazione della condotta trasgressiva del figlio minore a detrimento della dedizione del maggiore: <Il figlio maggiore si trovava nei campi…> (Lc 15, 25). Anche il figlio minore dovrà riprendere la vita <nei campi>, ma non prima di aver gustato fino in fondo la <manna> di quella misericordia che, allontanando dalla sua vita e dal suo cuore, il minimo segno di <infamia> gli permetterà di riprendere la vita di sempre come una <creatura nuova>> (2Cor 5, 17).

Le parole del padre non sono una giustificazione della trasgressione, ma risuonano come l’accoglienza necessaria della realtà, unica e non moltiplicabile, di ciascuno dei suoi figli perché ognuno possa aprirsi a cose <nuove> senza essere prigioniero delle <cose vecchie>. Non bisogna però dimenticare che <vecchie> possono diventare persino le cose più buone e più sante se non sono continuamente rinnovate e rinvigorite nella giovinezza di un amore continuamente riconquistato e ritrovato. Così veniamo a scoprire che il più giovane della famiglia è proprio il padre il quale <gli corse incontro, gli si getto al collo e lo baciò> (Lc 15, 20). Come ricorda in uno scritto ormai classico uno degli autori più rilevanti del nostro tempo: <Quando guardo al mio essere perduto con gli occhi di Dio e scopro la gioia di Dio a causa del mio ritorno a casa, allora la mia vita può diventare meno angosciata e più fiduciosa>1.


1. H. NOUWEN, Le retour de l’enfant prodigue, Albin Michel, Paris 2008, p. 169.

Convertir… en manne

IV Dimanche T.Q. –

La Liturgie de ce dimanche s’ouvre par une proclamation solennelle de la part du Seigneur Dieu adressée à son serviteur Josué au moment où, finalement, les pieds et les coeurs des Israélites touchent la terre sainte des plus saintes promesses : «  Aujourd’hui, j’ai éloigné de vous l’infamie de l’Egypte » ( Js 5, 9 ). Le signe d’un cheminement accompli et d’une Pâques réalisée n’est pas fuite de la terre des humiliations, mais aussi possibilité  du plein exercice de sa propre liberté et créativité, ce signe se traduit ainsi : «  Et, à partir de ce jour, comme ils avaient mangé les produits de la terre, la manne cessa. Les Israélites n’eurent plus de manne ; et cette année, ils mangèrent les fruits de la terre de Canaan » ( 5, 12 ). Ce qui signifie, qu’à partir de ce jour, le peuple dut commencer à travailler la terre afin qu’elle puisse donner des fruits en abondance L’expérience du cheminement dans le désert où le peuple reçoit du ciel la nourriture de chaque jour, n’est que la porte d’entrée du quotidien ordinaire où chacun est appelé à retourner à son travail, à sa créativité et à ses propres responsabilités.

Ce texte du livre de Josué choisi par la Liturgie pour nous introduire à la lecture de l’une des plus émouvantes pages non seulement des Ecritures, mais de toute la littérature universelle, nous aide à deviner ce qui n’est pas écrit et à esquisser une réponse à la colère du fils aîné de la parabole. L’on pourrait résumer ainsi et oser une conclusion, non écrite : «  Et, à partir du jour suivant, comme ils avaient mangé le veau gras et passer la nuit à danser, la fête cessa et leur vie ordinaire de travail et de partage de la fatigue recommença « . Ainsi, le scandale de la colère du fils aîné s’évanouirait, lui qui se sent si blessé par la bienveillance paternelle qui risque d’être, à ses yeux, un signe de faiblesse, pour ne pas dire l’approbation de la conduite transgressive du fils cadet, au détriment du dévouement de l’aîné : «  Le fils aîné se trouvait aux champs… » ( Lc 15, 25 ). Le fils cadet devra aussi reprendre la vie «  aux champs », mais pas avant d’avoir goûté entièrement la «  manne » de cette miséricorde qui, en éloignant de sa vie et de son coeur le moindre signe «  d’infamie », lui permettra de reprendre la vie de toujours comme une «  créature nouvelle » ( 2 Co 5, 17 ).

Les paroles du père ne sont pas une justification de la transgression, mais résonnent comme l’accueil nécessaire à la réalité, unique et non démultipliée de chacun de ses fils, afin que chacun puisse s’ouvrir à « la nouveauté » sans être prisonnier de « l’ancien ». Il ne faut pourtant pas oublier que «  ancien »  peut aussi désigner les meilleures choses et les plus saintes si elles ne sont pas continuellement rénovées et revigorées par la jeunesse d’un amour continuellement reconquis et retrouvé. Ainsi nous arrivons à découvrir que le plus jeune de la famille est vraiment le père qui «  courut à sa rencontre, se jeta à son cou et l’embrassa » ( Lc 15, 20 ). Comme nous le rappelle l’un des auteurs les plus connus de notre temps dans une phrase désormais classique : «  Lorsque, perdu, je me regarde avec les yeux de Dieu et que je découvre la joie de Dieu à cause de mon retour à la maison, alors, ma vie peut devenir moins angoissée et plus confiante »1.


1. H. NOUWEN, le retour de l’enfant prodigue, Albin Michel, Paris 2008, p. 169

Convertire… in fasce

III settimana T.Q.

Il profeta Osea non ha dubbi sull’atteggiamento fondamentale del Signore nei nostri confronti: <egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà> (Os 6, 1). Il Signore Gesù non lascia alcun dubbio: <Io vi dico: questi a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato> (Lc 18, 14). Così esorta Giovanni Crisostomo: <Rivela la tua coscienza in presenza di Dio, mostragli le tue piaghe e implora da lui i rimedi; rivolgiti all’Altissimo non come giudice, ma come medico>1.

Ormai a metà del cammino quaresimale e mentre la marcia verso la Pasqua si fa corsa ardente e appassionata per reimmergerci nel mistero pasquale di Cristo Signore, siamo chiamati a fare sempre più ricorso alle fasce della misericordia senza dimenticare di essere i primi ad averne bisogno. Se, infatti, le fasce del giudizio stritolano la possibilità di conversione e di crescita dei nostri fratelli, le fasce della misericordia fanno sentire al caldo e al sicuro quanti sono ancora neonati nel cammino di fede, tanto da dare loro il coraggio del cambiamento. Così pure le fasce della misericordia permettono a quanti sono feriti a causa della debolezza della volontà e della fragilità nelle proprie scelte, di avere il tempo di lasciare che le piaghe non si infettino e possano gradualmente guarire fono ad essere perfettamente risanate. L’atteggiamento del fariseo è fasciato nelle bende di una mummificazione che non ammette crescita e quindi non spera nelle possibilità della vita.

Il pubblicano è così consapevole della propria fragilità da essere capace di chiedere aiuto tanto che <si batteva il petto> (18, 13). Con questo gesto, che spesso ripetiamo all’inizio della celebrazione eucaristica, si manifesta una conoscenza umile e vera del proprio cuore nemica di ogni mistificazione irrealistica che è il primo passo della superbia. La <conoscenza di Dio> (Os 6, 6) reclamata dal profeta comincia sempre con un passo di lucidità su noi stessi che esige la capacità di andare oltre noi stessi per aprirci ad un incontro così intimo con il Signore capace di mettere in luce la verità del nostro cuore senza che questo ci spezzi interiormente, ma, al contrario, ci rimetta in piedi senza cedere alla vanagloria. A ben pensarci, la boria di questo povero fariseo che non solo elenca davanti a Dio tutte le sue prodezze spirituali ma ha un bisogno incontrollabile di elencare pure le malefatte del suo vicino, nasconde un disagio che lo porta a moltiplicare le parole tradendo, così, le sue inquietudini più profonde, seppur ben mascherate. Il Signore predilige chiaramente l’atteggiamento del pubblicano non perché preferisca la trasgressione alla giustizia, ma perché ama di più una relazione fatta di verità piuttosto che un modo di porsi davanti a lui mascherando il proprio bisogno di essere accolti e di essere sempre perdonati e amati. La conoscenza di Dio, di cui ci parla il profeta, passa sempre attraverso la conoscenza di noi stessi che non può mai essere presuntuosa, ma sempre umile perché desiderosa di un contatto vero che comporta sempre la capacità di assumere la nostra povertà di creature davanti alla bontà del nostro Creatore che continuamente ci fascia con la sua misericordia.


1. GIOVANNI CRISOSTOMO, L’incomprensibilità di Dio, 5.

Convertire… le parole

III settimana T.Q.

Un testo così commovente come quello del profeta Osea ci introduce in un testo toccante come quello del Vangelo di questo venerdì di mezza quaresima. Il profeta della tenerezza ci trasmette una parola accorata dell’Altissimo: <Torna, Israele, al Signore, tuo Dio, poiché hai inciampato nella tua iniquità. Preparate le parole da dire e tornate al Signore> (Os 14, 3). Potremmo ripensare il nostro cammino quaresimale come un tempo in cui prepariamo e affiniamo le parole che vorremmo dire al Signore, senza accontentarci che siano solo parole. La sfida della Quaresima è di fare tutto il possibile perché le nostre parole siano espressione delle decisioni profonde del nostro cuore, tradotte ogni giorno in atteggiamenti e gesti concreti. Alla luce di questo possibile e desiderabile cammino, la domanda che risuona all’inizio del Vangelo sulla bocca di uno scriba è come una boccata d’aria pura in mezzo a tutte le domande trabocchetto cui siamo abituati da parte dei notabili del popolo: <Qual è il primo di tutti i comandamenti?> (Mc 12, 28). Alla domanda, il Signore Gesù risponde nel modo più semplice, il più tradizionale, per molti aspetti il più scontato. Eppure, questa parola scambiata è ben più che una semplice parola, è l’indizio di un dialogo sincero tra due cuori abitati dalla verità e disponibili ad un amore per Dio così autentico da farsi apertura attenta ad ogni creatura.

Lo scriba risponde in modo diretto e semplice: <Hai detto bene, Maestro, e secondo verità…> (12, 32). Il Signore non si lascia superare in generosità e ammirazione: <Non sei lontano dal regno di Dio> (12, 34). In poche battute le parole sono diventate capaci di trasmettere la vita e di aprire uno spazio di dialogo così reale da essere una profezia vissuta. Di tutto ciò l’amore è capace di creare e di rimettere continuamente in cammino come speranza possibile. Possiamo commentare questo incontro con le parole del profeta: <Ritorneranno a sedersi alla mia ombra, faranno rivivere il grano, fioriranno come le vigne, saranno famosi come il vino del Libano> (Os 14, 8). Come ebbe a dire Paolo VI: <La natura ci aiuta a dirigerci verso il bene; l’inclinazione, amore istintivo e sensibile, si fa atto di volontà: diventa così amore vero tanto da tradursi in una duplice operazione: la scelta e la forza. Così tutta la vita diventa amore, amore vero, amore puro, amore forte, amore felice>1.

Questo è l’unico modo e il più efficace per togliere <coraggio> (Mc 12, 34) a tutti i giocolieri delle parole sull’amore di Dio e del prossimo che però non fanno mai il passo della vita verso le esigenze proprie di ogni amore che sia degno di questo nome e veramente <vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici> (12, 33). L’immagine della <rugiada> dice bene quest’opera tenace e delicata, discreta ed efficace che non fa rumore, eppure è capace di far fiorire la terra riempiendola di un profumo di vita che inebria e consola. L’impegno e la vigilanza quaresimali potrebbero essere concentrati a fare la tara delle nostre parole per renderle sempre più capaci di trasmettere ciò che portiamo nel nostro cuore e non semplicemente l’argine alla paura di un vuoto che, spesso, riempiamo solo di chiacchiere vuote.


1. PAOLO VI, Catechesi del 20 Settembre 1972.

Convertire… vivere

III settimana T.Q.

Il libro del Deuteronomio non si accontenta di ribadire la necessità e le modalità di una promettente relazione con il Signore Dio che sia salvifica, ma né indica la motivazione più profonda e più attraente: <perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi> (Dt 4, 1). Queste parole del Deuteronomio possono offrirci un elemento in più per accogliere la parola del Signore Gesù che rischia di sembrarci troppo dura ed esigente: <Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli> (Mt 5, 19). Solo nella misura in cui diventiamo capaci di cogliere la portata dei minimi gesti e delle piccole scelte della nostra esistenza quotidiana, siamo capaci di creare uno spazio sempre più dilatato e adeguato per la vita. Inoltre, è proprio vero che la vita è sempre un’esperienza che, se autentica, non può che essere vissuta pienamente e condivisa generosamente. Una forma necessaria di condivisione è proprio la trasmissione che riguarda non solo la vita come possibilità biologica, ma prima ancora come bagaglio di sapienza. In tal senso l’esortazione finale della prima lettura tocca in modo particolare la nostra generazione tentata di consumismo esistenziale tanto da essere poco preoccupata di lasciare un’eredità vivibile: <Ma bada a te e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto, non ti sfuggano dal cuore per tutto il tempo della tua vita> e aggiunge <le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli> (Dt 4, 9).

Il cammino della conversione, per cui ci impegniamo in modo particolare nel tempo quaresimale, non è una mortificazione fine a se stessa, ma un vero processo di dilatazione che esige la decisione verso quel <pieno compimento> (Mt 5, 17) che se è tutto donato è sempre tutto da compiere nella verità e nella realtà concreta della vita di ogni giorno. Il ritornello del Deuteronomio ci richiama alla concretezza per evitare ogni deriva ideologica e illusoria: <Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli> (Dt 4, 6). La parola del Deuteronomio cerca di arginare in tutti i modi quel morbo che rischia di paralizzare fino ad uccidere la vita di relazione con Dio, con se stessi e con gli altri: si tratta della dimenticanza! Il primo sintomo dell’insorgere di questa malattia, che può veramente mettere in pericolo il nostro cammino di fede, è un senso di distanza. 

Al contrario di ciò, il Deuteronomio insiste nel sottolineare come la storia della salvezza, che passa attraverso un continuo rinnovarsi dell’Alleanza, si basa su una diversa percezione della relazione tra l’Altissimo e la nostra umanità ed è questo che fa la differenza. Nella prima lettura il messaggio è chiaro: <Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?> (Dt 4, 7). A partire da questa parola del Deuteronomio, potremmo così dire che il ruolo del Signore Gesù non è quello di sostituire, né tantomeno di <abolire> (Mt 5, 17) quanto, piuttosto, di dare <compimento> a questa inenarrabile esperienza di prossimità e di vicinanza. Eppure, come ogni vicinanza che ci è dato di sperimentare nelle nostre umane relazioni, siamo chiamati a prendere coscienza – talora così dolorosamente – di differenze profonde che bisogna imparare ad accettare e di cui bisogna portare il peso con amore e con rispetto.

Messia?

Annunciazione del Signore –

La solennità dell’Annunciazione del Signore si sposa con i profumi della primavera e ci riporta all’inizio di quel mistero di rivelazione in Cristo dell’amore del Padre che segna la nostra esperienza di Dio e la rifonda. Come il profeta Isaia anche noi spesso abbiamo quasi paura di osare l’audacia di chiedere per comprendere meglio e convertire la nostra vita per renderla sempre più conforme al cuore dell’Altissimo: <Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore> (Is 7, 12). Acaz sembra spaventato all’idea di poter dialogare con Dio secondo l’invito del profeta. Nel momento dell’annunciazione, Maria non teme, invece, di porre domande a Gabriele senza aver paura né di manifestare il suo turbamento, né di porre le domande che sorgono nel suo cuore davanti ad un annuncio che stravolge la sua vita: <Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?> (Lc 1, 34). Maria diventa l’icona della nostra chiamata ad essere credenti perché capaci di aprirci fino a lasciarci disturbare e cambiare dall’<impossibile> (1, 37). Ciò che Gabriele annuncia a Maria non è il privilegio della sua divina maternità, quanto piuttosto la sorprendente bellezza di un Dio che vuole essere <con noi> (Is 8, 10) aspettando di essere accolto da noi per essere ridonato a tutti. La parola della Lettera agli Ebrei suona come un monito: <è impossibile che il sangue di tori e di capri elimini i peccati> (Eb 10, 4).

Le parole di Maria sono diventate un modello di adesione per ogni discepolo: <Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola> (Lc 1, 38). In questa identificazione di Maria nella figura della <serva del Signore> si fa spazio all’incarnazione – nel senso più lato che può avere questo termine – di Colui che si rivelerà come Messia-Servo spogliato di ogni falsa attesa messianica infarcita di potere e di riscossa. Come spiega Raimon Panikkar in Maria si supera quella <messianite> che è <un’antica malattia ebraica, una sorta di cronica infiammazione delle ghiandole ebraiche della speranza>. Parlando degli esseni di Qumran che incarnavano l’attesa messianica più pura ma anche più aggressiva dei tempi di Gesù, Panikkar annota: <Essi andarono nel deserto per pregare, anzi per spronare Dio, o piuttosto il Messia, a venire giù dal cielo attraverso l’ascesi, la continenza, l’osservanza minuziosa di tutti i comandamenti e i divieti della Bibbia>. La conclusione sembra strana: <Sfortunatamente la cosa non è riuscita>1. Ed è così perché l’incarnazione del Verbo nel seno e nella vita di Maria si rivela come un’operazione non ascetica e non asettica, ma assolutamente ordinaria e discreta tanto che il peccato che ci ha allontanato da Dio può essere giustamente inteso come una <diminuzione del divino in ciascun uomo, la contrazione dell’infinito in ogni situazione>2. Con l’assenso di Maria alle parole dell’angelo tutto cambia perché la presenza di Dio è di nuovo accolta in tutta la sua differenza senza essere percepita più come estranea, ma come la realtà più intima, la più familiare, la più carnale proprio come una madre avverte nel proprio corpo il mistero del crescere di un corpo diverso e per nulla estraneo. Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei può dire con entusiasmo: <Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo una volta per sempre> (Eb 10, 10). Ora tocca a noi!


1. R. PANIKKAR, Parliamo dello stesso Dio?, Jaca Book, Milano 2014, p. 37

2. Ibidem, p. 66. 

Convertire… il pensiero

III settimana T.Q.

Il cammino del Signore Gesù e il suo mistero pasquale, in cui si rivela integralmente il suo ministero salvifico per tutta l’umanità, risultano chiaro sin dall’inizio tanto che il suo destino di croce più che una sorpresa è il coronamento di un processo: <passando in mezzo a loro, si mise in cammino> (Lc 4, 30). Siamo a Nazaret in occasione del ritorno di Gesù nella sua terra e tra i suoi concittadini nella pienezza della sua coscienza e agli inizi ardenti della sua predicazione. Le cose sono dure sin da subito, tanto che <Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù> (4, 29). In un modo diverso – ma non poi così diverso – si ripete la tentazione del diavolo che lo aveva condotto in alto spingendolo a buttarsi giù per dimostrare di essere una persona straordinaria. Alle grandi dimostrazioni sembra proprio che il Signore preferisca i passi semplici di un cammino ordinario, banale, e per molti aspetti, scontato. A confermare questa attitudine interiore, nemica di ogni spettacolarità, il Signore evoca le figure della vedova di Sarèpta e quella di Naaman il Siro. Questa donna incontrata per strada dal profeta Elia diventa il segno di una capacità di assumere il reale con una docilità così profonda da andare oltre l’evidenza fino a cambiarlo. La memoria di Naaman il Siro ci riporta al mistero di una guarigione necessaria da ogni inutile attesa di straordinarietà che riempie di sdegno Naaman: <Ecco, io pensavo…> (2Re 5, 11).

Sicuramente anche gli abitanti di Nazaret pensavano tante cose di Gesù e su Gesù tanto da aspettarsi ben più di un semplice commento alla Parola di Dio del giorno. Eppure, per il Signore sembra bastare questo: riprendere a camminare, ogni giorno, con un’intelligenza sempre più profonda delle Scritture che permette di impastare, quotidianamente, il pane dell’esistenza fino a farlo lievitare nella pazienza delle piccole cose, cuocerlo nel forno della pazienza quotidiana e condividerlo come il nutrimento di ogni giorno per il passo di ogni giorno. Ad aiutare Naaman in quest’accoglienza dell’ordinarietà sono proprio i suoi servi: <Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: “Bagnati e sarai purificato”> (5, 13). A questa parola accorata dei servi sembra fare eco quella rivolta dal Signore Gesù ai suoi vicini di casa: <In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria> (Lc 4, 24).

Infatti, non si tratta di sedurre, né di attrarre, né, tantomeno, di ammaliare, bensì di vivere a servizio della verità intesa come intelligenza semplice del reale, in cui siamo chiamati ad accogliere le indicazioni per il nostro cammino di obbedienza e di purificazione. Senza dubbio l’evocazione di Naaman è un modo per preparare i catecumeni al battesimo e aiutare i battezzati a non dimenticare di doversi immergere ogni giorno nei battesimi quotidiani che la vita richiede e cui, talora, obbliga fino a farci ritornare ad avere sono solo <un corpo di ragazzo> (5, 14), ma un animo di piccolo che si sa consegnare. Nel quotidiano della nostra vita siamo chiamati a scegliere tra la fiducia e la pretesa, tra la consegna vivificante di noi stessi e il ripiegamento mortifero su noi stessi.

Convertire… in concime

III Domenica T.Q. 

Al cuore di uno dei testi fondamentali della Rivelazione come è il momento in cui l’Altissimo prende nome e si fa conoscere al suo servo Mosè, proprio di lui si dice che <si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio> (Es 3, 6). L’apostolo Paolo conclude la sua esortazione con una sorta di messa in guardia: <Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere> (1Cor 10, 12). Il Signore Gesù con la sua parola e, ancor prima, con il suo atteggiamento e il suo modo di porsi davanti agli avvenimenti della storia, cerca di farci passare da una paura sterilizzante e paralizzante ad una capacità di essere realmente responsabili nei confronti del nostro interiore cammino di trasformazione: <No, io vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo> (Lc 13, 5). Questa parola del Signore Gesù non è una minaccia è, invece, una risposta a quanti se sentono in diritto di <riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici> (13, 1).

Il Signore Gesù reagisce in modo assai severo a quella tendenza con cui le sventure altrui rischiano di diventare una sorta di autocertificazione e di condanna dell’operato degli altri. La parabola che viene raccontata non è altro che la conferma di quello stesso atteggiamento rivelato a Mosè sul Sinai nella linea di una benevolenza di amplissimo respiro. Di ciò si fa interprete questo misterioso e così amabile vignaiolo: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime> (13, 8). Già nel deserto l’Altissimo sembra non avere trovato una risposta più belle di quella che garantisce una compagnia fedele e coinvolta con la storia di ciascuno: <Il Signore Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi> (Es 3, 15).

Da notare che la rivelazione del Nome a Mosè avviene solo quando questo servo di Dio ha accettato di pascolare e di prendersi cura del gregge di Ietro, di un gregge non suo dopo il fallimento del suo essere dapprima principe e poi “giustiziere”. Così il vignaiolo si mostra capace di prendersi cura di un albero che non gli appartiene su cui riversa tutte le sue cure in modo non solo gratuito, ma anche appassionato.

Convertir… en compost

III Dimanche T.Q. –

Au coeur de l’un des textes fondamentaux de la Révélation, comme l’est ce moment où le Très-Haut se nomme et se fait connaître à son serviteur, l’on dit de celui-ci qu’« il se couvrit le visage, car il avait peur de regarder vers Dieu » ( Ex 3, 6 ). L’apôtre Paul conclut son exhortation par une sorte de mise en garde : «  Ainsi donc, que celui qui se flatte d’être debout, prenne garde de tomber » ( 1 Co 10, 12 ).  Le Seigneur Jésus par sa parole, et avant encore, par son attachement et sa façon de se tenir face aux événements de l’Histoire, cherche de nous faire passer d’une peur stérilisante et paralysante à une capacité d’être réellement responsables face à notre chemin de transformation intérieure : «  Non, je vous le dis, mais si vous ne faites pénitence, vous périrez tous pareillement » ( Lc 13, 5 ). Cette parole du Seigneur Jésus n’est pas une menace, mais, au contraire, une réponse à ceux qui se sentent en droit de « rapporter à Jésus ce qui était arrivé aux Galiléens dont Pilate avait mêlé le sang  à celui de leurs victimes » ( 13, 1 ).

Le Seigneur Jésus réagit de façon assez sévère à cette tendance de considérer les aventures des uns comme une sorte d’auto-certification et de condamnation des œuvres des autres. La parabole qui est racontée, n’est rien d’autre que la confirmation de ce même attachement révélé à Moïse sur le Mont Sinaï dans le sens de la bienveillance  d’un souffle d’une grande ampleur. Ce mystérieux et si aimable vigneron en est l’interprète : «  Maître, laisse-le encore cette année, le temps que j’y creuse tout autour et que j’y mette du compost » ( 13, 8 ). Au désert, déjà, le Très-Haut semble ne pas avoir de plus belle réponse que celle qui garantit une compagnie fidèle et impliquée dans l’histoire de chacun : «  Le Seigneur, Dieu de vos Pères, Dieu d’Abraham, d’Isaac, et de Jacob, m’a envoyé vers vous » ( Ex 3, 15 ).

Il est à noter que la révélation  du Nom à Moïse advient seulement lorsque ce serviteur de Dieu a accepté, après son état de prince et celui de «  justicier », d’emmener en pâturage et de prendre soin d’un troupeau qui n’est pas le sien, mais celui de Jéthro.  Ainsi, le vigneron se montre également capable de s’occuper d’un arbre qui ne lui appartient pas, mais dont il prend soin de manière non seulement gratuite, mais aussi de façon passionnée.

Convertire… la verga

II settimana T.Q.

Il profeta Michea si profonde in una supplica che sembra profetizzare la decisione del figlio minore della parabola ormai sprofondato nell’umiliazione della miseria e della perdita di dignità: <Pasci il tuo popolo con la tua verga, il gregge della tua eredità, che sta solitario nella foresta tra fertili campagne> (Mi 7, 14). Al culmine della sua umiliazione, non disgiunta da una certa depressione, il figlio minore <ritornò in sé> e prese la decisione della sua vita: <Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: “Padre ho peccato contro il Cielo e davanti a te> (Lc 15, 17-18). Possiamo ben immaginare quali fossero i pensieri e i timori di questo figlio che non si sente più <degno di essere chiamato tuo figlio> (15, 19). Nella più nera disperazione, la sua grande speranza sarà stata la <verga> di un padre che lo avrebbe giustamente punito purché lo avesse riaccolto non tanto tra le sue braccia, ma nella sua casa dove c’è <pane in abbondanza> (15, 17). Il pane sembra essere diventato il pensiero fisso di questo giovane cui vengono negate quelle stesse <carrube di cui si nutrivano i porci> (15, 16). Eppure, il ritorno a casa coincide con la grande sorpresa del ritorno tra le braccia di un padre che è ferito non dalla mancanza di rispetto del proprio figlio, quanto piuttosto dal fatto che uno dei suoi figli rischia di sperperare non tanto il patrimonio, quanto la sua stessa vita.

Al cuore della terza parabola della misericordia, quasi come spartiacque tra la storia del figlio minore e quella del figlio maggiore, Luca incastona la perla di un primo piano sul volto e sul cuore del vero protagonista: <Quando ancora era lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si getto al collo e lo baciò> (15, 20). In un solo versetto ci viene svelato il volto di Dio e viene tracciato l’esigente cammino di conversione cui ciascuno di noi è chiamato per essere veramente figli di Dio. Eppure, sembra ricordarci il vangelo, non basta recuperare come il figlio minore o mantenere come il figlio maggiore il proprio statuto filiale, se questo non genera la capacità e la creatività di essere fratelli. Sembra proprio che sia la mancanza di compassione fraterna ad addolorare il cuore di questo padre piuttosto che la mancanza di rispetto verso la sua autorità paterna.

All’immagine così materna di un padre che accoglie nel suo seno il figlio che torna da lontano, si affianca un’immagine più drammatica che rischia di riguardarci ancora di più: <Suo padre allora uscì a supplicarlo> (15, 28) di ricordare quel legame di fratellanza che è indistruttibile quanto quello della figliolanza: <perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato> (15, 32). Non basta che il Padre ci ritrovi, è necessario che ci ritroviamo reciprocamente fino ad accettare di ricominciare a camminare fraternamente trasformando ogni giorno la <verga> (Mi 7, 14) in <compassione> (Lc 15, 20). La misericordia, diventa così più che una parola, diventa uno stile in cui la miseria e il cuore non sono che una sola cosa, quasi invocandosi reciprocamente, e riesce a mettere insieme gli <umiliati dalla vita> e la bellezza come amava ripetere Camus facendone i poli di un’esigente e difficile fedeltà alla nostra opera di umanizzazione. In tal modo ci viene ricordato, come si indicano le porte di sicurezza prima di decollare, che per quanto si possa cadere in basso, non si può mai cadere più in basso che nelle braccia di Dio che <perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità> (Sal 102, 3).