Promesso

XXVIII settimana T.O. –

L’apostolo Paolo scrivendo ai Romani insiste, sin dalla prima riga, di questo testo fondamentale per l’intelligenza e la pratica della fede, su ciò che è stato <promesso> (Rm 1, 1). L’apostolo più “giudaico” come formazione teologica e pratica, si rivolge ai discepoli della comunità di Roma molti dei quali vengono da una delle comunità ebraica più insigne del tempo. Per questo l’apostolo fa appello all’orizzonte dell’attesa e della continua apertura al compimento delle divine promesse che caratterizza l’atteggiamento della tradizione di Israele. Il Signore Gesù sembra profondamente ferito dalla resistenza che i suoi interlocutori oppongono alla sua parola scambiando la promessa con il semplice soddisfacimento dei propri desideri e dei propri bisogni. Per questo si lamenta in modo acuto che interpella anche la nostra fede e il nostro modo di accogliere la grazia della chiamata ad accogliere il Vangelo come apertura al compimento delle promesse divine ben aldilà delle nostre stesse attese e speranze: <Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno…> (Lc 11, 29).

Le folle che si accalcano attorno a Gesù desiderano e si aspettano un segno forte ed inequivocabile che attesti la sua messianicità e coroni il felice matrimonio tra le loro attese e il compimento attraverso la presenza di Cristo in mezzo a loro. Il riferimento a Giona e alla regina di Saba diventa per il Signore il modo per richiamare l’attenzione dei suoi ascoltatori sul mistero della sua persona che non va accolta a partire dai propri bisogni e attese, ma come la via per ricentrare e ricomprendere i propri bisogni e le proprie attese. Quando Paolo inizia a scrivere la sua Lettera più impegnativa e chiara a livello teologico dopo avere evocato ciò che è stato <promesso> subito chiarisce la via della realizzazione di queste promesse: <riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti> (Rm 1, 3-4). Tutta la <grazia> (1, 5) di scoprirsi <chiamati> (1, 6) e <amati da Dio> (1, 7) radica nel mistero dell’incarnazione che si manifesta pienamente nell’esperienza pasquale di Cristo. 

Il <segno> è la carne di Cristo che si è donato per noi fino ad assumere la debolezza estrema della croce che si fa <giudizio> (Lc 11, 31-32) e parametro di ogni nostra ricerca e di ogni nostra apertura all’incontro con il Signore Gesù che fa fatto di Paolo non solo un apostolo, ma prima di tutto un <servo di Cristo Gesù> (Rm 1, 1) proprio come il suo Maestro e Signore. E’ come se oggi qualcuno scrivesse su un quotidiano di una delle grandi metropoli del mondo come Londra o New York parlando di ciò che è avvenuto in un angolo sconosciuto del pianeta. In una Roma pullulante di dottrine e di religioni che assicurano la salvezza e la felicità, Paolo scrive parlando di Gesù, del vangelo, della grazia, della chiamata con l’inconfondibile sigillo cristologico: l’incarnazione e il dono pasquale. Essere discepoli del Signore Gesù è comprendere il <segno> del suo abbassamento come la porta della vita che realizza ciò che è stato <promesso>.

Urgentismo

XXVIII Domenica T.O.

Il Signore Gesù non fa nessun gesto eclatante nei confronti di questi lebbrosi che, insieme, gli chiedono di essere guariti. Non solo nessun gesto “miracolante”, ma neppure l’uso di una parola potente che possa impressionare. C’è semplicemente il rimando alla normalità prevista dalla Torah: <Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti> (Lc 17, 14). Naaman si lamenta della grande semplicità del comando del profeta Eliseo tanto che, dopo un così lungo viaggio, <scese e si immerse nel Giordano sette volte> (2Re 5, 14). I lebbrosi che vanno incontro al Signore, invocandolo con urgenza, avrebbero da lamentarsi ancora di più. In realtà la guarigione di Naaman e dei dieci lebbrosi avviene non per la potenza di un gesto o per l’incantesimo di una parola, bensì per la capacità     di assumere, come parte della vita, la propria fragilità e la propria vulnerabilità. L’evangelista Luca sottolinea che i lebbrosi <mentre andavano, furono purificati>. Così come Naaman ritrovò <il corpo di un ragazzo> proprio nel momento in cui accettò di immergersi nel Giordano come un bambino che si mette a giocare con l’acqua.

Le aspettative di Naaman nei confronti di Eliseo e quelle dei lebbrosi che <dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!> (Lc 17, 13), devono essere purificate radicalmente per poter aprire la strada ad una guarigione che sia capace di toccare e trasformare tutta la persona. Il primo passo di questa purificazione è di non cedere alla fretta e di non lasciarsi prendere da un’urgenza eccessiva: ogni terapia non ha solo bisogno delle medicine, ma pure del tempo necessario perché esse possano fare effetto. Tutti e dieci i lebbrosi si mostrano capaci di obbedire alla parola del Signore Gesù, ma solo uno torna indietro per ringraziare. Per gli altri nove, in realtà, è avvenuta la guarigione senza che sia cambiata la percezione di Dio, tanto che riterranno che tutto sia avvenuto come previsto dalla Legge, dimenticandosi della relazione intercorsa con il Signore Gesù. Solo il samaritano si mostra sensibile alla possibilità di vivere la guarigione come possibilità di entrare in una relazione che sia meno <a distanza> (17, 12). Pertanto solo a questa distanza ravvicinata sarà possibile sperimentare, quanto e come, <la Parola di Dio non è incatenata> (2Tm 2, 9) e, per questo, capace di liberare pienamente.

È solo dopo questo cammino di ritorno che la parola può risuonare in tutta la sua forza e la sua pienezza: <Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!> (Lc 17, 19). Si potrebbe dire che, alla fine, si rivela come solo uno di questi lebbrosi desiderasse incontrare un salvatore mentre agli altri nove fosse sufficiente sperimentare un “salvataggio”. Se il salvataggio avviene sempre in una modalità di urgenza, la salvezza ha bisogno di tempi di realizzazione che sono i tempi propri di una relazione che matura. In tal senso il lebbroso samaritano è della stessa pasta della samaritana che tornerà al villaggio, senza più anfora, facilitando l’incontro di tutti con <il salvatore del mondo> (Gv 4, 42). Proprio perché samaritano, questo lebbroso comprende più profondamente degli altri che la dose di assoluta gratuità e benevolenza non è un diritto che viene dalle leggi del tempio, ma è il segno di un amore colmo di estrema compassione che cambia il cuore: <si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo> (Lc 17, 16). Per gli altri è stato sufficiente prostrarsi in quel tempio in cui il samaritano, in realtà, non poteva entrare. L’esperienza della guarigione conferma i nove lebbrosi nella loro attitudine religiosa, mentre apre per il samaritano la via dell’adesione personale… la porta della fede.

Très urgent

XXVIII Dimanche T.O. –

Le Seigneur Jésus ne fait aucun geste éclatant face à ces lépreux qui, ensemble, lui demandent d’être guéris. Non seulement aucun geste «  miraculeux », mais, pas non plus l’usage d’une parole puissante qui pourrait impressionner. C’est simplement le rappel à la normalité prévue par la Torah : «  Dès qu’il les vit, Jésus leur dit : «  Allez vous présenter aux prêtres » ( Lc 17, 14 ). Naaman se plaint de la grande simplicité du commandement du prophète Elisée, pourtant, à la fin, après un si long voyage, «  il descendit et s’immergea dans le Jourdain sept fois » ( 2 R 5, 14 ). Les lépreux qui vont à la rencontre du Seigneur, en l’invoquant avec urgence, auraient de quoi se lamenter encore d’avantage. En réalité, la guérison de Naman et des dix lépreux se réalise, non par la puissance d’un geste ou par l’incantation d’une parole, mais plutôt par la capacité d’assumer, comme faisant partie de la vie, leur propre fragilité et leur propre vulnérabilité. L’évangéliste Luc souligne que les lépreux «  furent purifiés alors qu’ils s’en allaient ». Tout comme Naaman qui retrouva «  le corps d’un jeune homme » juste au moment où il accepta de s’immerger dans le Jourdain comme un enfant qui se met à jouer avec l’eau.

Les attentes de Naaman face à Elisée et celles des lépreux qui «  disaient à haute voix : ‘ Jésus, Maître, aie pitié de nous ! «  ( Lc 17, 13 ), doivent être purifiées radicalement pour pouvoir ouvrir le chemin à une guérison capable de toucher et transformer toute la personne. Le premier pas de cette purification est de ne pas céder à la rapidité et de ne pas se laisser  prendre par une urgence excessive :  chaque thérapie a besoin, non seulement de médicaments, mais aussi du temps nécessaire pour qu’elle puisse agir. Tous les dix lépreux se montrent capables d’obéir à la parole du Seigneur Jésus, mais une seule retourne en arrière pour remercier.  En réalité, pour les autres neuf, la guérison est arrivée sans que la perception de Dieu soit changée, de telle façon qu’ils retiendront que tout est arrivé comme cela est prévu par la Loi, en oubliant la relation intervenue par le Seigneur Jésus. Seul le samaritain se montre sensible à la possibilité de vivre la guérison comme une opportunité d’entrer dans une relation qui soit moins «  à distance » ( 17, 12 ).  Pourtant, c’est seulement à cette distance rapprochée qu’il sera possible d’expérimenter, combien et comment, «  la Parole de Dieu n’est pas enchaînée » ( 2 Th 2, 9 ) et, pour cela, capable de libérer pleinement.

C’est seulement après ce chemin de retour que la parole peut résonner en  plénitude de toutes ses forces : «  Lève-toi et va ; ta foi t’a sauvé ! » ( Lc 17, 19 ). L’on pourrait dire, qu’à la fin, seul l’un de ces lépreux désirait rencontrer un sauveur, alors que  pour les neuf  autres, l’expérience d’un «  sauvetage » était suffisante. Si le sauvetage arrive toujours d’une façon urgente, le salut  a besoin d’un temps de réalisation, qui est le temps adéquat pour permettre à une relation de mûrir. Dans ce sens, le lépreux samaritain est de la même pâte que la samaritaine qui retourna au village, sans son amphore, facilitant la rencontre de tous  avec « le sauveur du monde » ( Jn 4, 42 ). Parce qu’il était samaritain, ce lépreux comprend plus profondément  que la dose d’écoute gratuite et bienveillante de la part des autres, n’est pas une droit qui vient des lois du temple, mais c’est le signe d’un amour, sommet d’une extrême compassion qui change le coeur : «  il se prosterna  aux pieds de Jésus, pour le remercier » (Lc 17, 16 ). Pour les autres, il était suffisant de se prosterner dans un temple où le samaritain, en réalité, ne pouvait entrer. L’expérience de guérison confirme les neuf lépreux dans leur attitude religieuse, alors que, pour le samaritain, elle ouvre  la voie de l’adhésion personnelle…la porte de la foi.

Fortezza

XXVII settimana T.O. –

C’è di certo una punta d’invidia nelle parole entusiaste di questa donna che non riesce a trattenere la sua ammirazione per Gesù tanto da mettersi a gridare, perché tutti la sentano proclamare e dire che colei che lo ha portato nel grembo è la donna più fortunata del mondo: <Beato il grembo che ti ha portato e il senso che ti ha allattato!> (Lc 11, 27). Anche a noi capita di renderci conto di alcuni risultati e di alcune mete raggiunte nella vita da persone che incrociano i nostri cammini, persone che riteniamo più fortunate di noi, le ammiriamo e anche un po’ le invidiamo, non riuscendo talora a spiegarci come mai certe cose siano potute capitare agli altri e non a noi. Così pure, non raramente, siamo talmente impressionati da ciò che di buono e di bello capita nella vita degli altri da sottovalutare e persino da non vedere per niente quello che sta accompagnando e segnando la nostra stessa vita grazie a realtà non meno importanti e significative.

Dal vangelo che oggi la Liturgia ci fa leggere, conosciamo la risposta del Signore Gesù alle parole di questa donna e forse potremmo chiederci che cosa avrebbe   risposto la madre di Gesù a lei e a noi che forse nutriamo i suoi stessi sentimenti. In realtà possiamo, per così dire, risalire fino alla risposta di Maria, proprio a partire dalle parole di suo Figlio, mettendole sulle labbra stesse della madre: <Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano> (11, 28). Per comprendere tutta la portata e le esigenti implicazioni di questa parola, ci viene in aiuto il profeta Gioele. Un testo come quello che troviamo nella prima lettura di quest’oggi rischia di infastidirci perché contrasta con l’immagine entusiastica della nostra relazione con Dio, mettendoci di fronte alle esigenze che comporta il camminare per le sue vie: <Date mano alla falce, perché la messe è matura; venite, pigiate, perché il torchio è pieno e i tini traboccano, poiché grande è la loro malvagità> (Gl 4, 13).

Siamo obbligati a chiederci che cosa mieterebbe o vendemmierebbe il Signore se oggi, proprio oggi, senza rimando alcuno, venisse a raccogliere il frutto della nostra esistenza? La promessa di Dio, per mezzo del suo profeta suona così: <Ma il Signore è un rifugio per il suo popolo, una fortezza per gli Israeliti> (4, 16). Forse proprio questo fu il segreto della madre di Gesù: fare della sua presenza a Dio, nell’ascolto e nell’obbedienza interiori, una vera <fortezza> nel duplice senso della virtù e del luogo. In ambedue i casi la <fortezza> rimanda ad una certa solitudine e ad una particolare austerità di perseveranza, nella lunga attesa di tempi apparentemente morti in cui nulla sembra accadere. Essa rappresenta pure la sicurezza di tutti ed esige un lavoro assai costoso di attenzione e di vigilanza costante, un lavoro che passa e ripassa continuamente <nella valle della Decisione> (4, 14). Invece di accontentarci – per quanto entusiasticamente – di dichiarare beato il grembo di Maria, cerchiamo di fare della nostra esistenza un grembo gravido di attenzione alla vita… una fortezza!

Prova

XXVII settimana T.O. –

L’amara constatazione del profeta Gioele risuona in termini di nostalgia e, al contempo, di desiderio: <perché priva d’offerta e libagione è la casa del vostro Dio> (Gl 1, 13). Quella di Gioele potrebbe forse fungere da fondamento biblico a qualche campagna di raccolta fondi per i bisogni della chiesa e del suo clero o di altre iniziative simile ed è, invece, la rammemorazione di un dinamismo d’amore che esige sempre la disponibilità e l’esigenza del donare. La casa di Dio di cui il tempio è simbolo eloquentissimo non si può limitare ad essere il luogo del culto, ma si estende a tutti gli ambiti della vita e, in particolare, alla collaborazione generosa per dilatarne e sostenerne i percorsi che donano più vita e che sono in grado di dare, altresì, più senso ad ogni esistenza. Ed ecco che il gesto compiuto da Gesù che scaccia, ancora una volta, un demonio, scatenando una strana reazione da parte di quanti, per primi, avrebbero dovuto rallegrarsene: <E’ per mezzo di Beelzebùl, capo dei demoni, che egli scaccia i demòni> (Lc 11, 15). 

Per i farisei definire l’origine di qualcosa significa, in realtà, creare un legame e una reciproca connivenza cosicché, il Signore stesso, sarebbe alla fine un <demonio>. Nondimeno da parte del Signore Gesù vi è un atteggiamento che è agli antipodi di quello di Beelzebul. Egli, infatti, non cerca di disperdere e di contrappore, ma al contrario intende unire e creare una profonda solidarietà tra tutti coloro che hanno bisogno di aiuto e quanti possono sostenerli ed aiutarli nel loro cammino di liberazione. La solenne e ambigua affermazione che ritroviamo appena prima e che in forma inversa è rivolta al discepolo Giovanni (9, 50)  suona in questo caso così: <Chi non è con me, è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde>. (11, 23) Essa non va intesa come una dichiarazione di guerra, ma bensì come una proposizione che intende unire tutte le forze migliori affinché si oppongano all’opera disintegrante e mortificante del Maligno.

Il Signore Gesù sembra disapprovare ogni tentativo di contrapposizione ed invita a cogliere e a valorizzare ogni minimo <segno> (11, 16) che faccia sperare in un’aurora di maggiore e più autentica libertà per ogni uomo, per tutto l’uomo e per tutti gli uomini. Il rischio è, infatti, quello che, a forza di volere definire e sottilizzare, si lasci campo libero proprio a ciò che va energicamente arginato. Il pericolo più grande è che le cose peggiorino quando ci sarebbero tutte le condizioni, tanto che si dice: <Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima> (11, 26). In questo frangente ci è forse più chiaro l’invito di Gioele: <Suonate il corno in Sion e date l’allarme sul mio santo monte!> (Gl 2, 1). Diamo l’allarme per arginare tutto ciò che impedisce alla vita di crescere e di dilatarsi e, soprattutto, per neutralizzare e superare ogni sguardo malevolo poiché, per chi ha occhi e cuore come quelli del Signore Gesù la parola è vera: <Come l’aurora, un popolo grande e forte si spande sui monti: come questo non ce n’è stato mai e non ce ne sarà dopo, per gli anni futuri, di età in età> (2, 2).  

Un libro

XXVII settimana T.O. –

Il profeta Malachia si misura con la fatica di continuare a credere in un Dio che sembra troppo lontano e disinteressato alle nostre fatiche tanto da far giungere i suoi fedeli ad un’amara conclusione: <E’ inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comandamenti o dall’aver camminato in luto davanti al Signore degli eserciti?> (Mal 3, 14). Questo modo di sentire e di argomentare potrebbe anche scandalizzarci, nondimeno dobbiamo riconoscere che talora corrisponde esattamente al nostro modo di sentire che arriva a dire con dolore e persino con rabbia: <Dobbiamo invece proclamare beati i superbi che, pur facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti> (3, 15). Nella sensibilità del profeta questi discorsi e questi sentimenti che sembrano levarsi continuamente dalla terra per raggiungere il cielo, feriscono profondamente il cuore di Dio. I <timorati di Dio> (3, 16) prendono posizione e in certo modo cercano di consolare il cuore dell’Altissimo: <un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome>!

In questo libro potremmo scrivere con lettere di fuoco la parola che il Signore Gesù ci dona come conforto e luce nella <mezzanotte> (Lc 11, 5) del bisogno: <Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!> (Lc 11, 15). Lo Spirito in noi arde come fuoco che ci permette di rinnovare continuamente l’ardore della preghiera che non si arrende e che continua a bussare senza paura di disturbare. Il segno dell’autenticità di quest’attitudine è la capacità di lasciarsi disturbare a propria volta. Si tratta di imparare a servire Dio senza servirsi di Dio e questo esige la capacità di mettere in comune le proprie forze e le proprie fragilità. L’opera dello Spirito ci mette in condizione di osare partendo con la preghiera che è sempre la premessa di una vita che si lascia interpellare e disturbare fino a sapersi coinvolgere nel bisogno dell’altro.

Così siamo messi di fronte alla concretizzazione di quel <nostro pane> (Lc 11, 3) che se viene chiesto nella preghiera deve essere necessariamente condiviso nella vita. Solo così la preghiera che cambia il nostro cuore, sarà capace di trasformare silenziosamente, ma imperiosamente il mondo attorno a noi attraverso quelle piccole <cose buone> (11, 13) che sono il segno della presenza operante e vivificante dello <Spirito Santo> che, di certo, non ha paura del nostro eventuale essere o semplicemente sentirci <cattivi>. Per questo: <Dobbiamo cercare sempre il Figlio di Dio e dobbiamo sempre trovarlo, poiché chi lo cerca lo trova. Poiché Dio cerca la terra, ama la terra, desidera convertirmi ora, non al cielo, ma alla terra, e ivi cercare Gesù Cristo>1. Del resto, l’amicizia non è altro che un modo, molto umano, eppure così divino per aprirsi ad una relazione in cui chiarezza e complicità si rincorrono con naturalezza e senza alcuna vergogna. Forse è uno dei tratti della stessa vita trinitaria che si riflette nella nostra umana compagnia come in un libro.


1. P. de BERULLE, Lettera 143, 1-2.

Pietà

XXVII settimana T.O. –

Certo il cuore dell’uomo – il nostro cuore! – non finisce mai di stupire. Giona, al colmo della sua collera per dover convertire se stesso prima di pretendere di farsi predicatore di conversione, arriva a rimproverare l’Altissimo di ciò di cui dovrebbe solo benedirlo e ringraziarlo: <perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato> (Gn 4, 2). Non ci capiti di liquidare troppo in fretta la collera di Giona come se fosse qualcosa che non ci appartiene. Se, infatti, guardiamo con attenzione e onestà dentro il nostro cuore, ci rendiamo ben conto di quanto e di come non così raramente la pietà e la compassione ci turbano e, talora, persino ci indispettiscono. Al Signore non resta che mettere Giona in condizione di capire il suo cuore, facendogli provare in prima persona il dolore di una perdita. Quella della <pianta di ricino> (4, 6) ha tutta l’aria di essere una parabola nella parabola e vuole essere la sintesi di tutto il messaggio di questo libretto biblico con cui si tenta di aprire gli occhi dei figli di Israele su se stessi, liberandoli dalla tentazione di un esclusivismo saccente e spietato.

Le parole che il Signore Dio rivolge a Giona sono ancora oggi rivolte ad ogni comunità di fede che rischia di blindarsi invece di aprirsi: <Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non ha fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive…?> (4, 10-11). L’interrogazione che l’Altissimo presenta a Giona quasi per giustificare la compassione e la pietà potrebbe essere posta come esergo alla preghiera del Padre Nostro con cui il Signore Gesù risponde alla domanda di uno dei suoi discepoli al cui cuore troviamo questa esigentissima invocazione: <e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore> (Lc 11, 4). L’evangelista Luca ci tiene a distinguere accuratamente quelli che sono i <nostri peccati> da ciò che abbiamo in sospeso con ogni <nostro debitore>!

La preghiera così come ci viene insegnata dal Signore Gesù e di cui Egli è modello è un lavorare su se stessi per curare una relazione con Dio che ci curi dalle nostre derive e ci liberi dalle nostre paure. Quando preghiamo dicendo <e non abbandonarci alla tentazione> (11, 4), non dobbiamo pensare a chissà cosa, ma siamo chiamati ad interrogarci rigorosamente sulla memoria di questa distinzione fondamentale tra il <peccatore> che siamo e il <debitore> che abbiamo davanti a noi. Il pane <epiousion> che chiediamo con insistenza è un pane tanto quotidiano quanto raro. Si tratta, infatti, a partire da questo termine raro su cui dibattono gli specialisti si tratta del pane necessario alla sussistenza, ma può essere inteso pure come il pane <per oggi> o ancora il pane <per domani>. In una parola potremmo dire che è il pane della pietà che riceviamo e del perdono che sappiamo donare senza il quale la vita non sarebbe possibile. Come ricorda padre Radcliff: <Noi chiediamo perdono non perché siamo radicalmente cattivi, ma perché siamo fatto per ciò che è fuori da ogni attesa. Abbiamo bisogno del perdono, ma sappiamo che il perdono è dato ed è stato dato ben prima che noi avessimo peccato: dobbiamo solo accoglierlo>1.


1. T. RADCLIFF, Faites le plongeon, Cerf, Paris 2012, pp. 198-199.

Marta e… Giona

XXVII settimana T.O. –

Al cuore della prima lettura vi è una sorta di perla evangelica che può dare al nostro cuore di creature sempre alle prese con le nostre povertà e con le nostre paure una grande speranza: <e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece> (Gn 3, 10). Il libretto di Giona è per noi una sorta di continuo incoraggiamento alla speranza. La speranza è sempre legata alla fiducia nel fatto che la vita non è semplicemente legata a leggi inesorabili che ci sovrastano in modo necessario e meccanico, ma sono il frutto dell’esercizio di una libertà capace di osare sempre il cambiamento. Il fatto che l’Altissimo sia capace di cambiare e di favorire il nostro cambiamento è veramente una bella notizia. La lettura di un testo caro come quello del passaggio di Gesù nella casa di Betania, ci fa comprendere come la conversione non è solo necessaria a <Ninive> (3, 3), ma è sempre doverosa anche in ogni nostro piccolo <villaggio> (Lc 10, 38). Per molti aspetti Giona e Marta si assomigliano; per molti aspetti – a ben guardare nel nostro cuore – ciascuno di noi rischia di assomigliare forse più di quanto desidererebbe a Marta e a Giona.

Sia Giona che Marta sembrano partire dal presupposto di sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa vada fatto e cosa, invece, vada evitato. Danno così l’impressione che per loro sia anche chiaro il modo in cui tutto debba essere fatto perché ogni cosa sia al suo posto e sia fatto nel modo adeguato. Come Giona ha le sue idee sugli abitanti di Ninive, così Marta ha la sua idea – chiara e nitida – su come si dovrebbe accogliere il Signore tanto da non avere nessun pudore nel disturbare l’incanto dell’incontro di Maria con Gesù: <non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti> (10, 40). Marta non ha nessun dubbio sul fatto di avere ragione e di conoscere il modo giusto di comportarsi. Proprio come Giona non aveva molti dubbi su quella che sarebbe stata la reazione degli abitanti di Ninive alla sua predicazione. Eppure, non sempre le cose vanno come noi pensiamo e come abbiamo programmato e immaginato. 

Infatti, contrariamente alle attese di Giona, <i cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono in digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli> (Gio 3, 5). Per quanto riguarda Maria, la reazione del Signore Gesù non lascia scampo: <Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta> (Lc 10, 41-42). Dopo la parabola del buon samaritano e l’invito ad esercitare una compassione fattiva e concreta, sembra che il Signore Gesù ci voglia rivelare il luogo dove possiamo e dobbiamo imparare questa necessaria compassione: <seduta ai piedi del Signore> (10, 39)!

In una parola potremmo dire che se la prima lettura ci parla della necessità della conversione dei pagani, il Vangelo ci ricorda che la conversione è una necessità continua della vita e, talora, è persino più difficile per i “santi” immaginare fino ad acconsentire alla conversione tanto da imitare il re pagano di Ninive il quale si <mise a sedere sulla cenere> (Gio 3, 6). Non è mica vero che stare seduti sia automaticamente sinonimo di riposo e che agitarsi in mille cose sia, sempre, il segno di una grande compassione e di una grande attenzione. Bisogna essere prudenti nelle nostre valutazioni e sensibili al modo di fare e di sentire degli altri senza accontentarsi di essere sospettosi.

Invece

XXVII settimana T.O. –

Sentiamo tutto il peso unitamente ad una profonda comprensione per quella che è la reazione di un uomo che viene scomodato dall’appello del Signore per coinvolgersi nella storia e nella vita di persone così lontane e così estranee: <Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore> (Gn 1, 3). C’è sicuramente una parte di noi che continuamente fugge lontano dal Signore ogni volta che prendiamo la via della fuga in relazione a tutto ciò che lega la nostra vita ad un cammino reale di coinvolgimento e di presa in carico di responsabilità. Sulla nave su cui Giona si imbarca per sottrarsi allo scomodo appello di andare a immischiarsi nella vita degli abitanti di Ninive senza nessuna garanzia di riuscita. Il potenziale profeta imparerà sulla sua pelle che cosa significhi non sentirsi legati gli uni agli altri da una dolce catena di solidarietà che si esprime in quella domanda accorata e imbarazzata: <Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?> (1, 11). La risposta di Giona è automatica: <Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che è ora contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia> (1, 12).

Detto fatto, Giona sarà gettato in mare secondo quanto egli stesso ha detto di fare. Il testo però continua: <Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona> non solo <E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia> (2, 1-2). L’<invece> di Giona si scontra con il <Ma> di Dio. Quando Giona dice ai marinai di gettarlo in mare ragiona con la sua logica sufficientemente ferrea per non vedere che la possibilità di scaricare o di essere scaricati. Negli abissi del mare e nel ventre della famosa balena che tutti ci fa un po’ sognare, Giona deve imparare che c’è un altro modo di sentire e di reagire che non è quello di scaricare i problemi degli altri fuggendo davanti ad essi, ma di sapersene fare carico proprio come l’Altissimo che si prende cura e non abbandona. 

La casualità dell’accostamento delle letture non potrebbe essere più felice. Giona sembra, infatti, un antesignano di quel <sacerdote> e di quel <levita> (Lc 10, 31-32) che davanti ad un uomo <mezzo morto> (10, 30) non si sentono né obbligati né spinti a fermarsi, ma passano <oltre> quasi per fedeltà alla loro “vocazione” e al loro “ministero” che non prevede incedenti sulla strada. Anche in questo caso risuona un altro <Invece>. Si tratta di <un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione> (10, 33). Come le correnti del mare e, ancor più, come le correnti del nostro cuore due <Invece> si incontrano e si scontrano. Vi è una parola che ci viene consegnata dal Signore Gesù e cui siamo chiamati a rispondere con la concretezza della nostra vita: <Va’ e anche tu fa così> (10, 37). Come il Samaritano certo, ma anche come Giona che mentre è chiamato a predicare la conversione deve fare prima di tutto un personale e radicale cammino di conversione che è una vera inversione di marcia nel modo di concepire e di rischiare la vita.

Soddisfatti

XXVII Domenica T.O.

Di certo la parabola che il Signore Gesù racconta come risposta all’invocazione dei discepoli che chiedono il suo aiuto può anche turbarci. Infatti, a prima vista, questa parabola non può che essere fastidiosa con l’immagine di un padrone che sembra poter e voler spadroneggiare sui suoi servi cosicché questi debbano, più o meno serenamente, sottomettersi ed essere persino soddisfatti, senza nessun rispetto per se stessi e il loro lavoro. L’ordine finale è perentorio: <dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10). La domanda accorata dei discepoli è anche la nostra: <Accresci in noi la fede!> (Lc 17, 6). La risposta di Gesù che evoca l’immagine di un padrone alquanto prepotente nei confronti della servitù, certo contrasta fortemente con tutto ciò che siamo abituati a sentire nelle parole e nei gesti del Signore, come rivelazione dell’immagine di Dio. In realtà, a ben pensarci, la parabola non parla dell’Altissimo, ma, forse, parla proprio di noi.

Il soggetto dominante della parabola – che è la risposta del Maestro alla domanda sulla fede posta dai discepoli – non è il padrone con il suo comportamento, ma il servo – ciascuno di noi – con l’atteggiamento che maturiamo nei confronti della vita in relazione a Dio, a noi stessi e al mondo che ci circonda e di cui siamo custodi. Per riprendere l’esortazione dell’apostolo, la fede non sarebbe qualcosa che Dio ci può donare solo da parte sua, ma esige il lavoro appassionato di ogni giorno nel <ravvivare il dono di Dio> (2Tm 1, 6). Il profeta Abacuc che descrive lo scontro paradossale tra le due superpotenze del polo orientale che, al declino Assiro vede sorgere il nuovo impero babilonese, ricorda ai figli di Israele di non lasciarsi impressionare dalla forza e dalla potenza degli strapoteri mondani, ma di rimanere saldi aggrappandosi, per così dire, alle radici dell’Alleanza con Dio. Così, la conclusione del profeta, è una sorta di antidoto alla paura e, al contempo, alla tentazione di competere con l’avversario, usando gli stessi metodi della forza. Al contrario: <Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede> (Ab 1, 4).

Questo versetto ampiamente e radicalmente citato dall’apostolo Paolo, per fondarvi la sua teologia della grazia (Rm 1, 17; Gal 3, 11), conferma la parola del Signore Gesù, il quale ricorda ai suoi discepoli che la fede non va aumentata, ma va radicalizzata: <Se aveste fede quando un granello di senape…> (Lc 17, 6). Questa condizione assoluta diventa, nel seguito del testo, l’evocazione di questo servo che non fa le cose che gli sono richieste in uno spirito di asservimento, ma con una sorta di soddisfazione e di gioia. Il rapporto tra Dio e l’uomo non è quello di un datore di lavoro e di un salariato, ma è piuttosto quello dell’amore nuziale che si dona senza calcolare ed è tanto più felice quanto più si può dare con intensità e gratuità. Così il dono della fede è sempre pieno, come lo sono i gesti di un amore autentico. Si tratta di una pienezza che non è data una volta per tutte ma, per sua natura, è continuamente in crescita e lo è – prima di tutto e soprattutto – nella linea della profondità. Sempre uguale a se stessa, la fede, non potendosi accrescere quantitativamente, si può sempre approfondire in un dinamismo di perenne novità… proprio come l’amore.