Je vous en prie…

XXII Dimanche T.O. –

L’attitude que le Seigneur Jésus nous invite à assumer dans toutes les situations de notre vie est celle d’une éducation pleine d’attention sincère envers l’autre. Cette éducation simple et nécessaire s’exprime en une parole comme celle que l’on utilise lorsque l’on invite quelqu’un à entrer dans un environnement ou à prendre un repas : «  Je vous en prie… ! ». Dans ces paroles pourrait se cacher un simple et peut-être même une fausse gentillesse, ou le désir sincère de donner la priorité à l’autre pour pouvoir lui manifester toute la joie d’être avec lui et de jouir de sa compagnie. Que nous soyons préoccupés par la place que nous occupons ou que nous soyons heureux de nous retrouver autour de la même table, le résultat est le même : au-delà de toutes les apparences, nous sommes tous égaux devant le repas comme devant le mystère de la vie et de la mort. C’est pour le Siracide nous exhorte vivement : «  Plus tu es grand, plus tu dois être humble et tu trouveras grâce devant le Seigneur » ( Sir 3, 17 ).

La liturgie de ce jour, malgré les apparences, ne parle pas tellement de nous, mais beaucoup du Seigneur Jésus ! Le verset qui introduit la péricope évangélique est très importante pour comprendre le reste. Nous sommes le jour du «  Shabbat» ( Lc 14, 1 ) et le Seigneur Jésus est invité au repas dans la maison d’un pharisien et tout le monde l’observe.  La coutume veut que chacun occupe sa place en considération de son rang et de celui de l’autre. Voilà pourquoi tous observent – comme déjà dans d’autres occasions et en particulier un jour de shabbat – quel sera la place qu’occupera le Seigneur…afin de conclure quelle place il veut occuper pour en déduire ainsi quelle conscience il a de sa propre identité et de sa propre mission. Pour l’assistance, il est certes assez difficile de comprendre que la claire conscience d’être «  médiateur de l’alliance nouvelle » ( Hé 12, 24 ) n’a rien à voir avec la recherche fébrile- et même si pathétique- d’une place d’honneur qui humilie les autres.

Au contraire des attentes et des coutumes, le Seigneur Jésus semble rester debout et manifeste clairement la volonté de n’occuper aucune place ! Une fois encore, à travers une parabole, le Maître dévoile et démasque ce que les convives attendaient et craignaient : choisir une place trop honorifique pour devoir, honteusement la céder à un autre, ou alors, tout faire pour être préféré et honoré devant tout le monde…ce qui n’est, absolument jamais le cas. De plus, le Seigneur Jésus s’adresse directement à celui qui l’a invité et, indirectement, le remercie, d’avoir eu l’honneur d’être son invité en le considérant l’égal des «  estropiés, des aveugles, des boiteux… » ( Lc 14, 13 ) qui ne peuvent  rendre la pareille. Voici la place de Jésus : parmi ceux qui ne peuvent répondre à l’invitation ! L’unique fois que le Seigneur invite quelqu’un à un repas, est pour lui dire que sa vie est trahie et offerte comme une moquerie. Oui, aujourd’hui, Jésus ne parle pas de nous, il parle de lui-même et dit à chaque homme et femme : «  je vous en prie, après vous… » 

Da Dio

XXI settimana T.O. –

Chi di noi potrebbe dire di realizzare esistenzialmente nella propria vita quanto viene ricordato dall’apostolo Paolo come se fosse un’evidenza: <riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri> (1Ts 4, 9). Non solo, l’apostolo ci tiene a sottolineare e a dichiarare che l’amore imparato alla scuola di Dio e non semplicemente come espressione dei nostri sentimenti migliori non può che essere rivolto <verso tutti> (4, 10). La lettura liturgica del vangelo secondo Matteo si conclude con una parola assai dura: <là sarà pianto e stridore di denti> (Mt 25, 30). Più che una minaccia che metterebbe in crisi tutto quello che lungo la lettura del vangelo secondo Matteo ci è stato rivelato del cuore <mite e umile> (Mt 11, 28) di Dio stesso, si tratta di una messa in guardia da tutto ciò che in noi può bloccare la crescita dell’amore tanto da trasformare l’investimento che Dio ha fatto su di noi in un misero fallimento.

Se Paolo ci ricorda che abbiamo <imparato da Dio> ciò a cui si riferisce è esattamente questa capacità continua di investire sull’altro onorando l’investimento che gli altri fanno su di noi. Il primo ad investire è, in realtà, Dio stesso. Se l’ultima parola con cui sembra essere vergata l’intera lettura del vangelo di Matteo così come ci viene offerto dalla Liturgia ci può inquietare è solo nella misura in cui dimenticassimo il gesto non solo magnanimo ma rischioso di quell’uomo che, al momento di mettersi in <viaggio> (Mt 25, 14) non va a trovare i <banchieri> (25, 27) ma <consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, e un altro uno, secondo la capacità di ciascuno, poi partì> (25, 15). Questa serena partenza che si basa su una fiducia di fondo nei confronti dei suoi servi è l’unico ambito che permetta una vera crescita di cui l’apostolo Paolo si fa esplicitazione con la sua parola di esortazione: <a progredire ancora di più e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostri mani> (1Ts 4, 10-11).

Pertanto, tutto ciò diventa impossibile se ci lasciamo prendere dalla <paura> che ci induce a <nascondere il tuo talento> (Mt 25, 25). Se c’è una cosa che non possiamo imparare da Dio è la paura che, invece, ci è stata inoculata come un veleno dal nemico delle nostre anime il quale ci ha convinto non a progredire sempre di più a partire dai doni che abbiamo ricevuto, ma a illuderci così tanto su noi stesso fino a cadere nella trappola dell’assoluta sfiducia in noi stessi tanto da provare <paura> (Gen 3, 10) e nasconderci. Quando cediamo a questa logica di sfiducia contagiosa al Signore non resta che confermarci nel nostro dubbio tanto che l’unica cosa che gli resta da fare per darci dignità è quella di far finta di credere alle nostre paure nella speranza di liberarcene prima o poi: <… tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso> (25, 26). Eppure, questo non è vero! Ma chi può convincerci dell’amore? Chi può liberarci dalla paura se noi non acconsentiamo alla fiducia?

Stringi!

Martirio di Giovanni Battista –

L’ordine che il Signore Dio dà perentoriamente al profeta Geremia diventa, per la Liturgia, la chiave con cui entrare nel mistero della profezia di Giovanni Battista che si compie con l’offerta della sua vita segnata da una sorta di banalità necessaria: <Tu, stringi la veste ai fianchi, alzati e dì loro tutto ciò che ti ordinerò> (Gr 1, 17). Questo gesto rimanda alla necessità di potersi muovere con libertà e agilità al fine di poter servire con più efficacia. A quest’attitudine si riferirà lo stesso Signore Gesù quando, in una parabola, dirà di se stesso: <Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli> (Lc 12, 37). Facendo memoria del martirio del Battista possiamo veramente dire che il Signore non solo lo ha trovato ancora sveglio, ma lo ha trovato assolutamente disponibile a pagare, fino all’ultimo spicciolo, il prezzo della sua testimonianza e della sua profezia.

Lo stesso Signore Gesù, ben prima che il corpo esanime di Giovanni venisse raccolto per essere deposto in un sepolcro, aveva ribadito il legame di continuità e di rottura con la predicazione del Precursore interrogando a sua volta le folle perché non ne dimenticassero le esortazioni: <Allora che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re> (Lc 7, 25). Il Signore Gesù riconosce in Giovanni <più che un profeta> (7, 26). La sua profezia è un continuo rimando alla necessità di stringere tutto ciò che nelle scelte di vita rimanda ad una larghezza inutile e dannosa. In realtà, ciò che il Battista richiede ad Erode, è di saper ritrovare una misura nella propria vita, tanto da ricordargli: <Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello> (Mc 6, 18).

A nessuno di noi è lecito immaginare e pensare la vita come ad una realtà che continuamente si allarga e in certo modo si arricchisce persino di ciò che non le appartiene. La parola dei profeti e la stessa parola del Signore Gesù ci richiedono una correzione di sguardo sul modo di concepire la vita e sul rapporto che abbiamo – prima di tutto – con il mondo e le persone che ci circondano: non possiamo pretendere di prendere sempre di più e di avere diritto a qualsiasi cosa. È necessario saper stringere la cinghia delle nostre velleità, per imparare a vivere nel rispetto di noi stessi e degli altri e questo comporta sempre e necessariamente la capacità di saper rispettare i limiti che la vita necessariamente ci impone.

Eppure, Erode <temeva Giovanni, sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri> (6, 20). Comunque, non basta ascoltare se non si è disposti a lasciarsi interpellare fino ad avere la disponibilità a cambiare… fino a superare la complicità che spesso coltiviamo con noi stessi e con il nostro bisogno di gonfiarci e di allargarci. Giovanni è sempre necessario, egli infatti ci ricorda che non ci sarà mai un’autentica esperienza di perdono e di misericordia senza una sana e decisa denuncia del male. Infatti, senza questa determinazione di denuncia si rischia, talora inconsapevolmente, di divenire insensibili e stolti di fronte all’ingiustizia e al peccato. Se ciò avvenisse qualcuno, prima o poi, ne approfitterà dandoci l’impressione di darci più spazio, ma, in realtà, uccidendo il meglio di noi stessi.

Sovrabbondare

XXI settimana T.O. –

Vegliare non è semplicemente il contrario di dormire, ma significa evitare accuratamente di cadere in un torpore che ci fa rischiare di non accorgerci di nulla e di nessuno. Ora, nell’esistenza che noi conduciamo, richiamo spesso di addormentarci e di sognare ad occhi aperti senza però darci tempo e modo di sognare in verità. Per sognare, infatti, secondo il Vangelo è necessaria un di più di attenzione che è sempre la forma di un di più di amore capace di darsi e di coinvolgersi nell’attesa. Chiudere gli occhi sulla realtà che ci circonda e che ci abita equivarrebbe a non regalarci più la possibilità di sognare e di aspettarci qualcosa dalla e nella vita. Il rischio è sempre quello di confondere il dinamismo vitalizzate della fede con l’anestetico della religiosità che autorizza a non sentire e a non affrontare la laboriosità delle relazioni. Questo esige la capacità e la volontà di non distrarsi e di non di-vertirsi non perché si ceda a un atteggiamento mortificante della vita, ma perché non ci si lascia andare alla superficialità: esserci è il primo passo perché la vita ci venga incontro e ci sospinga verso l’avvenire.

Dorme chi vive distratto pensando invece divertirsi avendo il cuore e la mente da un’altra parte rispetto al luogo in cui si trova e in cui si dovrebbe trovare. Il Signore Gesù ci chiede di essere vigilanti e di tenere gli occhi e gli orecchi tesi per scrutare i minimi segni del suo ritorno che si attua attraverso gli eventi e gli avvenimenti quotidiani tra le vicende della storia. Perfino in prossimità della sua passione il Signore Gesù riceve la bevanda che lo avrebbe stordito per vivere all’altezza del suo amore. Non si tratta di anticipare la morte, ma di imparare a vivere di più e meglio. Il Signore non definisce beato il servo che troverà in atto di redigere un memoriale di se stesso, bensì quello che troverà al suo lavoro che è appunto un servizio proteso al bene degli altri: <per dare loro il cibo a tempo debito> (Mt 24, 45). Lungi dal distoglierci dalla vita, l’attesa del ritorno del Signore ci rende sempre più sensibili alle esigenze della vita.

Il vissuto concreto e quotidiano è il già di ciò che ancora non vediamo e attendiamo tanto da mettere in pratica l’esortazione dell’apostolo che fa tutt’uno con la sua speranza per quanti ama e da cui è stato così amato: <Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro amore per voi> (1Ts  3, 12). Una vita profondamente e durevolmente protesa nel desiderio e nella speranza di un compimento che ci supera, non può che essere segnata da una cura e un’attenzione piene di delicatezza e di umile servizio. In caso contrario non potremo che pensare di essere signori di noi stessi e quindi cercheremo in tutti i modi di imporci agli altri dimenticando la nostra parità fraterna e la nostra vocazione a servire. Una simile resa alla dimenticanza e all’orgoglio non può che intristire la vita: <lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti> (Mt 24, 51).

Misura

XXI settimana T.O. –

Il Signore Gesù non ci lascia nell’indecisione e sbarra la strada ad ogni illusione: <Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri> (Mt 23, 31-32). L’unico modo per uscire da questo turbine che rischia di inghiottire il nostro buon desiderio è di aprirsi ad un modo completamente diverso di vivere in relazione a se stessi e agli altri: <come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio> (1Ts 2, 12). La <maniera> degna di Dio che ci fa suoi figli è il non avere misura non solo nel compiere il bene, ma nel compierlo nel modo più generoso e con la dedizione più assoluta: <Vi ricordate, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio> (1Ts 2, 9).

Se si entra in questa logica di scambio di doni, allora non è possibile cadere nella trappola del calcolo che si fa automaticamente ricerca del comodo. Il primo segno di essere scivolati in questa tendenza è l’incapacità a prendersi le proprie responsabilità senza scaricare sugli altri ciò che, in ogni modo, almeno in parte, dipende dalla nostra scelta e dal nostro impegno. L’invettiva del Signore Gesù continua con una certa forza, ma non ha come scopo quello di spaventarci, ma piuttosto quello di svegliarci dal sonno dell’ipocrisia che ci fa scivolare nella morte interiore tanto che, pensando di costruire tombe e mausolei, diventiamo noi stessi dei <sepolcri imbiancati> (Mt 23, 27). La descrizione che ne fa il Signore non manca certo di efficacia: <all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume>!

In realtà, l’immagine non è solo efficace, ma è pure alquanto inquietante tanto da non ammettere nessuna giustificazione a posteriori richiedendo, invece, una presa di posizione che stia alla base di scelte precise che siano dominate dalla piena disponibilità a dare la propria vita piuttosto che limitarsi a sottilizzare sul <sangue> (23, 30) già versato. Le parole del salmo esprimono bene in cosa consista la sfida di una misura così piena di consapevolezza che sia capace di animare scelte chiare, consapevoli, concrete con cui lottare contro il virus dell’ipocrisia: <Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza?> e ancora <nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno> (Sal 138, 11-12).

Le apparenze, infatti, possono anche dare buona coscienza, ma la buona coscienza viene da un cuore sincero e buono. L’apostolo Paolo si è presentato alla comunità di Tessalonica in tutta verità tanto da ricordare che <l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti> (1Ts 2, 13) e se la lasciamo realmente operare, allora sarà capace persino di trasformare il <marciume>. 

Coraggio

XXI settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo sono le più giovani delle Scritture Cristiane e per questo le più ardenti: <Ma, dopo aver sofferto e subito oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunciarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte> (1Ts 2, 2). Quelle cui si riferisce l’apostolo Paolo sono ancora le <lotte> che vengono piuttosto dall’esterno della comunità e non ancora dall’interno delle comunità dei discepoli le cui divisioni e contrapposizioni faranno soffrire così tanto Paolo e i suoi collaboratori. Questa stessa parola <Vangelo> (2, 4) è ancora così giovane da essere assolutamente nuova non solo come contenuto di annuncio ma anche come forma e stile di comunicazione: <non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori> (2, 4). A distanza di due millenni dal risuonare del Vangelo nel mondo, attraverso l’annuncio della Chiesa, dobbiamo riconoscere che le parole del Signor Gesù pronunciate per stigmatizzare il modo di comportarsi dei farisei rischiano di essere purtroppo meritate anche dai nostri comportamenti: <Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumino e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, misericordia e la fedeltà> (Mt 23, 23).

A questo <guai> che già basterebbe a metterci in crisi fino ad indurci a rivedere radicalmente il nostro modo di essere discepoli e di testimoniare insieme come Chiesa il Vangelo di Cristo, se ne aggiunge un altro: <Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza> (23, 25). Possiamo solo immaginarlo ma osiamo farlo come aiuto a ciò che, in ogni modo, è richiesto a noi. Chissà quante volte l’apostolo Paolo deve aver riflettuto sulla sua <condotta di un tempo> (Gal 1, 13) lasciandosi toccare e purificare dal fuoco di quel Vangelo che ha trasformato radicalmente la sua vita. Se qualcuno dei discepoli che conservavano e trasmettevano i detti del Signore gli avrà trasmesso anche quello con cui si conclude la pericope odierna, sicuramente il cuore di Paolo deve esserne stato profondamente toccato nel duplice senso dell’esserne ferito e guarito al contempo: <Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!> (23, 26).

Operazione quella richiesta dal Signore Gesù che possiamo presumere abbia impegnato tutta la vita di Paolo e nella quale siamo chiamati a dare noi stessi il meglio delle nostre energie. Ciò che traspare dalle parole della prima lettura può e deve diventare pure il nostro cammino di conversione profonda: <siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre che ha cura dei propri figli> (1Ts 2, 7). Si compie fino alla sua pienezza in tal modo l’esortazione del Signore: <Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle> (Mt 23, 23). E se non fosse chiaro, è l’esempio dell’apostolo a dirci praticamente che cosa questo significhi: <Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari> (1Ts 2, 8). Invece di filtrare il <moscerino> e ingoiare <il cammello> (Mt 23, 24) come ci accade di fare molto più spesso di quanto desideriamo e immaginiamo, siamo chiamati a prenderci cura dei minimi dettagli dell’amore e della cura con quel coraggio e quella resistenza che dimostrano i cammelli nelle lunghe traversate del deserto per portare il carico dei doni con immutata pazienza. Sì, ci serve il coraggio e l’ostinazione del cammello per non fare del vangelo un semplice annuncio, ma uno stile riconoscibile e desiderabile.

Grazia e pace

XXI settimana T.O. –

L’augurio dell’apostolo <a voi, grazia e pace> (1Ts 1, 1) può essere accolto come fosse il riassunto di ciò di cui abbiamo tutti bisogno e di ciò che il Signore ci dona ogni giorno come viatico per la nostra vita. La grazia e la pace, che ci vengono donate, sono il segno di quanto siamo <amati da Dio> tanto da essere stati <scelti da lui> (1, 4). L’inizio di quello che chiamiamo Nuovo Testamento e di cui la prima lettera ai Tessalonicesi è il testo più antico precedente persino alla redazione dei Vangeli, è circonfuso di un’aura di serenità, di entusiasmo, di gratitudine: <Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presente l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza> (1, 3). A partire da questo testo potremmo dire che il Nuovo Testamento si apre all’insegna di un’ammirazione la quale sembra essere propriamente uno stile con cui si guarda e si valuta il reale a partire da un atteggiamento fondamentalmente positivo e fiducioso.

Le parole dell’apostolo rasentano la lusinga: <La vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne> (1, 8). Al contrario l’atteggiamento dei farisei e dei notabili del tempo di Gesù sembra dominato da una nota di disprezzo verso gli altri che rende il rapporto non segnato da un dinamismo di crescita nella fiducia, ma da un atteggiamento che è al contempo dominato dal disprezzo e dal bisogno di controllo in cui si manifesta una necessità di avere qualcuno che faccia da scena e da pubblico alle proprie esibizioni. Le parole del Signore Gesù sono particolarmente dure non per un disprezzo analogo a quello descritto, ma per l’indignazione che crea il vedere un modo di considerare gli altri con il quale si umilia ogni possibilità di incremento di grazia, di pace, di speranza: <chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare> (Mt 23, 13).

Detto questo il Signore Gesù si lancia in una lunga invettiva che talora raggiunge dei toni particolarmente amari. In realtà la durezza e la chiarezza del modo di argomentare del Signore è un invito a lasciarsi, come i Tessalonicesi, alle spalle i propri <idoli> (1Ts 1, 9), per aprirsi ad un cammino di relazione nella verità della carità. Quello che Paolo evoca con una punta di santo orgoglio <il nostro Vangelo> (1, 5) deve diventare ogni giorno nella concretezza della nostra vita un vangelo vivente.

Chi passa?

XXI Domenica T.O.

Potremmo riformulare la domanda che questo tale – di passaggio – pone al Signore Gesù trasformandola in una domanda scolastica. È come se uno studente chiedesse: <Chi passa questo esame?>. Normalmente una domanda di questo tipo è un tentativo per esorcizzare la paura di non essere in grado di superarlo! Continuando ad immaginare, potremmo ipotizzare come risposta la seguente: <Ma lo superano tutti con quel professore!>. Se la paura, di fronte a questa risposta, di certo diminuirebbe, verrebbe meno anche la stima per se stessi, in quanto si penserebbe di aver superato un esame che passano tutti senza troppa fatica. Non basta passare l’esame! Se l’esame non è una vera prova, sarà poi la vita a bocciare. Se invece l’esame è un’iniziazione, una <porta> per la vita professionale, allora sarà molto diverso tanto da essere fieri non solo di averlo passato, ma soprattutto di averlo patito. Al Signore Gesù non interessa minimamente fare della contabilità escatologica!

Ciò che sta a cuore al nostro Maestro e Signore è di rivelarci come entrare e rimanere nella logica del Regno. Il riferimento alla <porta stretta> (Lc 13, 24) non è per scoraggiare, bensì per rammentare che il Regno, se è un dono di Dio offerto e… offerto a tutti, nondimeno esige che sia conquistato da ognuno, e non a forza di assalti e brecce, ma con la forza del desiderio e della passione, atteggiamenti interiori che esigono anche una buona dose di lavoro e di investimento personale. Insomma, il regno di Dio non è una questione di privilegi né tantomeno è una questione di fortune, ma è – piuttosto – una realtà che ci appartiene così profondamente da possederci altrettanto intimamente. La Lettera agli Ebrei non esita a dissipare ogni possibile equivoco: <Figlio mio non disprezza la correzione del Signore e non ti perdere d’animo> (Eb 12, 5).

Una volta si insisteva molto sui <pochi> (Lc 13, 23) che si sarebbero salvati, oggi invece insistiamo ancora di più sul fatto che tutti siamo salvati. Nell’uno e nell’altro caso l’intento è pedagogico: animare e sostenere il desiderio di entrare e di gioire insieme nella vita del Regno di Dio. Il Regno di Dio è offerto a tutti come casa spaziosa e accogliente tanto che sarebbe veramente un peccato se rimanesse vuota per mancanza di interesse e di desiderio da parte di molti a prendere posto al banchetto del regno… possibilmente di tutti. La prima lettura ci ricorda che il desiderio di ognuno si fa invito per tutti e per ciascuno: <Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari, al mio santo monte di Gerusalemme> (Is 66, 20). La seconda lettura ci rammenta che nulla di prezioso e di valido può essere ottenuto senza esercizio, senza passione e senza correzione. È come se uno pagasse delle lezioni private di latino o di pianoforte o di basket chiedendo all’insegnante o all’allenatore di non correggerlo nei suoi difetti, ma solo di blandirlo… Forse con il Regno di Dio siamo un po’ così ed è per questo che talora ci sentiamo così fuori dai suoi recinti. Il motivo è dato dal fatto che non siamo entrati nella sua logica. Il primo passo allora è quello di snellire la nostra boria di voler essere migliori degli altri. La preghiera comporta quella cardioterapia che dilata in noi la disponibilità a non avere bisogno di escludere nessuno per sentirci un po’ esclusivi.

Qui passe ?

XXI Dimanche T.O. –

Nous pourrions reformuler la question posée au Seigneur Jésus par ce personnage – de passage -, en la transformant en un cas d’école. C’est comme si un étudiant demandait :  « Qui passera cet examen ? ». Normalement, une question de ce genre est une tentative pour exorciser la peur de ne pas être capable de le réussir ! En continuant d’imaginer, nous pourrions émettre une hypothèse par la réponse suivante : « Mais tout le monde le réussit  avec ce professeur ! ». Si face à cette réponse la peur diminuait, l’estime de soi s’amoindrirait car l’on pourrait penser pouvoir réussir un examen que tout le monde passe, sans trop de difficulté. Il ne suffit pas de passer l’examen ! Si l’examen n’est pas une véritable épreuve, la vie risquera ensuite d’échouer. Si, par contre, l’examen est une initiation, une «  porte » pour la vie professionnelle, alors, tout devient très différent, car nous serons fiers, non seulement de l’avoir passé, mais, surtout de l’avoir enduré. Pour le Seigneur Jésus, cela importe peu de faire de la comptabilité eschatologique !

Ce qui tient à coeur de notre Maître et Seigneur est de nous révéler comment entrer et rester dans la logique du Royaume. La référence à la «  porte étroite » ( Lc 13, 24 ) ne cherche pas à nous décourager, mais, au contraire à nous rappeler que le Royaume, s’il est un don offert par Dieu… et offert à tous, exige, non seulement d’être conquis par chacun, et non à force du poignet, mais avec la force du désir et de la passion, attachements intérieurs qui exigent aussi une bonne dose de travail et d’investissement personnel. En somme, le Règne de Dieu n’est pas une question de privilèges, encore moins une question de fortune, mais – plutôt- une réalité  qu’il nous appartient de posséder si profondément  même intimement. La Lettre aux Hébreux n’hésite pas à dissiper chaque équivoque possible « Mon fils, ne méprise pas la correction du Seigneur, et ne te décourage pas quand Il te reprend » ( He 12, 5 ).

Il fut un temps où l’on insistait beaucoup sur le «  petit nombre » ( Lc 13, 23 ) qui serait sauvé, aujourd’hui, par contre, nous insistons encore d’avantage sur le fait que nous sommes tous sauvés. Dans l’un et l’autre cas l’intention est pédagogique : animer et soutenir le désir d’entrer et de jouir ensemble de la vie du Règne de Dieu. Le Règne de Dieu est offert à tous comme une maison spacieuse et accueillante et ce serait vraiment dommage de la laisser vide par manque d’intérêt ou de désir d’un grand nombre refusant de prendre place au banquet du règne…désintérêt peut-être de tous. La première lecture nous rappelle que le désir de chaque personne est une invitation pour tout un chacun : « Et, ils ramèneront tous vos frères du milieu de toutes les nations  sur des chevaux, sur des chars, en litière, sur des mulets et des dromadaires, en offrande au Seigneur, sur ma montagne sainte de Jérusalem » ( Is 66, 20 ). la seconde lecture nous rappelle que rien de précieux et de valable ne peut être obtenu sans exercice, sans passion et sans correction. C’est comme si quelqu’un payait des leçons privées de latin ou de piano ou de basket, en demandant au professeur ou à l’entraîneur de ne pas le corriger dans ses erreurs, mais seulement de le cajoler… Sans doute, nous sommes – nous un peu ainsi  avec le Règne de Dieu et c’est pour cela que nous  nous sentons, alors , hors circuit. Le motif en est que nous ne sommes pas entrés dans sa logique. Le premier pas est alors d’atténuer notre arrogance de vouloir être meilleurs que les autres. La prière comporte cette cardiothérapie qui dilate en nous la disponibilité à ne pas avoir besoin d’exclure quiconque pour nous sentir un peu exclusifs.

Compiere

XX settimana T.O. –

Per il Signore Gesù il compimento non è possibile se non a partire da un adempimento personale che impegni le energie migliori di ciascuno per dare carne e corpo a ciò che si sente, si pensa, si crede. L’esperienza di Rut conferma e anticipa profeticamente lo stile e la predicazione del più illustre tra i suoi discendenti che è il Verbo fatto carne e nato a Betlemme. Il compimento non è semplicemente frutto di decisione e di sforzo, ma è il risultato di una profonda ed efficace sinergia tra il dono ricevuto e la capacità di metterlo a frutto. Il primo passo sembra proprio essere quello di rinunciare ad ogni sistema di privilegio: <Ma voi non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli> (Mt 23, 8). Il compimento fedele della Legge esige l’appassionata capacità di ascoltarsi, di accogliersi, di incontrarsi, di accompagnarsi. Si tratta di rinunciare a pensare se stessi e a offrire se stessi come modello, per amare di più di stare accanto accettando di avere pure bisogno che qualcuno ci stia accanto. Ogni volta, infatti, che si pensa a se stessi come un modello da offrire ad altri, il rischio è proprio quello e quasi inavvertitamente di cominciare a coltivare le apparenze a danno della verità di se stessi e dell’autenticità della relazione.

Come possiamo immaginare che qualcuno ci scelga come punto di riferimento senza ricordargli che tutti dipendiamo dal Signore. Il Vangelo ci ricorda di non diventare mai, in nessun modo e per nessuno un peso, ma dei fratelli amorevoli e sempre “alla pari”. È facile salire in cattedra, costoso rimettersi sui banchi della scuola della vita, ambizioso insegnare, laborioso imparare. Non si tratta di rifiutare il servizio di fare da punto di orientamento per la vita degli altri, ma sempre distinguendo accuratamente il servizio dalla propria identità più profonda e più vera. L’esperienza di Rut è una grande lezione di coerenza come capacità di stare accanto a una persona per fedeltà a se stessi e al proprio cuore, prima di tutto e soprattutto. Come dice Aristide per difendere la condotta dei primi cristiani <cio che essi non vogliono che gli altri facciano loro non lo fanno nei riguardi di nessuno>1. Uno dei primi segni di questa capacità, che potremmo ben definire come abilità di coerenza fondata sull’inerenza come fedeltà alla propria coscienza interiore e segreta, consiste nel non far portare ad altri quei pesi che noi stessi non saremmo in grado o comunque non ameremmo di sopportare. Proprio la memora commossa dell’esperienza di Rut, che è indubbiamente una delle storie più belle e toccanti di tutte le Scritture, rende ancora più forte la parola di avvertimento che il Signore Gesù <rivolse alla folla e ai suoi discepoli> (Mt 23, 1).

Sembra quasi una sorta di nemesi o di catarsi! Infatti, la parola del Maestro mette in luce i limiti e le ambiguità di coloro che si sentono in diritto e in dovere di giudicare l’operato degli altri e di mettere in guardia i propri discepoli persino dal frequentare coloro che vengono ritenuti inaffidabili perché non chiaramente integrati. Il sentimento dominante e ricorrente di Rut, che si perpetua nel nome che sarà dato al frutto del suo grembo – Obed/servo –, contrasta luminosamente con ciò che il Signore indica come il difetto o quasi la malattia dominante di scribi e farisei 


1. ARISTIDE, Apologia, XV, 4. Cfr.: Fratel MichaelDavide, Rut, donna altra, Meridiana, Molfetta 2007.