N’abandonne pas

XXX Dimanche T.O. –

La catéchèse du Seigneur Jésus sur la prière continue et, à l’image de la veuve qui s’oppose au juge inéquitable, s’ajoute aujourd’hui un autre contraste : celui du pharisien et du publicain. La liturgie byzantine dédie le premier dimanche du Triduum – dimanche qui prépare au Grand Carême –  justement à la contemplation de ces deux figures dans lesquelles, chaque fidèle, est appelé à se mirer pour faire le point sur sa propre disponibilité à la conversion. Le premier pas de tout chemin sérieux de conversion ne peut qu’être la conscience d’en avoir réellement besoin : «  Le publicain, au contraire, en se tenant à distance n’osa même pas lever les yeux vers le ciel, mais se battait la coulpe en disant : «  O Dieu, aie pitié de moi pécheur » ( Lc 18, 13 ). La liturgie byzantine prie de même en essayant de prépare le coeur des fidèles au combat spirituel du Carême : «  Avec une âme humble, le publicain, en gémissant, trouva le Seigneur favorable, et fut sauvé, mais le pharisien transforme de façon inquiétante la justice par ses paroles grandiloquentes. Fuyons ô fidèles, les propos arrogants du pharisien et ses titres de pureté  qui imitent à juste titre l’unité et les sentiments du publicain qui  ont obtenu miséricorde »1

Dans la seconde lecture de ce dimanche, c’est l’apôtre Paul qui devient un exemple pour chacun de nous, et, dans un certain sens, nous redonne confiance afin que notre petit ou grand pharisien intérieur puisse non seulement se convertir réellement, mais transformer le zèle de l’auto- exaltation en zèle de service et d’amour jusqu’à pouvoir dire : «  j’ai mené le bon combat, j’ai terminé la course, j’ai conservé la foi » ( 2 Th 4, 7). Ce qui rend chacun de nous capables de vivre de fond en comble – et pleinement – son propre chemin jusqu’à  rejoindre et mériter la «  couronne »  ( 4, 8 )   c’est ce que le Siracide nous rappelle comme principe premier  de la relation avec notre humanité et notre Créateur : «  Le Seigneur est juge et il n’ a aucun égard au rang des personnes » ( Sir  35, 15 ). Cette parole du Siracide nous aide à comprendre en quoi consiste le vrai drame du pharisien. A  force d’auto-certification, il se met à la place de Dieu jusqu’à regarder les autres comme s’il était à la place que seul le Très-Haut détient : «  …ni comme ce publicain » ( Lc 18, 11 ).

Paul nous rappelle, non seulement par la parole, mais avant tout par le témoignage de sa vie, qu’il est possible de laisser émerger en nous la figure du publicain que nous sommes au contraire du pharisien qui cherche toujours à occuper toute la scène. La prière humble « ne sera pas consolée » et « n’abandonnera pas » – tant que le Très-Haut n’est pas intervenu » ( Sir 35, 21 ) – pour recomposer les bonnes proportions de notre façon de nous considérer en apprenant que nous ne pouvons en aucune façon nous faire les juges des autres. Comme nous le rappelle le Seigneur Jésus : chacun peut faire l’expérience d’être «  justifié » ( Lc 18, 14 )  seulement dans la mesure où il reconnaît de ne pas être juste, mais d’être aimé et pardonné. Voici pourquoi la prière du pauvre «  pénétrera les nues » et rend capables de regarder et de se laisser regarder dans la limpide lumière divine.


1. Anthologhion , II, p.397 .

Carne

XXIX settimana T.O. –

Per ben otto volte compare nella prima lettura di quest’oggi il termine <carne> che <tende alla morte> (Rm 8, 6). L’apostolo mette in chiara evidenza un conflitto tra carne e Spirito <dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi> (8, 9). In questo dinamismo di comunicazione di grazia tra l’energia divina e la nostra carne siamo chiamati a diventare sempre di più un <corpo> (8, 10) in cui si manifesti il più pienamente possibile il dono di partecipazione alla stessa vita di Dio. Come spiega un filosofo contemporaneo: <La carne la cui realtà è finita presenta due caratteri correlativi. Da una parte, le impressioni di cui è costituita sono tonalità affettive di ordine negativo, quale il malessere legato al bisogno, l’insoddisfazione, il desiderio e le molteplici forme e sfumature del dolore e della sofferenza di cui la carne è il luogo principale di esperienza. In tutte queste tonalità, il loro tenore sofferente e spiacevole esprime il senso di mancanza fondamentale che riguarda la carne in quanto essa è incapace di essere sufficiente a se stessa. Ma vi è pure un secondo tratto proprio ad ogni carne, il suo dinamismo attraverso cui si sforza di trasformare il malessere nel benessere di un desiderio provvisoriamente colmato>1.

Di questo dinamismo è garante il nostro rapporto con il mistero di Cristo Signore: <E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi> (Rm 8, 11). Nel Vangelo il Signore Gesù ci ricorda che questo processo interiore di crescita e di conformazione esige profonda e radicale attenzione e non può essere mai per così dire “liquidato” con un giudizio che si lasci completamente conquistare dalle apparenze e dalle esteriorità. Per ben due volte, il Signore Gesù dice energicamente “no” alla logica “carnale” dei suoi interlocutori, i quali non riescono a vedere le persone che sono coinvolte e segnate dagli avvenimenti di cui parlano: <No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo> (Lc 13, 5). La parabola apre il cuore e lo sguardo su un modo diverso di considerare e di giudicare che implica sempre la disponibilità a coinvolgersi in prima persona come l’anonimo contadino in cui si nasconde il volto e l’attitudine di Cristo stesso: <Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e vi avrò messo il concime> (13, 8). Potremmo dire che la carne si fa corpo in cui si manifesta l’opera dello Spirito di Dio che anima e divinizza la nostra vita, proprio nella misura in cui invece di accontentarsi di guardare e di giudicare, accetta di coinvolgersi e di rischiare in prima persona. Come discepoli siamo così chiamati, ogni giorno, a prendere sempre più coscienza di questa presenza dello Spirito che è come la terra per un albero: non è un’eccezione o una realtà passeggera, bensì è l’humus di cui viviamo tanto che la sua azione va continuamente ravvivata e sempre meglio accolta e custodita.


1. M. HENRY, Paroles du Christ, Seuil, Paris 2002, pp. 8-9.

Intimo

XXIX settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo Paolo ci portano lontano, anzi, ci riconducono molto vicino dando contorni precisi a quel combattimento interiore che così tanto ci affatica fino a stremare la speranza: <io so che in me, cioè nella mi carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo…> (Rm 7, 18). Sono parole che ci toccano e se, per molti aspetti, ci consolano perché ci fanno sentire meno soli e meno “difettosi”, al contempo radicalizzano ulteriormente la ricerca delle vie per poter vivere in pienezza la nostra vocazione alla pace e alla felicità. Continuando nella sua “confessione”, Paolo arriva infine ad evocare un luogo interiore da cui si può sempre ricominciare a sperare: <Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra> (7, 21-23). Per quanto il combattimento possa essere duro ed esigente e i momenti di caduta possano reiterarsi, siamo chiamati ad aggrapparci come fosse il timone della nave della nostra esistenza alla consapevolezza di essere abitati nel profondo del nostro cuore – nell’<intimo> – da una presenza che ci libera dalla paura di essere limitati e ci apre gli orizzonti di una grazia capace di ricreare, ogni giorno, la decisione a non soccombere a noi stessi e ad andare oltre noi stessi: <Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!> (7, 25). 

Come ricorda un predicatore dei nostri giorni: <Animati dallo Spirito di Cristo, siamo chiamati ad essere “guetteurs” di aurore, sentinelle dell’amore, segni del regno e dell’amore di Dio che feconda lentamente la nostra terra. Per vocazione i discepoli di Cristo, uomini e donne, siamo dei vigilanti che discernono in modo acuto tutto ciò che ferisce e paralizza la nostra umanità tanto da vedere ciò che gli altri non colgono, soprattutto quanti si sentono esclusi dall’amore e dalla vita>1. In questa direzione possiamo accogliere in modo liberante la parola del Signore Gesù: <E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?> (Lc 12, 57). Se la parola del Signore può sembrare dura è al contempo una parola che ci restituisce tutta la nostra libertà di intelligenza, di valutazione, di scelte per non essere né vittime né spettatori della nostra stessa vita. Da questo punto di vista possiamo dire che il primo passo dell’intelligenza e del coraggio è la lucidità e la capacità di scegliere in modo adeguato al reale. Tra tutti gli esempi possibili inerenti alla complessità della vita viene ricordato quello più consueto e doloroso che è il conflitto con i fratelli: <lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice> (Lc 12, 58). 

Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura. Bisogna, infatti, conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le scoperte recenti. Per questo sentono il peso dell’inquietudine, tormentati tra la speranza e l’angoscia, mentre si interrogano sull’attuale andamento del mondo. Questo sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta (Gaudium et Spes 4).


1. M. HUBAUT, Un monde en quete de sens, Cerf, Paris 2013, p. 203. 

XIII CENTENARIO DELL’ABBAZIA DI NOVALESA

Giubileo di fondazione del monastero Novalesa
Il 30 gennaio 2026 si celebrerà il 1300° anniversario di fondazione dell’abbazia di Novalesa
la cui origine risale al 726.
Dal 23 gennaio al 15 ottobre 2026 una serie di eventi e di appuntamenti segneranno la
celebrazione di questo anniversario che saranno notificati sul sito.


1. J.-L. CHRETIEN, L’intelligence du feu, Bayard, Paris 2003, p. 135. 

Traguardo

XXIX settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo suonano dure: <Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Il loro traguardo infatti è la morte> (Rm 6, 21). Continuando la sua catechesi sul mistero della grazia che opera nel cuore dei credenti, Paolo si avvicina sempre di più a scandagliare, per così dire, ciò che avviene nel cuore di ogni discepolo in cui il seme della grazia operante attraverso la fede non solo cresce, ma trasforma profondamente il cuore, formando l’uomo nuovo che si esprime attraverso i frutti di una giustizia non semplicemente come obbedienza alle prescrizioni della Legge, ma come trasformazione interiore attraverso la Legge: <Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto della vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna> (6, 22). Ogni traguardo si staglia davanti a coloro che camminano e talora corrono per raggiungerlo e, perciò stesso, esso non si identifica mai con ciò che possediamo, ma sempre con ciò che speriamo e desideriamo. L’anelare a raggiungere un traguardo dà alla vita dinamismo e finalità.

Perché questa corsa nel desiderio possa continuare a raggiungere la sua meta, il Signore Gesù si fa complice del meglio di noi stessi tanto da esclamare: <Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!> (Lc 12, 49). Il fuoco non solo illumina e scalda, ma soprattutto il fuoco è capace di trasformare. Il seguito delle parole del Signore Gesù può anche inquietare: <Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione> (12, 51). La <divisione> che sembra essere conseguenza naturale della scelta per Cristo è simile al <fuoco> e rimanda al necessario e desiderabile <battesimo> (12, 50) senza il quale sarebbe impossibile essere veramente <liberati dal peccato e fatti servi di Dio> (Rm 6, 22). Il fuoco che il Signore accende nei nostri cuori è il dono del suo Spirito Santo che, pienamente donato nel suo mistero pasquale, immette la nostra vita nello stesso dinamismo che permette l’esodo quotidiano da noi stessi per aprirci all’opera di Dio in noi e attraverso di noi. Il fuoco è <l’amore, il desiderio, il fervore e il conflitto che lacera il cuore davanti alle esigenze della Parola>1.

Camminare verso il <traguardo> di un’autentica discepolanza esige il passaggio attraverso il conflitto con tutto ciò che abitualmente fa parte della nostra vita per riposizionare e ricomprenderne ogni aspetto e ogni dettaglio alla luce del Vangelo. La <divisione> (Lc 12, 51) di cui ci parla il Signore Gesù è il segno di un cammino di discernimento e di scelta che non sono mai indolore e non lasciano il mondo cui siamo abituati uguale a se stesso. Non si può scegliere senza rinunciare, non si può pensare di seguire senza lasciare! Quando il Signore Gesù riconosce di essere <angosciato>, assume su di sé tutta la nostra fatica ad essere fedeli al nostro desiderio e ci accompagna, amabilmente, nel lungo e non facile cammino di discernimento e di coronamento non solo di ciò che ci sta a cuore, ma di ciò che fa veramente bene al cuore.


1. J.-L. CHRETIEN, L’intelligence du feu, Bayard, Paris 2003, p. 135. 

Di cuore

XXIX settimana T.O. –

L’apostolo Paolo continua la sua catechesi sulla grazia della libertà che esige di vivere nella libertà della grazia. Siamo di fronte ad un necessario e quotidiano discernimento che pure, bisogna riconoscerlo, non è così semplice ed esige una capacità di attenzione e di intelligenza. La domanda si fa urgente: <Come fare ad essere autenticamente liberi senza cedere a forme di libertinaggio assecondando il comodo e la superficialità?>. Nelle parole dell’apostolo possiamo trovare una guida per orientarci e districarsi nei meandri talora così complicati del nostro stesso cuore: <Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati> (Rm 6, 17). Come spiega Romano Penna: <Paolo vorrebbe alludere al dato fondamentale di un’avvenuta trasformazione interiore compiuta nel credente dalla fede e dallo Spirito Santo, a cui segue poi anche una obbedienza etica>1.

Il Signore Gesù conferma questo principio ermeneutico con una frase che può anche destare un po’ di turbamento: <A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più> (Lc 12, 48). Questa frase sibillina, che mette in crisi tutti i nostri parametri di giustizia, è la conclusione della risposta che il Signore Gesù cerca di dare al turbamento di Simon Pietro davanti all’invito ad essere oltremodo vigilanti: <se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa> (12, 39). Con questa <parabola> (12, 41) che sembra mettere in subbuglio il cuore di Pietro, siamo raggiunti personalmente al cuore della nostra ricerca e del nostro desiderio di essere discepoli il cui primo passo è una capacità di abitare il nostro cuore per coltivare un cammino di autentica libertà. La differenza tra la libertà discepolare e l’essere <schiavi> (Rm 6, 16) sta proprio in questa disponibilità e scelta di <dare la razione di cibo a tempo debito> (Lc 12, 42). Al contrario chi <cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare e a ubriacarsi> (12, 45) non potrà che essere escluso dal flusso della grazia che è sempre legata alla capacità di servire e di prendersi cura <di cuore>. 

Vi è una sottigliezza nelle parole del Signore Gesù che non bisogna lasciar cadere. Sembra che la cura verso gli altri cominci e si radichi in una cura verso il Signore stesso: <Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo> (12, 40). Ciò che libera il nostro cuore e lo rende capace di fedeltà è il fatto di attendere veramente qualcuno senza essere prigionieri di se stessi ma come <viventi ritornati dai morti> (Rm 6, 13). Con questa parola un po’ misteriosa l’apostolo Paolo ci apre sulla realtà di una vita che sa decidere fino a saper attraverso la morte ai desideri disorientati per far sì che si faccia sempre più spazio al Desiderio che fa di noi dei discepoli liberi e fedeli.


1. R. PENNA, Lettera ai Romani, EDB 2010, pp. 458.459

La natura e il pensiero: a 10 anni dalla Laudato Si’

una riflessione tra filosofia, teologia, scienza ed educazione alla sostenibilità

Sabato 8 novembre 2025, ore 9.00
Abbazia della Novalesa (TO)

La suggestiva cornice dell’Abbazia della Novalesa ospita il convegno “La Natura e il Pensiero”, promosso dalla Città Metropolitana di Torino e dalla comunità monastica, in collaborazione con istituzioni, enti locali, realtà educative e culturali del territorio. Un’anticipazione degli eventi che, nel 2026, celebreranno i milletrecento anni dalla fondazione dell’abbazia. L’evento si concentrerà sul dialogo tra filosofia, teologia, scienza ed educazione: quattro prospettive complementari per comprendere a fondo la complessità del rapporto tra Uomo e Natura. Non a caso, l’iniziativa è stata organizzata proprio nel 2025, a dieci anni dalla pubblicazione dell’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco.

Il convegno offrirà spunti e riflessioni sull’eredità del documento che ha segnato una svolta nella coscienza ecologica globale, avvicinando sguardi diversi attorno a un tema che, analizzando il presente, interroga il futuro.

Il convegno vuole essere un dialogo fra saperi, un’occasione per superare le barriere ideologiche e indagare la natura non soltanto con la lente della Scienza, ma anche come questione culturale, filosofica e antropologica.

A partire dai dati scientifici, l’incontro esplorerà le radici della distanza tra uomo e ambiente, riflettendo sulle visioni del mondo che hanno alimentato questa frattura, che il pensiero ecologico e spirituale vorrebbe sanare.

Programma dettagliato

Mattina (dalle ore 9 alle 13) – relazioni in aula

Moderatori: Gianni Boschis (docente di Geografia, geologo, divulgatore scientifico) ed Eloisa Giannese (giornalista)

9.30-10.00
Saluti istituzionali:
Introduzione del vicesindaco della Città Metropolitana Jacopo Suppo
Intervento del sindaco di Torino Stefano Lo Russo

10.00–10.40
Michael Davide Semeraro (priore dell’Abbazia, monaco, teologo, scrittore)
Ascoltare il grido… della Terra e dei poveri

10.40–11.20
Daniele Cat Berro (Climatologo, SMI)
Scienza ed evidenze della crisi climatica: da Papa Francesco alla situazione attuale

11.20-12.00
Eloisa Giannese (giornalista)
Il compito della filosofia oggi: tornare alla natura, riscoprire l’anima del mondo

12.00–12.40
Armando Minutola (docente di Filosofia)
Io e il mondo: dal Romanticismo alla cittadinanza consapevole

12.40–13.00
interventi dal pubblico e conclusioni della mattinata ad opera di Jacopo Suppo (vicesindaco Città Metropolitana)

Pausa pranzo (dalle 13.00 alle 14.30)

_____
Pomeriggio (dalle 14.30 alle 17.00)

14.30–15.30
Escursione guidata: Uno sguardo sulla Natura in rapporto all’uomo.
Lezione “en plein air” e Cappella di Sant’Eldrado.
A cura di Cristina Converso (dottore forestale e scrittrice), Luca Cavallo (agronomo) e Gianni Boschis

15.30–17.00
Voci dal mondo della Scuola. Gli aspetti educativi dell’Enciclica visti da docenti e studenti
a cura di Daniele Cane (docente di Fisica);
l’esempio del progetto “Ghiaccio fragile”.
Moderano: Gianni Boschis ed Eloisa Giannese

Conclusioni, consegna attestati e commiato

Partecipazione gratuita, iscrizione obbligatoria

Il convegno è rivolto a tutti coloro che desiderano approfondire ed esplorare le tematiche ambientali in chiave interdisciplinare, ed è particolarmente consigliato a insegnanti, educatori, tecnici del territorio, amministratori locali, studenti, associazioni culturali e ambientaliste. Ai docenti partecipanti verrà rilasciato un attestato valido ai fini dell’aggiornamento professionale.

Iscrizione obbligatoria tramite link: https://forms.gle/3DpFUwemob3WDNHx6


Città Metropolitana di Torino, Abbazia di Novalesa 

in collaborazione con: Unione Montana Valle Susa,  Meridiani società scientifica, progetto Ghiaccio fragile, SMI, ANISN Piemonte, La Valsusa, ACSEL

Molto di più

XXIX settimana T.O. –

Le parole dell’apostolo Paolo sembrano aprire un orizzonte capace di dare ampiezza e grandezza al nostro cuore: <molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti> (Rm 5, 15). A motivo della rivelazione di Dio in Cristo Gesù, tutta la nostra vita è ormai sotto il segno di questo <molto di più> che crea le condizioni e ci ricorda le esigenze di essere in grado di vivere nello stesso dinamismo di dono e di offerta di sé. La parola che il Signore rivolge ai suoi discepoli non è vaga, ma riguarda esattamente questo atteggiamento necessario di disponibilità appassionata al <di più>. Per questo il Signore non esita ad esortare con forza: <Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simi a quelli che attendono il loro padrone quanto torna dalle nozze> (Lc 12, 35-36). Il fatto che il padrone stia tornando dalle nozze è come la garanzia che il suo sia un rientro segnato dalla gioia e dalla sovrabbondanza di dono che esige un atteggiamento simile da parte dei suoi servi: <E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro> (Lc 12, 38).

La divisa di servizio è un imperativo che rimanda ed evoca l’uscita dall’Egitto che fu per il Signore <una notta di veglia> (Es 12, 42) una sorta di turno di duro lavoro. Cosicché la nostra vigilanza non è che una risposta alla vigilanza di Dio che è sempre all’opera (cfr. Gv 5, 17) per realizzare la nostra liberazione e la nostra salvezza. Attendere il pieno compimento delle promesse non significa aspettare un tempo di ozio, ma di comunione creativa e laboriosa in Dio che segna e trasforma tutte le nostre relazioni umane. Il destino di gloria cui siamo chiamati è un atteggiamento autentico e forte di servizio che ci rende simili al nostro creatore e redentore: <in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli> (Lc 12, 37). Ci meraviglia questo padrone che torna dalla festa di nozze a cui i servi non sono stati invitati e che pure si mostra così contento per il fatto di essere atteso dai suoi servitori nella notte. Una gioia così grande che lo induce ad organizzare – come servo tra amici servi – una festa con loro che diventa una festa per loro.

Questo padrone torna nella notte eppure <bussa> (Lc 12, 36) perché non ha voglia di sorprendere ma di essere atteso e di essere accompagnato nel segreto della sua casa per continuare la sua intima festa: come e chi potrebbe dormire in una notte come questa, quelle delle nozze?! Riscoprire la nostra identità di servi che hanno un padrone capace di mettersi alla nostra tavola e persino di servirci alla sua tavola per poter condividere con noi la sua gioia… questa è la grande novità che cambia radicalmente e inaspettatamente tutta la nostra vita. La parabola che ritroviamo nella liturgia di oggi ci permette di capire meglio il messaggio che in un modo un po’ più complicato ci viene trasmesso dall’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: <molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti> (Rm 5, 15).

Promessa

XXIX settimana T.O. –

Tutta la nostra vita umana è un cammino di presa di coscienza e di crescita nella consapevolezza di quanto e di come la nostra umana avventura è più legata a ciò che è stato <promesso> e viene continuamente promesso nella verità e nella creatività di una relazione, piuttosto che nell’immobilità di un gioco di ricchezze che portano a dividere piuttosto che a condividere. In realtà, la richiesta che viene presentata al Signore Gesù diventa per noi un monito: <Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità> (Lc 12, 13). Se la relazione con il Signore non ci porta un po’ oltre questo bisogno di parcellizzazione che corrisponde, in verità, ad un processo di impoverimento, allora siamo sulla strada che conduce alla disumanizzazione. Nel nostro cuore siamo chiamati a coltivare e a far crescere un atteggiamento completamente diverso come fece il nostro padre Abramo <convinto che quanto> gli era stato <promesso era anche capace di portarlo a compimento> (Rm 4, 21).

Il dinamismo della fede non è altro che un processo di sempre più grande apertura e disponibilità a camminare con gli altri tanto da rendere impossibile – anzi assolutamente impensabile – un argomento come quello su cui si sofferma il protagonista della parabola: <riposati, mangia, bevi, divertiti!> (Lc 12, 19). In realtà bisogna riconoscere che se la vita è relazione, allora quella di quest’uomo apparentemente così vivace è già morta a motivo della sua chiusura. Così la parola che gli viene rivolta dall’Altissimo più che una punizione ha tutta l’aria di essere una semplice constatazione con cui non solo si prende atto, ma pure si cerca di cogliere tutte le conseguenze. La vita non consiste nell’avere la propria parte di eredità, ma di avere parte all’eredità, secondo il dramma vissuto dagli altri due fratelli (Cfr Lc 15) di cui Gesù ci parla in una delle sue più belle parabole. Laddove un uomo costruisce magazzini e recinti sempre <più grandi> (Lc 12, 18), ecco che la sua vita diventa sempre più piccola e, in certo modo, proporzionalmente più vana e quindi anche più breve. Infatti, anche se fosse lunghissima la morte sembrerà sempre una terribile ingiustizia. Laddove lo stolto ragiona <tra sé> (12, 17) e parla in termini di possesso perfino dell’<anima mia> (12, 19) il Signore ricorda, con la sua parola e il suo rifiuto di “mediazione”, che il tutto deve essere invece considerato <davanti a Dio – in greco: verso Dio>.

Lo spirito del Vangelo rivoluziona il nostro modo di relazionarci reciprocamente: siamo tentati dal fare le cose tra di noi – dividendo – mentre il Signore ci invita a riconsiderare tutto ciò che avviene tra noi – a livello orizzontale – a partire dalla direzione di fondo che è assolutamente verticale: verso Dio! Allora la domanda dello stolto rimane valida e intrigante perché tradisce il nostro desiderio di ammassare per sentirci al sicuro: <Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?> (12, 17). Lasciamoci interiormente lavorare e profondamente interrogare dall’esortazione evangelica: <Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede> (Lc 12, 15) perché dipende da ciò che condivide.

Combattere

XXVIII Domenica T.O.

La liturgia della Parola di questa domenica esordisce in modo assai deciso: <In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele e Refidim> (Es 17, 8). Bisogna ricordare che Amalèk secondo quanto testimoniano le Genealogie (cfr. Gn 36) proviene dalla stirpe di Esaù, legato dunque agli Edomiti con cui condivide l’atavica inimicizia con Giacobbe. Il luogo dello scontro con Giosuè (Es 17, 8) è Refidim la cui etimologia – raphah+yadim – significa avere le mani deboli. La Mekhiltà indica un <rilassamento delle mani> e così ricorda che l’Avversario appare, non appena c’è un rilassamento. Al contrario, la preghiera secondo la parola del Signore Gesù – nel Vangelo – è una <necessità> che esige un buon allenamento nella perseveranza: <senza stancarsi mai> (Lc 18, 1). La parola della <vedova> che continua ad importunare il giudice è una parabola di questa capacità della preghiera: una preghiera capace  di piegare e rettificare il corso della storia, togliendo la presa al male proprio con un’attitudine di combattimento che non accetta nessuna forma di allentamento. Ritorniamo così ai tempi di Amalèk quando Mosè non lasciava cadere le sue mani mentre Giosué combatteva nella valle. Secondo la sapienza della Tradizione, la guerra contro il nemico di Dio esisterà sempre nella storia e <solo la potenza di chi ha aperto il mare, tramite il bastone di Mosé, può garantire la vittoria>1.

La lotta contro il volto di turno del nemico di Dio va fatta con perseveranza e senza arrendersi. Bisogna assiduamente perseverare nel perseguire ciò che sentiamo essere un bene necessario non solo per la nostra vita, ma – soprattutto – quando questo bene riguarda la vita e la felicità degli altri. L’apostolo Paolo si pone nella stessa linea dell’Esodo e nella stessa prospettiva di quel cammino che il Signore Gesù sta compiendo, con ferma decisione, verso Gerusalemme: <tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente> (2Tm 3, 14). Non è raro come, il  pensare alla preghiera, corrisponda ad immaginare una certa dimissione nei confronti della vita e della storia. Al contrario, la preghiera è il modo remoto e profondo di preparare al meglio tutti i passi che, nella vita e nella storia, siamo chiamati necessariamente a compiere perché siano autentici e duraturi.

Una nota assai significativa, nella conclusione della parabola, è il fatto che per la sua interpretazione il Signore Gesù ricorre a due domande e non a due affermazioni, quasi indicando che la preghiera – prima di essere una risposta appagante – è un interrogativo che interpella l’interezza della nostra umana esperienza, un’esperienza percepita e vissuta al massimo grado di estensione in relazione a Dio. Così conclude il Signore Gesù: <E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?>. Come se non bastasse c’è un altro punto interrogativo: <Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?> (Lc 18, 7-8). La preghiera non consiste nelle belle parole o nei bei sentimenti, ma nella capacità di perseverare nelle battaglie della vita anche quando ci sentiamo terribilmente soli… e Dio sarà al nostro fianco senza mai sostituirsi a noi, al fine di permetterci di gustare l’onore del combattere e la gioia di vincere.


1. E. BIANCHI, Lontano da chi?, Gribaudi,  p. 203.