Relazione

XXXI settimana T.O. –

Il rapporto con le ricchezze non solo economiche, ma persino intellettuali e spirituali ha rappresentato sempre un quesito cruciale per tutti coloro che si sono fatti obbedienti e docili discepoli del Vangelo. Talora si è arrivati ad immaginare nella vita del Signore Gesù una povertà che non ci è attestata nei Vangeli, cadendo in forme di pauperismo non solo eccessive, ma persino fanatiche. In realtà, ciò che sta veramente a cuore al Signore è che nessuno dei suoi discepoli si rinchiuda, attraverso la ricchezza, in un atteggiamento di autoreferenzialità superbo o superficiale. Al contrario, tutti i beni che la vita mette a nostra disposizione dovrebbero essere un mezzo per approfondire la nostra capacità di comunicazione, di relazione, di comunione. Un padre della Chiesa della prima ora, riflettendo sul rapporto dei cristiani con le ricchezze, richiama non tanto la necessità di rinunciarvi, ma di viverne il dono e la possibilità alla luce delle parole e degli esempi di Cristo: <Egli è la via su cui cammina chi ha il cuore puro; la grazia di Dio non si infila in un’animo ingombrato e lacerato da una moltitudine di possessi. Chi considera la sua fortuna, il suo oro e il suo argento, le sue case come doni di Dio, costui testimonia a Dio la sua riconoscenza venendo in aiuto ai poveri con i suoi averi. Egli sa di possederli più per i suoi fratelli che per se stesso. Rimane padrone delle sue ricchezze invece di diventarne schiavo>1.

L’apostolo Paolo, concludendo con il saluto la sua Lettera ai Romani ci testimonia di questa stupenda possibilità di saper mettere a disposizione gli uni degli altri i propri beni, le proprie energie, le proprie possibilità fino a ricordare con una comprensibile commozione come Prisca e Aquila <per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa> e aggiunge <a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano> (Rm 16, 4). Paolo evidenzia come il gesto di bontà e di solidarietà dimostrato verso la sua persona, è capace di creare una sorta di catena di gratitudine. Possiamo custodire con profonda attenzione l’invito del Signore: <Fatevi dunque degli amici…> (Lc 16, 9), perché il rischio è proprio quello di farsi dei nemici, come spesso accadeva ai farisei. Il Signore Gesù ci esorta non ad un pauperismo triste che rischia di abbruttire ed amareggiare la vita, bensì ci chiede di evitare accuratamente di diventare schiavi del denaro o di usare quest’ultimo per schiavizzare il nostro prossimo. 

Davanti alla supponenza beffarda dei <farisei che erano attaccati al denaro> (16, 14), il Signore riporta questo aspetto così delicato e importante – irrinunciabile! – a un livello assai elevato: il rapporto con Dio nel segreto della coscienza ove siamo chiamati a fare le nostre scelte anche riguardo al modo di usare le nostre ricchezze o, semplicemente, le nostre disponibilità non solo economiche, ma anche di energie e di tempo. Per questo il Signore ci ricorda e quasi ammonisce: <Dio conosce i vostri cuori> (16, 15). A noi il compito di non ignorare ciò che c’è nel nostro cuore!


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Può un ricco salvarsi?

Dis-onesto

XXXI settimana T.O. –

Leggiamo uno dei testi più intriganti di tutto il Vangelo in cui il messaggio della salvezza si lascia mediare dal paradosso che si trova a conclusione della parabola e sempre un po’ ci sorprende non poco fino a destabilizzarci: <Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce> (Lc 16, 8). Eppure, non bisogna sottovalutare un aspetto che sta sullo sfondo di questa parabola di certo assai “peperina”. Si tratta di una capacità di vivere e di approfondire la relazione proprio quando la vergogna e l’imbarazzo facilmente indurrebbero a nascondersi e a sottrarsi al confronto. Invece no, assolutamente no! Sembra che il messaggio sotteso, quello più profondo che stimola il nostro cammino di continua e rinnovata conversione, sia racchiuso nel fatto che nonostante la situazione sembra mettersi veramente male il padrone con semplicità e somma apertura: <Lo chiamò e gli disse: “Che sento dire di te?”> (16, 2).

La reazione dell’amministratore che viene qualificato come <disonesto> è, in realtà, di grande onestà. Prima di tutto perché non si giustifica, ma prende coscienza rivelandosi capace di guardare in faccia la realtà: <Che cosa farò ora…?> (16, 3). La soluzione che sembra la più naturale e la più affidabile è quella di intensificare i rapporti: <Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone…> (16, 5). Soprattutto questo amministratore è capace di parlare a se stesso per portarsi oltre se stesso obbligando ad una sorta di verità sulla propria vita che invece di paralizzarlo nelle sue decisioni e azioni gli permette, invece, di andare più lontano. Di fatto ad essere lodata non è la disonestà, ma l’abilità a leggere la situazione con lucidità e a comprendere come ogni soluzione non può che passare attraverso un incremento di relazione: gli amici appunto.

Verrebbe da chiedersi come mai gli innominati denigratori si sono disturbati per denunciare questo amministratore. Viene quasi da pensare che a spingerli a questa denuncia ci sia oltre l’amore per la verità, pure una punta di gelosia per la capacità di quest’uomo a trovare sempre la via per dare il meglio e stare meglio. La domanda rimane aperta. In ogni modo si può azzardare ancora nell’interpretazione di questa parabola tra le più paradossali dicendo che la questione non è semplicemente l’onestà, ma l’integrità. Di questo sembra parlarci l’apostolo Paolo quando dice: <vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo> (Rm 15, 15-16). Non basta accontentarsi di essere onesti, è necessario essere pure scaltri nel cercare di trovare sempre il modo di portare avanti la speranza di una vita migliore per se stessi e per gli altri: equilibrio mai facile da creare e sempre difficile da mettere in pratica.

Cento per cento

XXXI settimana T.O. –

Così esordisce Ambrogio di Milano nel commentare il testo del Vangelo di oggi che non può essere gustato in pienezza se non nella memoria della terza parabola che ne completa il quadro: <Non senza motivo san Luca ci presenta di seguito tre parabole: la pecora che si era smarrita ed è stata ritrovata, la dramma che era stata perduta, poi ritrovata, il figlio prodigo che era morto, e poi è tornato in vita. Cosicché, sollecitati da questo triplice rimedio, curiamo le nostre ferite.… Chi sono questo padre, questo pastore, questa donna? Non sono forse Dio Padre, Cristo, la Chiesa? Cristo ha preso su di sé i tuoi peccati, ti porta nel suo corpo; la Chiesa ti cerca; il Padre ti accoglie. Come un pastore, ti riporta; come una madre, ti ricerca; come un Padre, ti riveste. Prima la misericordia, poi l’assistenza, infine, la riconciliazione.  Rallegriamoci quindi che questa pecora, che era perduta in Adamo, sia ripresa in Cristo. Le spalle di Cristo sono le braccia della croce; lì ho deposto i miei peccati, lì, sul nobile legno di questa croce, ho riposato>1.

Tre modi per dire la stessa cosa in modo diverso e ad un livello di profondità crescente. Il primo registro è la questione del numero. Prima di tutti una pecora perduta su cento: uno per cento; poi una moneta su dieci: dieci per cento; e infine – nella parabola che non leggiamo nella Liturgia ma che portiamo nel cuore – un figlio contro un altro figlio, uno su due: cinquanta per cento. A meno che non si tratti, in realtà, del cento per cento, visto che il pastore, la donna e infine il padre misericordioso si coinvolgono interamente e persino paradossalmente nelle loro opere di ricerca e di ritrovamento. La nostra condizione umana è sempre segnata da una certa “perdizione” che la misericordia di Dio continuamente riscatta e reintegra. L’apostolo Paolo lo dice con accenti appassionati: <nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore> (Rm 14, 7-8). 

Nella sequenza delle parabole della misericordia troviamo al centro del trittico una moneta che è un oggetto di valore ma è una cosa inanimata, totalmente passiva e senza coscienza. La prima parabola parla di una pecora, una realtà animata capace di sentire, di vedere, persino di soffrire ma non è né una volpe né un gatto: è una pecora! Solo alla fin troviamo quel figlio – meglio quei figli – che non sono solo cercati dal padre, ma che devono pure lasciarsi trovare esercitando la loro libertà e giocandosi con le esigenze della loro personale libertà e coscienza per poter accedere ad un livello reale di umanità. Tra tutti i particolari di queste parabole possiamo lasciarci conquistare dall’atteggiamento del buon pastore che, in realtà, il Signore Gesù qualifica pensando piuttosto a noi: <Chi di voi, se ha cento pecore… > (Lc 15, 4). Questo tale si avventura e porta le pecore sulle sue spalle quasi regalandole un ritorno all’ovile in prima classe. E poi quella donna che prima di spazzare la casa <accende la lampada> (15, 8). La moneta che sta cercando infatti dovrebbe riflettere la luce e quindi farsi più facilmente trovare. Questa lampada può farci pensare allo Spirito Santo che abita in noi, che ci illumina e ci rivela a noi stessi per fari brillare e continuamente ritrovare l’immagine divina che è incisa nella nostra umanità. Possiamo identificare in questa donna la Chiesa che spazza pur ti far brillare e di ritrovare condividendo la sua gioia con tutte <le amiche e le vicine> (15, 9). In questo contesto la domanda di Paolo trova una risposta che supera interamente i termini della domanda: <Ma tu, perché giudici tuo fratello? E tu perché disprezzi tuo fratello?> (Rm 14, 10). Se lo stiamo cercando non lo stiamo certo né giudicando né, tantomeno, disprezzando, ma lo stiamo amando al cento per cento!


  1. AMBROGIO DI MILANO, Commento al Vangelo di Luca, 7, 207-209 

Finire il lavoro

XXXI settimana T.O. –

L’invito del Signore Gesù non lascia dubbi. Bisogna non solo saper progettare e immaginare la propria vita – e in particolare la propria vita di discepoli – ma bisogna saper <finire il lavoro> (Lc 14, 29). Per comprendere appieno cosa possa significare questo invito del Signore Gesù nella concretezza della vita di ogni giorno ci viene in aiuto la parola dell’apostolo Paolo quando dice: <non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge> (Rm 13, 8). Davanti a questa sfida entusiasmante non bisogna dimenticare che amare l’altro significa ingaggiare una <guerra> (Lc 4, 31) contro il proprio egoismo fino ad accettare di <costruire una torre> (14, 28) che non ha nulla a che vedere con quella di Babele, ma è ben più simile all’arca di Noè. Per il Signore è chiaro che nessun compimento sarà possibile nella nostra vita se non passando attraverso il crogiolo di una scelta preferenziale che sa dare una gerarchia ad ogni aspetto dell’esistenza senza escludere i sentimenti più radicali e gli affetti più radicati: <suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle…> (14, 26).

Di certo potrà sembrare un paradosso che l’apostolo inviti a praticare generosamente <l’amore vicendevole> e che il Signore esiga dal suo discepolo di saper ordinare gli affetti più cari fino a subordinarli alla sequela. In realtà <l’amore> di cui parla l’apostolo corrisponde a ciò che il Signore Gesù richiede dal suo discepolo chiamato ad assumere <la propria croce> (14, 27) che, normalmente, coincide con <la propria vita> da accogliere e da purificare attraverso un continuo esercizio di scelta capace di preferire sempre l’altro a se stessi. Preferire significa mettere prima, mettere davanti. Si tratta di far passare sempre avanti ciò che è richiesto dal dono di noi stessi secondo l’esempio che abbiamo ricevuto da Cristo Signore. Questo è un lavoro da <finire> e che passa attraverso una capacità di <rinuncia> (14, 33) che è imprescindibile in ogni autentico dinamismo di scelta.

Se la giustizia si gioca normalmente nell’orizzonte del limite, l’amore è sempre oltre ogni limite tanto da essere comunque una forma di ingiustizia. L’ingiustizia dell’amore che Cristo Signore ha assunto portando la sua propria croce rivelando e tracciando per i suoi discepoli un cammino che non può mai accontentarsi della giustizia. Il Signore ci invita a non coltivare le nostre illusioni sull’amore e ad aprirci invece ad un amore concreto, fattivo che si costruisce e si esprime giorno dopo giorno. Ed è così che la <propria croce> (14, 27) diventa “proprio” il simbolo di questo amore più grande. Per entrare in questa conformità al Vangelo è necessario prendere coscienza che essere <discepolo> (Lc 14, 27) è un’arte che esige la totalità di noi stessi. L’apostolo Paolo ci offre, a sua volta, un criterio fondamentale per discernere il nostro grado di conformità a Cristo: <non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge> (Rm 13, 8).

Pigrizia

XXXI settimana T.O. –

La lettera ai Romani che leggiamo da qualche giorno nella Liturgia comincia ad avviarsi verso la conclusione. La riflessione arguta di Paolo sul mistero di Cristo si traduce sempre più concretamente in una esortazione a lasciare che questo mistero illumini e trasformi interamente e in modo efficace tutta la nostra vita: <Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile> (Rm 12, 16). La ragione remota e fondante della carità che si invera in una stima reciproca e in una cura del cammino dell’altro perché possa conoscere la pienezza della vita in una gioia inconsutile, si radica in una consapevolezza di cui prendere coscienza ogni giorno: <pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri> (12, 5). Questa parola dell’apostolo Paolo ci permette di comprendere ancora meglio lo sbigottimento e l’ira che insorgono ed esplodono nel cuore e dal cuore di quell’uomo che <diede una grande cena e fece molti inviti> (Lc 14, 16).

Quando i primi invitati rifiutano di partecipare alla cena adducendo vari motivi per <scusarsi> (14, 18), la reazione è fortissima tanto che la conclusione è assai amara: <Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena> (14, 24). Questa parola deve scuoterci non poco. Infatti, la parabola viene raccontata dal Signore Gesù in risposta all’esultazione entusiasta di uno dei suoi ascoltatori: <Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!> (14, 15). Davanti a questa bella espressione, il Signore Gesù sente il bisogno di ricordare a quanti lo seguono che se l’invito è per tutti, nondimeno il rischio è che lo possano realmente accogliere quanti sono catalogabili tra <i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi> (14, 21). Solo costoro, infatti, sono in grado di cogliere la portata di gratuità di un simile invito tanto da non frapporvi nessun altro impegno e onorare così il desiderio di quell’uomo. 

L’esortazione dell’apostolo va a toccare un pericolo sempre in agguato nel nostro cuore: <Non siate pigri nel fare il bene> (Rm 12, 11). Vi è una pigrizia che potremmo definire attiva, quella che ci rende indisponibili a prendere iniziative per la nostra vita richiudendoci in una ripetitività paralizzante. Vi è poi una pigrizia più sottile che si identifica con una sorta di insensibilità verso gli appelli e le possibilità che continuamente la vita ci offre e richiedono un ascolto e un’accoglienza pronti e fattivi. Perché questo accada è necessario avere un cuore libro e un’agenda abbastanza leggera o almeno disponibile e aperta all’imprevisto. Questo necessita che ci sia una gerarchia nelle nostre priorità. Si tratta di una gerarchia da ritoccare continuamente se non vogliamo diventare sordi agli appelli che ci vengono attraverso la vita. La più grave forma di pigrizia è quella che non ci fa aprire il cuore e le scelte alla necessità di cambiare i nostri programmi per gioire dell’esperienza di essere <un solo corpo> (Rm 12, 5) e di sedere tutti insieme come <commensali> (Lc 14, 15). Dunque, la vera beatitudine non sta semplicemente nel fatto di prendere <cibo nel regno di Dio>, ma di condividerlo sentendosi responsabili della propria presenza per la gioia di tutti.

Sarai beato

XXXI settimana T.O. –

Le due letture di quest’oggi sembrano incrociarsi per formare una sorta di bouquet capace di rallegrare il cuore e dare una direzione alla vita di ogni giorno. Infatti, se il Signore Gesù ci regala una parola di grande speranza: <e sarai beato perché non hanno da ricambiarti> (Lc 14, 14), l’apostolo Paolo ci svela il segreto di questa felicità nel fatto di assomigliare a Dio stesso. L’apostolo ci ricorda che <Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!> (Rm 11, 32). Il banchetto di cui si parla nel Vangelo non si limita così ad una questione di etichetta o di buona creanza, ma diventa il simbolo stesso del modo in cui Dio intrattiene una relazione di benevolenza con ciascuno dei suoi figli. Tutto ciò fa esultare Paolo: <O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie> (11, 33). L’esultazione dell’apostolo diventa, nella parola del Signore Gesù. un’indicazione assai concreta che ci rende capaci di trovare tutta la nostra felicità nel voler essere come il Padre dei cieli, simili al Padre di tutti: <Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio> (Lc 14, 12).

L’orizzonte in cui il Signore Gesù ci chiede di contestualizzare i nostri gesti e le nostre parole è quello della concretezza e della contingenza del tempo presente, ma con un’apertura sull’eternità capace di dare al nostro cuore ampiezza e profondità: <Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti> (14, 14).

Sfida

Commemorazione di tutti i fedeli defunti

Pregare per i defunti e commemorare la loro vita ci permette di fare memoria della loro presenza tra di noi proprio quando essi non possono più imporsi alla nostra attenzione. Questa pratica, che prima di essere “ecclesiale” è un modo distintivo di ogni umana civiltà che si sia emancipata da un livello più animale, non è semplicemente una pratica tradizionale della Chiesa e di tutta l’umanità, ma è una sfida ed una provocazione. Fare memoria dei defunti significa, infatti, sfidare la morte attraverso una fiducia nella vita che si fa fede nella risurrezione come possibilità inattesa di una possibile insurrezione dell’amore. Il grido di Giobbe diventa una sorta di manifesto della nostra coscienza di uomini e donne creati per l’immortalità intesa come pienezza di vita in una relazione che non può morire: <Sì io lo vedrò…> (Gvb 19, 26-27). Questo faccia a faccia sperato e quasi protestato da Giobbe non sarà come quello di Adamo ed Eva nel momento della loro paura e della loro cacciata dal giardino di Eden, ma come quello del figlio minore che torna a casa a testa bassa e viene invece accolto con tutti gli onori dell’amore fino ad essere motivo di <festa>. Laddove la morte viene avvertita come fine, la nostra fede la trasforma invece in un tempo intermedio di preparazione come ci ricorda il profeta Isaia quando dice che <preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande> (Is 25, 6>. 

Se il Signore sta preparando una pienezza di vita per ciascuno dei suoi figli, possiamo chiederci in che misura e soprattutto in che modo noi ci stiamo preparando alla morte non come interruzione della vita, ma come necessario passaggio della vita. Non si tratta certo, come si vede in alcune raffigurazioni antiche, di tenere in bella mostra sulla scrivania un teschio per meditare sulla fallacia della vita e di tanti suoi aspetti che riteniamo essenziali e, molto spesso, persino piacevoli. La sfida è di vivere in pienezza perché la morte ci trovi vivi e non già morti, perché la morte ci trovi pieni di desiderio di vita e non giù sazi o stufi o tutt’è due insieme. Sostare nella memoria dei nostri cari che ci hanno preceduto nel segno della fede e di una vita autentica significa fare la tara di quel <pungiglione> (1Cor 15, 56) che rischia di avvelenarci fino ad ucciderci: si tratta del pungiglione dell’ingratitudine e della superficialità.

La memoria del nostro modo di reagire alla presenza dei fratelli <più piccoli> (Mt 25, 40) accanto a noi e dentro di noi diventa così il criterio prima che della morte, della nostra vita che si fa preparazione e attesa operosa di un compimento che esige il necessario passaggio attraverso il mistero della morte. La preghiera per i defunti e il sostare sulle tombe dei nostri cari diventa così una piccola scuola di umanità per non cedere all’ingratitudine e alla superficialità. Dovremmo essere fedeli in prima persona a questa pratica, ma pure non dimenticare di trasmettere questa sapienza alle generazioni più giovani che rischiano di vivere in una tale oblio del mistero della morte, da cadere nella trappola dell’illusione.

Defi

Commémoration de tous les fidèles défunts –

Commémoration de tous les fidèles défunts. – Prier pour les défunts et commémorer leur vie nous permet de faire mémoire de leur présence parmi nous au moment où ils ne peuvent plus s’imposer à notre attention. Cette pratique qui, avant d’être «  ecclésiale » est un mode distinct de toute civilisation qui s’est émancipée d’un niveau plus animal, n’est pas simplement une pratique traditionnelle de l’Église et de toute l’humanité, mais c’est un défi et une provocation. Faire mémoire des défunts, signifie, en fait, défier la mort à travers une confiance dans la vie qui devient foi dans la résurrection comme la possibilité inattendue d’une possible insurrection de l’amour. Le cri de Jacob devient une sorte de manifestation de notre conscience d’hommes et de femmes crées pour l’immortalité comprise comme une plénitude de vie dans une relation qui ne peut mourir : «  Oui, je le verrai… » ( Jb 19, 26-27 ). Ce face-à-face espéré et presque protesté par Job ne sera pas comme celui d’Adam et d’Eve au moment de leur peur et de leur expulsion du jardin d’Eden, mais, comme celui du fils cadet qui revient à la maison, la tête basse, et est pourtant accueilli avec tous les honneurs de l’amour jusqu’à devenir motif de «  fête ». Là où la mort est désignée comme une fin, notre foi la transforme au contraire en un temps intermédiaire de préparation comme nous le rappelle le prophète Isaïe lorsqu’il dit «  Le Seigneur des armées préparera pour tous les peuples, sur cette montagne, un festin de mets succulents et de viandes grasses » ( Is 25, 6 ).

Si le Seigneur est en train de préparer une plénitude de vie pour chacun de ses fils, nous pouvons nous demander dans quelle mesure et, surtout, comment, nous nous sommes préparés à la mort, non comme une interruption de la vie, mais comme un passage nécessaire de la vie. Il ne s’agit, bien sûr, pas, comme on peut le voir dans certaines représentations antiques, d’écrire un texte, d’en faire un exposé pour méditer sur l’usage fallacieux de la vie et de tant de ses aspects que nous retenons comme essentiels, et souvent même agréables. Le défi consiste à vivre pleinement  afin que la mort nous trouve vivants et non déjà morts, pour qu’elle nous trouve pleins de désirs de vie et non désabusés et fatigués ou tous les deux ensembles. Conserver la mémoire de nos bien-aimés qui nous ont précédés dans le signe de la foi et d’une vie authentique signifie faire la tare de cet «  aiguillon » ( 1 Cor 15, 56 ) qui risque de nous empoisonner jusqu’à nous tuer : il s’agit de l’aiguillon de l’ingratitude et de la superficialité.

La mémoire de notre façon de réagir à la présence des frères «  les plus petits » ( Mt 25, 40 ) près de nous et en nous, devient ainsi le critère premier qui, dans la mort, par notre vie, est une préparation et une attente d’un accomplissement qui exige le passage nécessaire par le mystère de la mort. La prière pour les défunts et notre présence sur les tombes de nos bien-aimés, devient ainsi une petite école d’humanité pour ne pas céder à l’ingratitude et la superficialité. Nous devrons être les premiers, fidèles à cette pratique, tout en n’oubliant pas de transmettre cette sagesse aux générations les plus jeunes qui risquent de vivre dans un tel oubli du mystère de la mort, jusqu’à tomber dans le piège de l’illusion.

Al plurale

Tutti i Santi –

Spesso le rappresentazioni dei Santi che ornano le nostre chiese, per quanto belle, possono talora sembrare un po’ eccessivamente distaccate dalla realtà, tanto da rendere la santità qualcosa che non ci riguarda poi così tanto. La pagina del Vangelo che accompagna questa festa e ci aiuta ad entrare in un dinamismo di annuncio e di conversione che non ha nulla di idealistico e sembra quasi metterci al riparo da ogni rischio di idealizzazione di santità. Questo realismo di santità che possiamo cogliere nella pagina delle “beatitudini” che accompagna questa solennità ci rende come allergici ad ogni mielismo angelicato. Il messaggio sembra chiaro: si è santi insieme e lo si è nella misura in cui si è radicati nella realtà della propria vita. Così la santità diventa un vero lavoro che si manifesta come frutto della saggia e appassionata mediazione non solo delle nostre qualità umane e spirituali, ma anche dei nostri limiti e delle nostre ferite: <poveri… nel pianto… perseguitati>. Ciò che fa la differenza è la coscienza di quel <grande amore> che ci permette di <essere chiamati figli di Dio>, non solo con una sorta di nominalismo vuoto ma <realmente> (1 Gv 3, 3, 1).

A partire dalle parole dell’apostolo la santità coincide con la coscienza di una figliolanza accolta che fonda la nostra speranza di diventare ciò che siamo: <Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro> (3, 3). La santità non è uno stato, ma un dinamismo che va da un <fin d’ora> (3, 2) all’attesa di una pienezza che è ancora tutta da ricevere e da scoprire con rinnovata meraviglia. La domanda del vegliardo resta sospesa in attesa di una risposta che sia capace di illuminare ogni umano cammino fino a renderlo parte della stessa pienezza divina: <Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?> (Ap 7, 13). Si tratta di passare dalla santità desiderata alla povertà offerta e di farlo rigorosamente insieme senza abdicare al proprio ineludibile contributo personale alla storia di tutti. Il messaggio delle beatitudini ci ricorda che Dio è presente non aldilà della nostra realtà quotidiana, ma dentro la nostra fatica di vivere e di convivere in un amore che sa persino donarsi nella morte.

Così la santità evangelica non è perfezione morale che riguarderebbe una élite di privilegiati, ma è l’esperienza di quella grazia di filiazione da cui tutto può sempre ripartire verso la luce come ci fa pregare la Liturgia subito dopo la comunione: <O Padre unica fonte di ogni santità, mirabile in tutti i tuoi Santi, fa’ che raggiungiamo anche noi la pienezza del tuo amore, per passare da questa mensa eucaristica, che ci sostiene nel pellegrinaggio terreno, al festoso banchetto del cielo>. Meglio essere in cammino e un po’ sporchi, claudicanti, feriti e talora stufi, piuttosto che fermi e immobili su noi stessi. La santità del Vangelo sporca le mani e sporca, prima di tutto, i piedi con cui siamo chiamati a fare i passi necessari non solo per sopravvivere, ma, prima di tutto, per incontrarci e incoraggiarci a vicenda. Possiamo ben dire che <Certo per essere santi basta amare, ma si tratta di amare come il Signore ci ha amati. Ed è a questa misura senza misura, che la via della santità diventa così stretta ed esigente (cfr. Mt 7, 14)>1 senza mai essere impossibile se non per quanti si pensano in modo isolato.


1. J. HAGGERTY, Magnificat 264 (Novembre 2014) p. 48.

… secondo la carne

XXX settimana T.O. –

Quando Paolo pensa ad Israele e parla del popolo delle promesse, per quanto si lasci andare ad invettive ed esortazioni, lo fa con un grande attaccamento interiore a quel popolo che gli ha trasmesso tutto ciò che gli servì alla <piena conoscenza del mistero di Dio, cioé Cristo> (Col 2, 2). Per Paolo il senso più profondo della vocazione e della missione di Israele non è la trasmissione della Legge ma, attraverso la mediazione della Torah e la lunga e complessa tradizione di interpretazione e di pratica dei precetti, rendere possibile che il Verbo apparisse nel mondo <secondo la carne> (Rm 9, 5) “di” Israele. Questo è il motivo per cui il Signore Gesù ancora una volta non esita a rivolgersi <ai dottori della Legge e ai farisei> (Lc 14, 2) per porre – secondo le migliori tradizioni delle scuole rabbiniche – una domanda alla ricerca di una risposta che fosse compatibile con le Scritture e con la vita: <È lecito o no curare di sabato?>. Troppo in fretta noi cristiani disprezziamo i nostri fratelli maggiori dimenticando tutte le sottili disquisizioni che, per secoli, nella Chiesa hanno regolato i lavori leciti e illeciti nel giorno di domenica; naturalmente arrivando a permettere tutti i lavori intellettuali, escludendo – salvo per necessità –, tutti i lavori detti servili e interpretando così la Bibbia con le categorie di Aristotele più che con quelle di Gesù Cristo.

In realtà ciò che è di scandalo per alcuni e di liberazione per altri è proprio questo <secondo la carne> (Rm 9, 3.5) che Paolo sente profondamente nelle sue viscere fino a confessare: <ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua> (9, 2). Il segno di evangelica autenticità di tutto ciò sta proprio nella sua disponibilità ad essere egli stesso <anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli> (9, 3). Ecco svelato il mistero che ha stravolto e travolto la vita di Paolo sulla via di Damasco: essere sempre e solo <a vantaggio>! Ecco rivelato il cuore dell’evangelo di nostro Signore Gesù Cristo: <lo tirerà subito fuori> (Lc 14, 5). E se ci si prende cura di un <bue o di un asino> come si potrà rimandare anche solo di un giorno la restituzione della pienezza di vita ad una persona in un corpo sano e in una mente serena per quanto è nelle nostre possibilità?! Eppure, si deve riconoscere che siamo ancora affetti dalla tentazione di “angelismo”, dimenticando che ogni volta in cui non sappiamo metterci a servizio degli altri <secondo la carne> difficilmente potremo realmente raggiungerli e soccorrerli nel loro processo di liberazione interiore.

Ma come sarà possibile tutto ciò se non impariamo a vivere noi stessi e per primi <secondo la carne>, facendoci imitatori di Cristo Signore che l’ha assunta e abitata in modo così sano e santo? Ogni volta che la carne ci turba non è il segno che stiamo diventando più sensibili alle cose spirituali, ma è il segnale di quanto facciamo fatica a vivere secondo il Vangelo di Gesù Cristo il quale <si è incarnato nel seno della Vergine Maria per noi e per la nostra salvezza>. Ogni volta che cerchiamo di risorgere con lui <secondo le scritture> abbiamo il dovere di verificare se abbiamo assunto fino in fondo la nostra carne, la nostra storia, la nostra realtà nella sua totalità per celebrare quelle nozze mistiche che sono appunto la serena congiunzione del corpo e dello spirito. La parola dell’apostolo risuona chiara: <Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa> (Ef 5, 29). Una sola conclusione è possibile: <non potevano rispondere nulla a queste parole> (Lc 14, 6).