Liberazione

XVII settimana T.O. –

Il lungo e dettagliato libro del Levitico viene, per così dire, liquidato nella lettura ciclica della Liturgia in due giorni. Eppure, la parola di questo libro – il primo ad essere imparato a memoria dai piccoli ebrei come una volta i nostri piccoli imparavano a memoria il Catechismo di Pio X – fa suonare il <corno> (Lv 25, 9) di una parola che ci viene consegnata come il senso profondo di tutto il cammino del popolo di Israele dall’Egitto alla Terra Promessa che si invera in ogni autentico cammino di fede fatto personalmente o in comunità. La parola è <liberazione>! Una liberazione che potremmo definire totale, contagiosa, assolutamente inclusiva visto che riguarda tutti nel senso più ampio del termine: <Nel giorno dell’espiazione farete echeggiare il corno per tutta la terra. Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti> (25, 10). Una serie di norme, spesso disattese o piamente truccate, assicurano la possibilità di “rimettere” ogni debito e di ritornare non solo in possesso di ciò che si è stato costretti a vendere o ad alienare. Ben più profondamente la regola del Giubileo rappresenta la possibilità della riconquista di una libertà che permette di ricominciare a sperare radicalmente. Il senso di tutto ciò è racchiuso nella conclusione della prima lettura: <Nessuno di voi opprima il suo prossimo; temi il tuo Dio, poiché io sono il Signore vostro Dio> (25, 17).

A commento di questa rassicurazione di una <liberazione> sempre possibile, la Liturgia ci fa leggere il racconto del martirio del Battista. Questo testimone di Dio e profeta dei tempi nuovi, cade sotto la spada di Erode e del suo entourage profondamente scosso dalla libertà di Giovanni nel denunciare e quindi nello scardinare la logica dell’abuso che tende ad opprimere e ad umiliare gli altri: <Non ti è lecito tenerla con te!> (Mt 14, 4). La morte del Battista sembra il commento esistenziale più autorevole e chiaro alle parabole raccontate dal Signore Gesù. La sua vita, fedele fino alla fine alla verità di una libertà che non è appannaggio solo di alcuni privilegiati, ma dono per tutti, cade come un seme deposto prima che nella terra dalla pietà dei suoi discepoli, su un <vassoio> (14, 11) verosimilmente prezioso dato l’ambiente cortigiano. La libertà ha il suo prezzo e, di conseguenza, l’abuso dei potenti ha le sue prerogative che si ripetono in forme diverse, ma restano le stesse nella sostanza.

Eppure, per quanto sembri che una spada possa recidere ogni resistenza, questo non significa spegnere il campanellino della coscienza come avviene per il tormentato Erode: <Costui è Giovanni il Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi!> (14, 2). Ben più difficile è liberare il cuore che liberarsi di qualcuno capace di sbarrare la strada alle nostre malefatte! Ci sono due modi opposti di vivere la festa: il giubileo che è una festa per tutti e di tutti e il compleanno di Erode che coincide, drammaticamente, con l’esecuzione del Battista.

Casa

XVII settimana T.O. –

Per quanto ci possano non solo interrogare, ma pure profondamente addolorare le parole del Signore Gesù contengono una punta di straordinaria bellezza: <Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua> (Mt 13, 57). Il fatto che il Verbo di Dio abbia fatto della nostra la sua <patria> e si senta a <casa sua> proprio nella nostra casa è motivo di gratitudine, anche se questo non toglie tutto il dolore di dover prendere coscienza di quanto possa essere grave il nostro rifiuto e la nostra chiusura alla sua opera in mezzo a noi e, soprattutto, dentro di noi. Una domanda si fa spontanea:<Come superare lo “scandalo” che il Signore può rappresentare per noi come invito ad un autentico cammino di conversione?>. La risposta possiamo trovarla nella prima lettura tratta dal Levitico. Le indicazioni rituali per la celebrazione delle feste più importanti dell’anno liturgico ebraico (Pasqua, Pentecoste, Kippur e Capanne) sono ben più che delle rubriche rituali: <Queste sono le solennità del Signore, le riunioni sacre che convocherete nei tempi stabiliti> (Lc 23, 4).

Celebrare con attenzione, cura e amore le feste liturgiche è sempre un modo per uscire da noi stessi e lasciarci condurre fuori di noi per contestualizzare il nostro stesso cammino personale in un ambito più ampio e per questo anche più vero. Ogni volta che celebriamo una festa o una semplice liturgia domestica o intima come può essere la recita delle preghiere che segnano il volgere dei giorni nella nostra vita, facciamo esperienza di far parte di un modo più grande di quelli che possono essere i nostri sentimenti, emozioni, desideri e frustrazioni. La liturgia ha un valore terapeutico per tutto ciò che in noi rischia di farci ripiegare su noi stessi chiudendo alla vita possibilità di espansione e di crescita. La gente di Nazaret se da una parte <rimaneva stupita> (Mt 13, 54), dall’altra sembra fare una grande fatica ad entrare in una relazione con Gesù che vada oltre ciò che di lui sanno o presumono di sapere.

Quando ogni anno si porta, invece, il primo <covone> (Lv 13, 10) e lo si consegna al sacerdote perché lo elevi <davanti al Signore> (23, 11) è un modo semplice, ma stupendamente efficace, di trasformare una realtà banale e ripetitiva della vita legata al dramma della sopravvivenza in qualcosa di molto più significativo che pone la vita ad un livello di esperienza e di comprensione più alto e profondo. Sta a noi di rendere più o meno possibile al Signore di compiere nella nostra vita <molti prodigi> (Mt 13, 58). Questo dipende molto dalla scelta consapevole e coraggiosa di andare oltre la nostra <incredulità> che, non raramente, rischia di essere molto meno una scelta consapevole e per questo sofferta e molto più l’espressione di una pigrizia dell’anima accomodata su se stessa e già in procinto, per questo, di avvizzire e morire. Perché il Signore si senta a <casa sua> e nella sua <patria> è necessario che noi non ci rinchiudiamo in casa sbarrando ogni porta e finestra da cui può entrare nella nostra vita aria fresca e luce corroborante.

Tesoro

XVII settimana T.O. –

La conclusione delle parabole richiama un’immagina già usata dal Signore Gesù e che gli sembra cara: il <tesoro>! Se il <tesoro nascosto> (Mt 13, 44) è una perla delle parabole evangeliche, siamo invitati a scandagliare come bambini che “giocano ai pirati” il contenuto di questo tesoro dimostrandoci così aperti a crescere nella sapienza: <Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche> (13, 52). Nella consequenzialità delle parabole potremmo dire che il primo passo è quello di investire tutto per poter diventare legittimamente proprietari del tesoro. Solo dopo questa necessaria e ineludibile operazione si può cominciare a frugare per comprendere cosa il tesoro contenga e come farlo fruttare al massimo e al meglio senza dover fare nessuno sotterfugio e potendo operare in piena luce.

La prima lettura ci mostra Mosè alle prese con la costruzione della <Dimora> e quasi intento a ricreare il proprio modo di relazione a Dio a partire dalla nuova situazione che si è creata nel deserto. Tutto ciò se dà all’Altissimo un posto chiaro e centrale nella vita del popolo, altresì richiede un rispetto della trascendenza sempre più attento per salvaguardare le condizioni necessarie per una relazione autentica: <Mosè non poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora> (Es 40, 35). Questa presenza dell’Altissimo che ricolma la Dimora preparata per la sua presenza diventa il <tesoro> cui attingere ogni giorno e ogni <notte> (40, 38) per continuare, felicemente e saggiamente, il viaggio della vita facendo sì che ogni esodo conosca la sua meta.

Non è un caso che l’evangelista annoti con una certa solennità e rapidità: <Terminate queste parabole, Gesù partì di là> (Mt 13, 53). Ogni parola che riceviamo e ogni contatto che godiamo nella preghiera è un invito a riprendere a camminare con decisione e generosità… senza inutili lentezze. La parabola della rete se ci dice con chiarezza che i pescatori ripongono <i pesci buoni nei canestri> (13, 48) non ci dice invece dove <buttano> i <cattivi>. Verosimilmente li rimettono in mare… nella speranza che diventino migliori o comunque senza ucciderli. L’operazione degli angeli sarà quella di separare <i cattivi dai buoni> ma, forse, nel desiderio e nella speranza che i cattivi possano diventare buoni. In ogni modo siamo chiamati ad imparare l’arte serena dei pescatori che è molto diversa da quella dei cacciatori e dei macellai. Tutto questo esige di imparare molto da Mosè e dalla sua calma meticolosa nel fare ogni cosa così come gli è stato mostrato sul monte senza peraltro lasciarsi prendere né dall’ansia né tantomeno da un pericoloso protagonismo. Inoltre, abbiamo molto da imparare da quello <scriba> senza nome che scopriamo essere <divenuto discepolo del regno dei cieli> e da quel <padrone di casa> capace di fare ordine e distinguere tra le <cose nuove> e le <cose antiche> proprio come gli <angeli> evocati dalla parabola. Insomma, abbiamo molto da imparare.

Raggiante

XVII settimana T.O. –

La nota di commento con cui l’Esodo accompagna la discesa dal monte di Mosè può essere un’ulteriore pennellata per comprendere la parabola che il Signore Gesù ci racconta brevemente eppure in modo così suggestivo: <le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte – non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante…> (Es 34, 29). Così possiamo immaginare meglio il volto di quell’uomo che mentre lavora nel campo trova <un tesoro nascosto> (Mt 13, 44), come pure il volto di quel mercante che si trova dinanzi ad una <perla di grande valore> (13, 46). Forse in modo istintuale ci viene da pensare a chissà quale grande tesoro e a quale costosa perla, mentre forse la grandezza di queste scoperte è più legata al valore che hanno per quanti le trovano che non per il loro valore di scambio. In ogni modo non può che essere raggiante il volto di chi sente il cuore – in modo imprevisto – così <pieno di gioia> (13, 44).

Pensare a Mosè che scende dal monte Sinai dopo quaranta giorni e quaranta notti di intimità con il Signore nel digiuno, nella preghiera, nella commovente intesa con il suo Signore da cui fluiscono come dono per tutti <le due tavole della testimonianza> che regolano e orientano la vita come un’avventura di relazione a due dimensioni: il rapporto con Dio e quello con i propri simili. Per tre volte nella prima lettura ritorna l’aggettivo <raggiante> (Es 34, 29. 30.35). Il motivo è chiaro: <poiché aveva conversato con il Signore>. Attraverso questo riferimento che troviamo nell’Esodo possiamo capire meglio a che cosa alluda il Signore Gesù nelle due brevi parabole. Il tesoro e la perla sono due modi diversi per indicare la stessa cosa: la relazione con Dio su cui si fonda la nostra relazione con i fratelli. Il tesoro e la perla esigono la capacità e la volontà di concentrare interamente tutte le proprie forze, le proprie risorse, i propri desideri e non certo con il volto triste e afflitto, bensì con un entusiasmo grande e una gioia raggiante.

Possiamo oggi commisurare la nostra vita e le nostre attitudini con quelle di Mosè che scende dal monte e con quelle di questi due uomini di cui ci parla il Signore Gesù e chiederci se abbiamo trovato realmente il tesoro e la perla. Essi sono il segreto della nostra gioia: stringere tra le mani i segni di una relazione vissuta nella gioia indicibile e inenarrabile di un’intimità raggiante che si fa testimonianza e condivisione, non di una Legge ricevuta come imposizione di un Dio terribile e distante, ma come traccia di un amore provato che si fa indicazione di strada. Questo non solo per se stessi, ma quale dono da fare agli altri come quando, tornando da una faticosa e appassionante ascensione, si porta in regalo a valle il sorriso di qualcosa di bello e il racconto dai fiochi contorni di un’esperienza che fa palpitare. Eppure, non si può dimenticare che per essere raggianti bisogna accettare di esporsi nel duplice senso di una pellicola fotografica o di un viso che non si sottrae al sole. C’è sempre un rischio da correre perché un vero contatto con il divino non può lasciare la vita uguale. Per questo Mosè fa a valle ciò che più ragionevolmente avrebbe dovuto fare sul monte: <si pose un velo sul viso> (Es 34, 33). 

Legami

Santa Marta, Maria e Lazzaro –

Il Vangelo si apre con una nota: <molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello> (Gv 11, 19). Il contesto è la morte di Lazzaro e, davanti alla tomba dell’amico del Signore, si consuma il dramma del lutto che conferisce profondità al legame che unisce Gesù ai suoi amici. La presenza dei <molti Giudei> sembra non riuscire a consolare il cuore di Marta e di Maria quanto invece riesce a fare la presenza del Signore. Infatti, il testo continua dicendo: <Marta, dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa> (11, 20). Bisognerebbe aggiungere che, intanto, Lazzaro giaceva nella tomba silente e completamente abbandonato. La memoria di santa Marta diventa così l’occasione per fare il punto sui legami che danno consolazione e sono in grado persino di andare oltre la morte. La prima lettura sembra svelarci, già nel primo versetto, quello che potremmo definire il segreto stesso della vita: <amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio> (1Gv 4, 7).

Come definire la vita che si svolge a Betania? Una famiglia? Una sorta di piccola comunità? Un caso o una scelta? Un modello o un incidente? Ci si potrebbe porre molte domande su Marta, Maria e Lazzaro i quali vivono un legame di fraternità che sembra essere superato dal legame di amicizia che ciascuno, in modo unico e diverso, vive con il Signore Gesù. La realtà umana di Betania può diventare un modello liberante per comprendere che ciò che fa la differenza nella vita non è la modalità dei legami che ci fanno vivere, ma la loro essenza: <E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi> (4, 16). Credere all’<amore che Dio ha in noi> diventa così la fonte e il modello del modo di amarci reciprocamente in una discrezione e un rispetto che devono essere assoluti. Sembra che l’unica cosa che il Signore richieda è la capacità di non ridurre l’altro a se stessi, ma di creare continuamente e sempre più ampiamente le condizioni perché l’altro sia se stesso fino in fondo: <Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno> (Lc 10, 41).

Sembra ci sia una cosa inaccettabile per il Signore ed è il rimprovero amaro per la differenza dell’altro che, in realtà, diventa sottile rimprovero verso il Creatore delle differenze che tutto ha amabilmente creato nella differenza. Marta diventa così il simbolo di questa tentazione ricorrente di livellamento delle relazioni, delle emozioni, delle reazioni la quale, in realtà, è una resistenza alla logica della creazione per separazione e per differenza. Marta si sente autorizzata a rimproverare. Lo fa in casa: <Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti> (10, 40). Così pure e ancora più duramente: <Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!> (Gv 11, 21). È necessario passare dall’essere amici del Signore per quello che il Signore può fare per noi ad essere suoi amici per ciò che Egli è per noi. Persino bisogna passare dall’essere amici del Signore per quello che noi pensiamo di fare per lui, ad esserlo semplicemente per quello che noi siamo per lui. L’apostolo ce lo ricorda in modo lapidario: <Dio è amore>!

Scambiare

XVII Settimana T.O. –

La memoria del popolo così viene rammentata drammaticamente dal salmo: <Si fabbricarono un vitello sull’Oreb, si prostrarono ad una statua di metallo; scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia fieno> (Sal 105, 19-20). Ciò che vive il popolo il quale fatica a conquistare personalmente il dono della libertà che gli è stato gratuitamente regalato, lo viviamo anche noi sempre inclini a scambiare la logica del <seme> e quella del <lievito> (Mt 13, 33) con qualcosa di molto più possente e rassicurante come può essere un <vitello> (Es 32, 19) che rappresenti <un dio che cammini alla nostra testa. Perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto> (32, 23). Ciò che il popolo non sopporta è di non vedere e quindi di non poter controllare il mistero dell’accompagnamento di Dio nel suo cammino. A questo si contrappone la parola del Signore Gesù che – quale nuovo Mosè – paragona <il regno dei cieli> ad <un granello di senape> (Mt 13, 31) le cui caratteristiche sono proprio il contrario dei quelle di un <vitello>. Infatti, <è il più piccolo di tutti i semi> (13, 32). Si tratta di accettare di vivere nella logica del mistero e non in quella della dell’evidenza. In realtà, il mistero regala e rafforza il dramma della libertà mentre l’evidenza – dando spazio all’idolatria – non può che renderci sempre più schiavi.

Come spiega Divo Barsotti: <E’ certo che il mistero è una verità nascosta, un segreto nascosto in Dio e rivelato ai santi, ma è principalmente il compimento, la realizzazione segreta di un piano di Dio. Il mistero prima di essere una verità astratta, è quindi una realtà concreta>[1]. Proprio per questo non può imporsi da se stesso, ma ha bisogno di essere accolto come dono e riconosciuto come compito affidato alle nostre mani e alla nostra intelligenza. Quando non abbiamo la pazienza di attendere il tempo necessario al lievito perché tutta la pasta <si fermenti> (Mt 13, 33) ecco che qualcosa si spezza nella nostra vita: <Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò via le tavole e le spezzò ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti> (Es 32, 19-20). La stessa cura con cui viene descritta l’<opera di Dio> (32, 16) viene accuratamente descritta la conseguenza della nostra opera che si oppone, per mancanza di pazienza e di sapienza, all’opera di Dio nella nostra vita. Eppure, non tutto è perduto, perché Mosè accetta di salire di nuovo verso il Signore per chiedere <il perdono> (Es 32, 30). A noi di accogliere e di lasciar radicare nella nostra vita il seme del regno dei cieli senza opporre resistenza alla sua lenta ma inesorabile e splendida crescita dentro di noi. Forse all’inizio è veramente <il più piccolo di tutti i semi> (Mt 13, 32) ma ciò non toglie che proprio la piccolezza possa racchiudere una forza che non viene da noi ma è <opera di Dio> (Es 32, 16). Forse è proprio questo il cammino di conversione che ci viene richiesto: la conversione alla piccolezza di Dio che si scontra con l’<idea preconcetta> di una grandezza che è solo la proiezione di un nostro bisogno e della nostra paura di essere piccoli.


1. D. BARSOTTI, Vie mystique et mistère lituirgique, Cerf, Paris 1954, p. 8.

Luogo

XVII Domenica T.O.

Lasciamoci toccare profondamente dall’immagine che apre il vangelo di oggi e, come quel discepolo senza nome che porta il nome di noi tutti, sostiamo in contemplazione: <Gesù si trovava in un luogo a pregare…> (Lc 11, 1). Ancora oggi il Signore Gesù si trova in ogni luogo della nostra vita e lo abita con la sua preghiera. Essa è il segno della sua attenzione verso ciascuna delle nostre esistenze. Quando pensiamo alla preghiera facilmente immaginiamo subito una interminabile lista di richieste, il vangelo invece ci insegna che la preghiera è prima di tutto uno sguardo: uno sguardo su Gesù che ci aiuta ad assumere uno sguardo sul Padre che ci fa, a nostra volta, capaci di uno sguardo non più sui nostri bisogni e le nostre necessità, ma su quelli di coloro che – la condivisa figliolanza – ci affida come fratelli. La risposta di Gesù è semplice e immediata: <Quando pregate dite <Padre…> (11, 2). L’antica regola per i cristiani prevede e prescrive che si reciti la preghiera del Signore tre volte al giorno. Per gli antichi sembra quasi che basti questa triplice ripetizione quotidiana come preghiera del buon cristiano. La nostra preghiera cristiana non si differenzia dalle altre per le parole che contiene, ma per la conversione profonda e continua che presuppone e continuamente accompagna.

Ci viene incontro la figura di Abramo il quale, venuto a sapere che il Signore sta andando a distruggere le città di Sodoma e Gomorra, intercede audacemente per la loro salvezza. Abramo ha appena accolto la visita di tre misteriosi viandanti all’ingresso della sua tenda ove vive nella semplicità e nell’apertura ad ogni passaggio e ad ogni visita possibile. La vita sotto le tende è una vita dura e – al contempo – libera. Infatti, non mette in conto di poter difendere molto, ciò che può fare è solo di esporsi, massimamente, all’incontro. Sodoma e Gomorra sono città fatte di pietra e ormai cinte di mura, diremmo oggi che sono città blindate dove lo straniero e il diverso non sono accolti e, se vi   accolti, rischiano di essere abusati. Il Signore Dio va a riportare le città al deserto per salvare gli uomini dalle loro chiusure.

Davanti a quello che sta per succedere, Abramo non pensa a se stesso, né si premura di essere rassicurato dal fatto di poter scampare a quello che sta per accadere, ma si lancia nell’intercessione. Pertanto, a un certo punto si arrende, non riesce ad andare oltre i <dieci uomini>… e tutti si tace! L’apostolo Paolo ci svela come, nel mistero pasquale del Signore Gesù, l’intercessione di Abramo ha portato il suo frutto più maturo perché il Signore ha condotto all’estrema conseguenza la sua intercessione: lui, il Signore Gesù, ha rischiato in prima persona ed ha pagato il prezzo della preghiera con l’offerta della sua stessa vita. Nel vangelo le parole sulla preghiera si fanno parabola e il modo con cui ci si rivolge a Dio chiamandolo <Padre>, diventa, subito dopo, un monito per noi: <Quale padre…?> (Lc 11, 11). Ogni volta che preghiamo il Padre siamo chiamati non ad aspettarci da Lui qualcosa, ma a diventare come Lui capaci di dare tutto. Siamo noi ad essere padre, madre, fratello e amico per i nostri fratelli e sorelle in umanità. Allora la preghiera, lungi dall’essere un modo gentile per tirarsi fuori dalla mischia, è, in realtà, una bomba che può cambiare radicalmente la storia, ma non senza aver prima cambiato profondamente il nostro cuore. Pertanto, diventa chiara la difficile conclusione: <… lo Spirito Santo…>! È Lui che ci aiuta a discernere e ad incarnare la nostra conformazione a Dio che è Padre secondo il cuore di Cristo Signore.

Lieu

XVII Dimanche T.O. –

Laissons-nous toucher profondément par l’image qui ouvre l’évangile de ce jour et, comme ce disciple sans nom qui porte le nom de nous tous, arrêtons-nous dans la contemplation : «  Jésus se trouvait dans un lieu pour prier… » ( Lc 11,1 ). Aujourd’hui encore, le Seigneur Jésus se trouve dans chaque endroit de notre vie et l’habite par sa prière. Ceci est le signe de son attention envers chacune de nos existences. Lorsque nous pensons à la prière, nous imaginons tout de suite facilement une interminable liste de demandes, l’évangile, au contraire, nous enseigne que la prière est avant tout un regard : un regard sur Jésus qui nous aide à assumer un regard sur le Père qui nous rend capables, à notre tour, d’un regard non plus sur nos besoins et nos nécessités, mais sur ceux dont – la filiation partagée – nous sont confiés comme frères. La réponse de Jésus est simple et immédiate : «  Quand vous priez, dites ‘Père ‘… » ( 11, 2 ). L’ancienne règle des chrétiens prévoyait et prescrivait la récitation de la prière du Seigneur, trois fois par jour. Pour les anciens, il semblait que cette triple répétition quotidienne suffisait comme prière du bon chrétien. Notre prière chrétienne ne se différencie pas des autres par les paroles qu’elle contient, mais par la conversation profonde et continue qu’elle présuppose et accompagne continuellement.

L’image d’Abraham nous est proposée, lui qui, apprenant que le Seigneur projette de détruire les villes de Sodome et Gomorrhe, intercède audacieusement  pour les sauver. Abraham vient à peine d’accueillir la visite des trois mystérieux voyageurs à l’entrée de sa tente où il vit dans la simplicité et l’ouverture à chaque passage et à chaque visite possible. La vie sous les tentes est une vie dure et – en même temps – libre. En fait, il se rend compte de ne pas pouvoir défendre grand-chose, tout ce qu’il peut faire c’est de s’opposer au maximum à l’affrontement. Sodome et Gomorrhe sont des villes construites en pierre et désormais villes emmurées, l’on dirait aujourd’hui des villes blindées où l’étranger et celui qui est différent ne sont pas accueillis et, s’ils étaient accueillis, ils risqueraient d’être abusés. Le Seigneur Dieu va déplacer les villes au désert, pour sauver les hommes de leur fermeture.

Face à ce qui se prépare, Abraham ne pense pas à lui et ne se préoccupe pas d’être rassuré par le fait de pouvoir échapper à ce qui risque d’arriver, mais il se lance dans l’intercession. Pourtant, à un certain point, il se rend et ne réussit pas à aller outre des «  dix hommes »…et tous se taisent ! L’apôtre Paul nous dévoile comment, dans le mystère pascal du Seigneur Jésus, l’intercession d’Abraham a porté son fruit le plus mûr, car le Seigneur a conduit à son extrême conséquence son intercession : lui, le Seigneur Jésus, a risqué personnellement et à payé le prix de la prière par l’offrande de sa vie même. Dans l’évangile, les paroles sur la prière deviennent paraboles et la façon dont elles s’adressent à Dieu en l’appelant «  Père », deviennent tout de suite un avertissement pour nous : « Quel père… ? » ( Lc 11, 11 ). Chaque fois que nous prions le Père, nous sommes appelés, non pas à attendre quelque chose de Lui, mais à devenir comme Lui, capables de donner tout. Nous sommes nous-mêmes père, mère, frère et ami pour nos frères et sœurs en humanité. Alors, la prière, loin d’être une gentille façon de nous tirer hors de la mêlée, est, en réalité, une bombe qui peut changer radicalement l’Histoire, mais, pas sans avoir d’abord changer notre coeur. Dès lors, la difficile conclusion devient claire : « …l’Esprit Saint… » ! C’est Lui qui nous aide à discerner et à incarner notre conformité à Dieu qui est Père selon le coeur du Christ Seigneur.

Sereno realismo

XVI Settimana T.O. –

Non è difficile immaginare l’imbarazzo di un padrone che si sente quasi accusato dai propri contadini di avere seminato o almeno lasciato che qualcuno seminasse della <zizzania> (Mt 13, 25) nel campo. Eppure, la reazione del padrone è di raro equilibrio, soprattutto quando avrebbe avuto motivi per dubitare, fino a poter punire i suoi contadini. La reazione è di grande equilibrio senza cedere in nulla a nessuna forma di allarmismo: <Un nemico ha fatto questo> (13, 28). Nondimeno noi sappiamo dal racconto che quel nemico ha potuto seminare la zizzania <mentre tutti dormivano> (13, 25). Ci si potrebbe, a questo punto, porre la domanda circa la negligenza dei contadini: forse avrebbero dovuto fare dei turni di veglia per impedire che qualcuno si intrufolasse nottetempo nel campo e vi seminasse un seme diverso da quello volutamente seminato?

Stranamente nella reazione del padrone non troviamo alcun indizio che faccia pensare a questa possibilità. Sembra invece che la cosa sia già messa in conto e che non sorprenda più di tanto che di notte, quando tutti dormono possano avvenire delle cose spiacevoli che, però, rimangono solubili: <Lasciare che l’una e l’altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura…> (13, 30). Se sotto le vesti e i gesti di questo padrone sereno possiamo riconoscere il volto del Padre, allora veramente possiamo dire che: <Dio è onnipotente si nasconde perché tutta la sua gioia consiste nel fatto di essere amato liberamente dalle sue creature: vuole essere preferito>1. Per questo persino nel sublime momento del dono della Torah per ben due volte il popolo viene interrogato, attraverso il ministero di autorità liberante di Mosè, sulla sua libertà di accogliere o meno il cammino segnato dalle parole che sanciscono l’Alleanza: <Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme> (Es 24, 3).

Nonostante la risposta sia stata generosamente positiva, dopo aver esposto il contenuto dell’Alleanza, il popolo viene nuovamente interrogato sulla sua volontà e la sua libertà: <Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo> (24, 7). Alla luce di questi testi forse riusciamo a dare un nome più preciso a quella misteriosa <zizzania> che rischia di far perdere il raccolto. Potremmo dire che nel campo del nostro cuore viene seminata la zizzania quando acconsentiamo alla paura e decliniamo alla libertà. Se, infatti, siamo e rimaniamo liberi, allora possiamo sopportare anche di crescere accanto a ciò che non solo è diverso da noi, ma perfino ci è nemico, senza sentirci affatto minacciati nella nostra possibilità di diventare quello che siamo e che nessuna prossimità, salvo che noi vi acconsentiamo, può realmente mutare e tantomeno corrompere. In realtà, non c’è bisogno di cercare né di trovare nessun colpevole, ma continuare a lavorare alla nostra crescita, imitando la pazienza che l’Altissimo ha nei nostri confronti e sapendola offrire anche agli altri con realismo, ma senza allarmismo.


1. C. GEFFRÉ, Une espace pour Dieu, Cerf, Paris 1970, p. 33.

Al largo

San Giacomo apostolo –

In un inno della Liturgia monastica per gli Apostoli si canta così: <Lo Spirito soffia su di voi, uomini che prendono il largo, gettate in noi l’amo del desiderio di Dio e rilanciate il nostro cammino>. Parole adattissime all’’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, che il vangelo di questa festa ci presenta in una luce almeno ambigua per la richiesta maldestra di sua <madre> (Mt 20, 20) che, nella tradizione della Chiesa, è legato al mare: dall’inizio a oltre la fine. È’ infatti in riva al <mare della Galilea> (Mc 1, 16) che la sua storia di intimità con il Maestro comincia, ed è al cospetto dell’Oceano che la tradizione vuole sia conservata la sua tomba. Sappiamo dagli Atti che il desiderio di sua madre venne esaudito, poiché verso l’anno 44 Erode Agrippa <fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni> (At 12, 2). La liturgia fa memoria di questo privilegio quando prega dicendo: <tu hai voluto che san Giacomo, primo fra gli apostoli, sacrificasse la vita per il vangelo> (Colletta). Ma come dimenticare la domanda postagli direttamente dal Signore Gesù al cospetto della madre intrigante: <Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?>. La risposta fu immediata ed unanime: <Lo possiamo> (Mt 20, 22). 

E così questi due apostoli-fratelli sono posti – dalla tradizione – agli estremi del tempo, nel dono della vita per Cristo e il suo vangelo: Giacomo per primo e Giovanni per ultimo, quasi a sigillo della partecipazione pasquale dell’intero gruppo degli apostoli: <a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale> (2Cor 4, 11). L’apostolo Giacomo – che molto probabilmente non è mai uscito dai confini della sua terra – ha veramente gettato la rete della sua vita al largo. Quelle reti bucate che lui e il fratello <riassettavano> (Mt 4, 21) sulla  barca, con il loro padre, sono diventate un cuore che si è lasciato sprofondare nel mare del mistero di Cristo, fino a portalo pienamente come <un tesoro in vasi di creta> (2Cor 4, 7). Le conchiglie che i pellegrini portano con sé come ricordo del loro pellegrinaggio a Campostela sono la memoria di questo desiderio di immergersi nell’oceano del mistero pasquale di Cristo, portandosi sempre di più <al largo> (Lc 5, 4) del suo amore. Ed è così che si compie la parola del salmo: <Nell’andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni> (Sal 125, 6). 

Chiamato assieme a suo fratello, Giacomo non ha smesso di seguire il Signore insieme ad altri e, di questo pellegrinaggio infinito, la sua tomba si fa punto di riferimento. Nella vita di fede non si possono cercare privilegi, neppure quelli di una maggiore vicinanza al Signore e Maestro della nostra vita: questo tradirebbe infatti la stessa logica del discepolato che, per sua natura, è vissuto in comunione. Nessuno è soltanto uditore e nessuno è solo protagonista, ma si cammina insieme senza troppi programmi e in docilità crescente alla logica della strada. La parola di ciascuno, sottomessa all’ascesi del silenzio, entra in armonia e in contrappunto con la parola dell’altro. Come spiega stupendamente un autore contemporaneo: nessuno può pensare di credere veramente alla verità se pensa di esserne l’unico discepolo e garante spinoso e solitario. Così afferma: <La verità vive nell’amore ma si sottrae alla sua gelosia>. Chi infatti – pur con le migliori intenzioni – esclude l’altro, non fa che separarsi da una parte di se stesso poiché, come continua la citazione di cui sopra: <l’assoluto che si riceve è quello che si condivide>1.


1. P.- A. LESORT, Une brassée de confessions de foi, Seuil, p. 191.