Enfer

XXVI Dimanche T.O. –

Bien sûr, le thème de l’enfer n’est plus vraiment «  à la mode » et, grâce à Dieu, tout l’anecdotique traditionnel sur ce lieu de «  tourments » ( Lc 15, 32 ), décrit avec des particularités inquiétantes et révélatrices  d’une fantaisie débordante et risquée, a cédé la place à une plus grande austérité d’images avec l’avantage d’une plus profonde sensibilité des enjeux. L’enjeu est assez haut : le risque est de rater sa propre vie en temps et en éternité. Ce sens de l’échec et cette conscience d’avoir gaspillé cette grande occasion est le sentiment qui brûle et consume ce pauvre riche qui, à la fin, nous fait même pitié, combien doit-il alors faire pitié au Seigneur Jésus qui raconte cette parabole. Dans le chapitre précédent de son évangile, Luc nous a mis face à l’abysse de la miséricorde de Dieu qui se comporte comme un berger qui cherche sa brebis perdue, ou comme une femme qui n’a de repos que lorsqu’elle retrouve la drachme perdue, et comme un père qui n’arrête jamais d’agir comme tel. Mais nous voici maintenant confronter à l’autre face de la médaille : nous et notre façon de porter le mystère de la vie en relation à nous-mêmes, aux autres et à Dieu. L’exhortation de l’apôtre nous rappelle l’horizon le plus digne pour chacun d’entre nous : «  Toi, homme de Dieu, fuis tout cela, poursuis, au contraire la justice, la pitié, la foi, la charité, à la patience, la douceur » ( 1 Th 6 , 11 ).

Dans la parabole, il n’est pas dit que le riche était méchant et le pauvre bon : simplement, il y a cette «  porte » ( Lc 16, 20 ) sur la terre qui devient ensuite un «  grand abysse » ( 16, 26 ) au ciel. Le vrai problème du riche est de ne pas avoir vu le pauvre et, au ciel, il demande à être vu, mais par qui – dans ce cas précis Lazare – dont il ne pourrait même pas reconnaître le visage : son visage  est toujours resté blindé à l’intérieur, pendant qu’il faisait « bombance » ( 16, 19 ) . Le message est clair et simple : comment peut-on penser se voir et se rencontrer au ciel si l’on ne s’est jamais rencontrés, ni même croisés sur la terre. Le riche n’est pas un insensible, vu sa préoccupation pour ses bien -aimés «  cinq frères » ( 16, 28 ), mais c’est quelqu’un de superficiel qui a oublié le « septième » de ses frères, qui est justement Lazare. Ainsi, pour se riche, s’applique à merveille la parole du prophète : « Allongés sur leur divan, il mangeaient… chantonnaient… buvaient le vin dans de larges coupes et s’enduisaient d’onguents les plus raffinés, mais ne se préoccupaient pas de la ruine de Joseph » ( Am 6, 4-6 ). C’est comme si l’on n’avait pas le temps de se préoccuper de se qui se passe devant «  la porte », là où l’on pourrait apprendre à être humains même pour les «  chiens » – Lc 16, 21 ). Le riche ne voit rien, n’a d’yeux pour personne sinon pour lui !

Certes : la réaction d’Abraham est forte, même sans pitié, mais c’est une façon de mettre en garde du danger de tomber dans une sorte d’anesthésie spirituelle que l’on utilise chaque fois que nous ne lisons plus notre vie  – dans l’abondance et la pauvreté – surtout et toujours «  face à Dieu qui donne vie à toute chose et à Jésus Christ qui a donné son beau témoignage devant Ponce Pilate «  ( 1 Th 6, 13 ). Le remède à l’anesthésie spirituelle est de «  conserver sans tache et de façon irréprochable le commandement » ( 6, 14 ), en nous ouvrant ainsi à une «  anastasie » déjà maintenant sur terre. Au lieu de rester allongés, ( Am 6, 4 ), nous devons nous lever et traverser cette «  porte » blindée qui risque d’être notre pierre tombale pour l’éternité, en révélant, en réalité, à quel enfer nous nous sommes condamnés nous-mêmes par une très triste négligence.

Misurare

XXV settimana T.O. –

La parola del profeta Zaccaria può aiutarci a leggere con un’intelligenza del tutto particolare le brevi, ma così intense parole del Signore Gesù che troviamo nel Vangelo. Continua, infatti, la catechesi ai discepoli attraverso cui il Signore cerca di aprire il cuore dei suoi al mistero pasquale: <Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini> (Lc 9, 44). Questa sorta di protesta da parte di Gesù, cerca di arginare l’entusiasmo delle folle cui certo non è estraneo il sentimento dei discepoli che non solo si sentono lusingati dal successo pastorale del loro Maestro, ma pure immaginano e desiderano di poter essere partecipi di un suo eventuale trionfo messianico. Il testo è particolarmente chiaro e mette in tutta evidenza il rischio – mai veramente superato – di un malinteso che minerebbe la stessa missione di Cristo venuto a rivelare un volto di Dio per nulla compiacente con le nostre immaginazioni su di Lui: <Mentre tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva…> (9, 43b); il Signore ricorda ai suoi il dovere di <misurare> (Zc 2, 5), in tutte le sue dimensioni ed implicanze, il suo mistero pasquale.

Potremmo chiederci, alla luce delle parole del profeta Zaccaria, quale potrebbe essere la <fune> da tenere sempre <in mano> per non perdere il contatto con la verità e le implicanze di un’autentica interpretazione del mistero di Cristo. Nel passo del vangelo di Luca, che leggiamo oggi nella Liturgia, è chiaro che l’elemento discriminante, da parte di Gesù, è la coscienza e quasi la volontà di <essere consegnato> (Lc 9, 44). Laddove le folle e i discepoli immaginano e si aspettano, da parte del Signore, un atteggiamento di potenza attiva e propositiva che estenda e in certo modo amplifichi quasi all’infinito <le cose che faceva>, il Signore Gesù contrappone la sua coscienza che si fa scuola di coscienza per i suoi discepoli, di essere venuto al mondo per rivelare altro… per dire Dio in modo compatibile con la sua essenza che è un amore sempre più <consegnato>.

In quell’ <uomo con una fune in mano per misurare> (Zc 2, 5) possiamo identificare noi stessi. Alla risposta per certi aspetti sbarazzina: <Vado a Gerusalemme per vedere qual è la sua lunghezza e qual è la sua larghezza>, corrisponde un invito a misurare, in un altro senso, quello della profondità abissale che è la consegna di sé umile ed inerme. Per questo il profeta rettifica: <Gerusalemme sarà priva di mura, per la moltitudine di uomini e di animali che dovrà accogliere> (2, 8). Nessuna difesa, bensì una pura e così disarmata consegna di sé da essere disarmante. Forse anche noi, come e più dei discepoli, abbiamo <timore di interrogarlo su questo argomento> (Lc 9, 45). Nondimeno, prima o poi, la vita ci costringerà a farlo e, forse, duramente, per <misurare> il nostro grado di compatibilità con il mistero di Cristo Signore che per noi si è <consegnato>. Il mistero che vela tutto ciò non può essere svelato dalla comprensione fredda dell’intelligenza, ma solo da una condivisione – piena ed esistenziale – del medesimo cammino di Gesù che rivela il Padre.

Severamente

XXV settimana T.O. –

Sembra proprio che, a distanza, il Signore Gesù si lasci toccare – e quasi interpellare – dal desiderio che Erode nutriva di <vederlo> (Lc 9, 9). Come è stato evocato nella meditazione di ieri, questo desiderio sarà coronato al mattino della Passione, quando il Signore sarà condotto, per ordine di Pilato, davanti ad Erode che non sarà in grado di vedere in Lui nulla di quello che aveva immaginato. Il Signore Gesù, con la sua consueta e acutissima sensibilità, si rivela capace di prendere in seria considerazione persino il desiderio di Erode e ne fa l’occasione per interrogare i suoi discepoli sulla sua identità, dopo essersi interrogato,  profondamente e personalmente. Infatti, il contesto della domanda è esplicitamente e chiaramente delineato da Luca, come in altre occasioni importanti del suo ministero e della sua rivelazione al mondo, ed è sempre preceduto da una presa di coscienza personale: <si trovava in un luogo solitario a pregare> (9, 18).

Dalla preghiera e nella preghiera nasce la duplice domanda: <Le folle, chi dicono che io sia?> (9, 19) cui segue quella più diretta: <Ma voi chi dite che io sia?> (9, 20). Normalmente quando simili domande vengono poste, sia nel segreto e nell’intimità del cuore, come in modo pubblico, si presume che ci sia un bisogno di immagine e di visibilità. Per il Signore Gesù è esattamente il contrario: <Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno> (9, 21). La severità è di rigore, perché troppo facile è il rischio di cadere in qualche grave malinteso nella comprensione del mistero di Cristo e nell’esperienza dell’essere suoi discepoli. Ancora oggi non è raro che il sentimento religioso si ammanti di un’aura miracolistica e di manifestazioni sensazionali, non raramente pagate col prezzo di pratiche ascetiche assai esigenti, ma che rischiano di contraddire il senso profondo del mistero pasquale.

Pietro risponde alla domanda di Gesù con quel solenne e verissimo: <Il Cristo di Dio> (9, 20)! Se l’apostolo dice la verità sull’identità del Signore, usa comunque un linguaggio mai sufficientemente purificato da attese messianiche gloriose e risolutorie di problemi e di angosce che, in realtà, non potrebbe portare che a delusione. Mentre le folle, nella stessa logica mistificante ed empia, così simile a quella di Erode che dice come Gesù possa essere <uno degli antichi profeti che è risorto> (9, 19), il Signore Gesù afferma invece di dover <venire ucciso e risorgere il terzo giorno> (9, 22). In tal modo il Maestro apre gli occhi di suoi discepoli su un cammino che è tutto da vivere e da morire. Questo ha delle conseguenze assai importanti per la stessa vita dei discepoli che desideriamo diventare: la relazione con il Signore Gesù esige, anche per noi, un processo che non sta dietro alle nostre spalle, ma è davanti a noi e non può che essere percorso <severamente> (9, 21). Ciò che il profeta Aggeo dice in riferimento alla costruzione del Tempio, può essere applicato al lavoro interiore di conformazione al mistero pasquale di Cristo, un lavoro che esige molto più <coraggio> (Ag 2, 4).

Per mezzo

XXV settimana T.O. –

Per due volte troviamo, nella prima lettura, la sottolineatura del fatto che il Signore si rivolge al suo popolo <per mezzo del profeta Aggeo> (Ag 1, 1 e 3). Si respira, in un momento delicato come sicuramente fu il tempo della ricostruzione del Tempio a Gerusalemme, un’atmosfera non solo di operosità e di entusiasmo, ma soprattutto – e fondamentalmente – si avverte una non trascurabile sensibilità e docilità. Perché la storia possa andare avanti e il cammino proseguire felicemente verso la sua meta, è necessario accettare tutte le mediazioni che si rendono necessarie e a cui bisogna prestare attenzione perché si possa attuare un sereno e fattivo discernimento. La mediazione del profeta evocata per due volte, anche per ben due volte si fa esortazione ad un’attenzione che si tenga lontana da ogni distrazione: <Riflettete bene sul vostro comportamento…> (1, 5 e 7). Siamo così posti in quella che è l’attitudine giusta se non vogliamo smarrirci sulla strada dei nostri desideri e dei nostri bisogni: ogni giorno siamo chiamati a porci davanti al mistero della vita e alle sue esigenze con attitudine ricettiva e accettando di dialogare e lasciarci interrogare e plasmare da tutte le mediazioni che la vita pone sul nostro cammino di ricerca.

Il rischio di cadere nella trappola di Erode è, infatti, sempre in agguato: <E cercava di vederlo> (Lc 9, 9). Questo però Erode lo desidera senza accettare di essere aiutato e guidato a vedere in modo giusto. Ciò esige sempre la disponibilità a lasciarsi smascherare e purificare dall’incontro con l’altro che, se autentico, non può che rivelarsi a noi stessi manifestando la necessità di un processo interiore di indispensabile purificazione e crescita. Non si può certo escludere a priori, in Erode, un desiderio di capire chi è Gesù; come del resto ci è attestato che “egli” ascoltava volentieri, fino a lasciarsi turbare dalla predicazione del Battista. Nondimeno, alla fine, risulta chiaro che, se anche Erode è curioso, non è tuttavia disponibile a lasciarsi disturbare dall’incontro. Persino al mattino del giorno della Parasceve quando incontrerà finalmente Gesù, non sarà capace di aprirsi all’incontro con il profeta di Nazareth preferendo approfittare di questa occasione per rinsaldare i legami politici con Pilato.

Erode è una figura che sta agli antipodi di quella del discepolo, la cui personalità si va formando, pagina dopo pagina, nello scorrere del Vangelo. Se il discepolo è colui che si lascia incontrare fino a lasciarsi coinvolgere nel cammino del Maestro, Erode, per quanto appassionato, rimane spettatore. Eppure non va dimenticato qualcosa di importante: nessuna vita può veramente giocarsi senza realmente coinvolgersi e impegnarsi personalmente. L’inquietudine di Erode è un modo per sfuggire alla sua paura di trovarsi davanti ad un altro profeta che lo metta di fronte alla verità della sua vita. Il re non vuole conoscere, ma vuole semplicemente inquadrare Gesù per potersene difendere e rendere la sua parola innocua e irrilevante per la sua esistenza e i suoi traffici.

Asilo

XXV settimana T.O. –

Non saremo mai grati abbastanza e non faremo mai abbastanza nostre le parole dello scriba Esdra: <Ma ora, per un po’ di tempo, il Signore, nostro Dio, ci ha fatto una grazia: di lasciarci un resto e darci un asilo nel suo luogo santo, e così il nostro Dio ha fatto brillare i nostri occhi e ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù> (Esd 9, 8). Così pure non saremo mai abbastanza docili ad accogliere la provocazione del Signore Gesù che affida anche a noi il mandato di cui sono investiti gli apostoli: <E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi> (Lc 9, 2). Il ruolo e la missione della Chiesa al cuore dell’umanità, è pensato e voluto dal suo Signore in vista dell’incremento della sua felicità che si identifica con la capacità di offrire ad ogni creatura un <asilo>. Così esortava il vescovo ausiliare di Parigi negli anni in cui la Chiesa – dopo il ’68 – vedeva trasformare radicalmente il proprio modo di presenza nel mondo, quasi costretta – dalla congiuntura culturale, politica ed economica – ad assumere un volto più evangelico: <La Chiesa di Gesù non ha niente altro da offrire se non la fede, la carità e la speranza dei primi discepoli che non hanno trasformato il mondo con il metodo dei politici, dei sapienti o dei filosofi. Ma hanno fatto di più, hanno annunciato al mondo la salvezza, e questo perché il Vangelo ha loro insegnato ciò che abita profondamente il cuore dell’uomo>1.

Proprio per crescere sempre di più in quella che potremmo definire una sensibilità a tutto ciò che è umano, il Vangelo non è – come spesso si sente dire e persino avvertiamo dentro di noi – una lunga serie di proibizioni etiche. Oggi la parola del Signore Gesù ci mette di fronte ad una serie di raccomandazioni perché mai, in noi, ci sia qualcosa che faccia da ostacolo alla luce del Vangelo: <Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche> (9, 3). Al cuore della consegna del Signore Gesù, affidata agli apostoli, non vi sono degli “interdetti” cui sottomettere gli altri, ma delle esigenze rigorose cui sottomettere se stessi per essere veramente in grado di aprire il cuore all’accoglienza della buona novella del regno di Dio. La condizione dell’annuncio sembra proprio essere una sorta di leggerezza interiore indicata da un passo così agile da suscitare gioia – e non timore – fin da quando si è  ancora lontani.

Gli apostoli sono uomini e credenti che non hanno nulla, se non quella realtà che portano dentro come un dono ricevuto da condividere,  le cui condizioni imprescindibili sono quelle di  una serena dipendenza dalla benevolenza degli altri e una gioiosa povertà: realtà queste che diventano il luogo possibile dell’incontro e della comunicazione dei doni. Talora tutto ciò può avvenire in modo assolutamente imprevisto tanto da trovare sulla bocca di Esdra parole commoventi: <ma nella nostra schiavitù il nostro Dio non ci ha abbandonati: ci ha resi graditi ai re di Persia, per conservarci la vita ed erigere il tempio del nostro Dio e restaurare le sue rovine, e darci un riparo in Giuda e Gerusalemme> (Esd 9, 9). Chi se lo sarebbe mai aspettato?!


1. D. PEZERIL, Sortez de votre sommeil, Paris 2001, p. 41.

Puri!

XXV settimana T.O. –

La dichiarazione del Signore Gesù potrà sembrare persino brusca; eppure, è fondamentale per la Chiesa di ogni tempo chiamata continuamente a risituare se stessa nel duplice riferimento a Cristo suo Signore e all’umanità di cui e per cui è sacramento di salvezza. <Mia madre e i miei fratelli sono questi…> (Lc 8, 21). Per capire ancora meglio cosa sia necessario vivere per fare parte di <questi>, senza rischiare di rimanere fuori da una relazione significativa con il Signore Gesù, nonostante si possa vantare un grado non trascurabile di vicinanza e di familiarità, la prima lettura sembra darci un quadro assai eloquente: <continuarono a costruire e a fare progressi> e ancora <portarono a compimento la costruzione per ordine del Dio d’Israele e per ordine di Ciro, di Dario e di Artaserse, re di Persia> (Esd 6, 14). Ciò che indica un reale grado di familiarità con il Signore è un riscontrabile livello di laboriosità che tiene conto, continuamente e sempre, di una relazione non esclusiva – nemmeno con Dio! – ma che obbedisce alla volontà del Signore accettando che essa passi – e ne sia come plasmata – attraverso le umane vicissitudini.

La ricostruzione e la dedicazione del Tempio di Gerusalemme è il risultato di una sorta di cospirazione tra il Dio di Israele e i re pagani. Questi ultimi sostengono il popolo nel suo progetto di riedificazione di un luogo che restituisce agli esiliati un’identità forte, nella coscienza ferma che essa rinasce in relazione e con l’aiuto insperato e inaudito di coloro che avevano tentato di annientarla. La nascita del Giudaismo come riscossa di un popolo che ritrova la sua terra e le sue abitudini e che è fortemente tentato di isolarsi fino a segregarsi per evitare ogni contaminazione, è frutto di una benevolenza e di una collaborazione con gli altri che non bisogna mai dimenticare. La nota finale secondo la quale <tutti erano puri> (6, 20) andrebbe forse intesa, o almeno desiderata e ricercata, nel modo più aperto e accogliente che si possa immaginare. Il gesto della mano del Signore che indica <questi> come <coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica> (Lc 8, 21), è lo stesso gesto evocato dalla parabola del seminatore: largo e dilatante, generoso e pieno di fiducia.

Se è vero che <andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla> (8, 19) è ancor più vero che l’unico modo di avvicinarsi veramente al Signore è quello di accettare di mescolarsi e non quello di distinguersi. Del resto, ciò che permette di riconoscere i membri di una medesima famiglia è il fatto che tutti ci si somigli in un qualche modo! Per cui non ci resta che assomigliare, visibilmente e nei fatti, al Signore Gesù assumendo il suo stile di universale familiarità. Essere discepoli del Signore Gesù non significa solo, e neppure prima di tutto, accogliere un insegnamento, ma assumere un atteggiamento da cui si possa riconoscere la scuola a cui siamo stati formati: quella di Cristo che ci rende puri da noi stessi e ci fa entrare in processo che potremmo definire di universale purificazione.

Salire

XXV settimana T.O. –

Nel più profondo della tenebra della disperazione dell’esilio che col tempo si è trasformata, nel cuore del popolo, in abitudine e rassegnazione, si leva – infine – una luce. Questa luce si incarna in un appello che non solo viene da lontano, ma proviene da dove nessuno se lo aspetterebbe né, tantomeno, lo spererebbe. Ciro, re di Persia, un re straniero e pagano si fa mediazione di un nuovo inizio per il popolo di Dio forse addormentato nel proprio dolore e la cui sofferenza – come accade anche a noi – rischia di indebolire la speranza e l’audacia: <Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e salga a Gerusalemme, che è in Giuda, e costruisca il tempio del Signore> (Esd 1, 3). Due verbi risuonano nell’appello regale ad un popolo ormai abituato ad essere rassegnato e, in molti casi, ben adattato ad una situazione di schiavitù e di sudditanza: salire e costruire!

Due verbi che invitano a riprendere coraggio e soprattutto che invitano a ritrovare un dinamismo di vita che rimette in cammino e riaccende la fantasia. Salire e costruire indicano un movimento interiore che accompagna la storia dell’umanità nei suoi momenti migliori. Questi verbi hanno lasciato il segno nella storia attraverso dei monumenti che sono testimonianza di ciò che l’uomo è capace quando riesce a sperare. Il Signore Gesù radicalizza questo invito con l’immagine della bellezza del fuoco – piccolo o grande che sia – il quale per sua natura va verso l’alto e diffonde attorno a sé un chiarore che permette alla vita di dilatarsi e di rivelarsi nella sua bellezza. Allora è chiaro che <Nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la mette sotto un letto, ma la pone su un candelabro, perché chi entra veda la luce> (Lc 8, 16). Se il re Ciro invita il popolo a salire e a costruire, il Signore Gesù invita i suoi discepoli a vivere in modo luminoso e gioioso senza cedere alla tentazione di ripiegarsi su se stessi o di rinchiudersi nella coltre di una paura che paralizza la vita.

Il segreto di questa luce, la sua scaturigine profonda che la rende invincibile, è la qualità dell’ascolto. Per questo il Signore Gesù esorta vivamente: <Fate attenzione dunque a come ascoltate; perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche ciò che crede di avere> (8, 18). Il Signore Gesù fa del nostro modo di ascoltare un modo di essere e di stare al mondo che diventa, in modo del tutto naturale, un modo per donare. Ciascuno di noi ha ricevuto un dono di cui è responsabile non solo per se stesso, ma anche per ciò che esso può significare per gli altri, cosicché non possiamo soffocare la luce di cui siamo portatori e non possiamo privare noi stessi e gli altri della speranza di cui, in modo talora misterioso, siamo comunque testimoni. La conclusione della prima lettura potrebbe indicare il dinamismo che rianima i nostri cuori ogni mattina: <Allora si levarono… a tutti Dio aveva destato lo spirito, affinché salissero a costruire il tempio del Signore che è a Gerusalemme> (Esd 1, 5). Salire e costruire in ogni momento il tempio di una presenza di Dio in mezzo alla storia cominciando dalle nostre relazioni più quotidiane significa, infatti, sperare e far sperare.

Grande affare

XXV Domenica T.O.

Come interpretare questa strana parabola in cui si loda un <amministratore disonesto> (Lc 16, 8) tenendo conto della raccomandazione dell’apostolo – nella seconda lettura – che chiede di pregare <alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese> (1Tm 2, 8)? Rileggendo questa parabola sembrerebbe proprio che le <mani> di questo tale siano più propense a <sperperare> (Lc 16, 1) beni che, per giunta, non sono suoi, ma gli sono stati affidati con una fiducia che sembrerebbe eccessiva e mal riposta. Eppure, alla fine <il padrone> si compiace del suo servo proprio perché <aveva agito con scaltrezza> (16, 8). Viene naturale chiedersi che cosa in verità ci sia da ammirare in questo amministratore con cui siamo inclini a paragonarci. Ma forse un simile approccio rischia di essere errato o almeno fuorviato: il vero protagonista della parabola – così come si è nuovamente sottolineato domenica scorsa rileggendo la cosiddetta parabola del “figlio prodigo” – non è l’amministratore ma il <padrone>. Tutta la nostra ammirazione deve proprio essere rivolta a questa capacità che il padrone ha di ammirare la creatività del suo servo, persino quando approfitta della sua posizione e usa a proprio vantaggio di beni non suoi. Solo un padrone tanto <ricco> (Ef 2, 4; Gc 5, 11) può permettersi di essere così prodigo, da preferire l’ammirazione per la scaltra creatività del suo amministratore, piuttosto che la sottile invidia di coloro che l’avevano <accusato dinanzi a lui> (Lc 16, 1).

Il Signore Gesù di certo non ci invita a <sperperare>, né tantomeno ad agire in modo disonesto, ma piuttosto vuole che <possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio>. Come spiega l’apostolo <Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati> (1Tm 2, 2-4), ma tutto ciò va perseguito con tenacia, audacia e risolutezza. La domanda si fa urgente: come fare a discernere se si sta agendo come <figli di questo mondo> o come <figli della luce> (Lc 16, 8)? Una risposta e un criterio possibili ci vengono offerti dal profeta Amos nella prima lettura: a partire da quello che è il nostro atteggiamento verso <il povero> e verso <gli umili> (Am 8, 4). Se accettiamo di fare di questi ultimi i nostri <amici> (Lc 16, 9), saranno loro ad accoglierci nelle <dimore eterne> facendoci spazio, già fin d’ora, nella loro vita.  

La Parola di Dio ci invita a considerare come non ci siano circostanze che non si possano accettare e accogliere come foriere di una grazia possibile… persino quando si cade in disgrazia. Pertanto, perché ciò sia possibile, è necessario avere un cuore umile, sottomesso e – al contempo – creativo ed intrigante: anche il fallimento è una parola di Dio che ci viene rivolta e che esige da parte nostra una risposta. L’importate e ciò che piace al <padrone> è che si sia degli amministratori e non degli amministrati, dei potenziali amici e non dei tristi burocrati e patetici funzionari persino delle cose di Dio. Tutto nella vita è un’opportunità! Anche il denaro può servire e diventare persino simbolo d’amore. Lungi da un pauperismo sentimentale il Signore invita sempre nella stessa e medesima direzione: l’amore come condivisione. C’è un rapporto – che talora non osiamo tanto nominare – tra il nostro modo di usare <il poco> (16, 10) che sono le nostre possibilità in genere e non ultime quelle materiali, e il “grande affare” che è la nostra vita in Dio e con i suoi <amici>. Il Signore Gesù vuole che arrossiamo di vergogna davanti alla nostra indolenza e pusillanimità confrontate con la passione e alla scaltrezza dei <figli di questo mondo> (16, 8) che – troppo spesso – ci superano in generosità e professionalità!

Grande affaire

XXV Dimanche T.O. –

Comment interpréter cette étrange parabole où l’on loue un «  administrateur malhonnête » (Lc 16, 8) en tenant compte de la recommandation de l’apôtre – dans la seconde lecture – qui demande de prier «  en levant au ciel des mains pieuses, sans colère ni dispute » (1 Th 2, 8) ? En relisant cette parabole, l’on croirait vraiment que les mains de cet individu sont plus propices à « dilapider » (Lc 16, 1) des biens qui, de surcroît, ne sont pas les siens, mais lui ont été confiés avec une confiance qui pourrait paraître excessive et mal placée. Et pourtant, à la fin, «  le maître » loue son serviteur car «  il avait agi de façon avisée » (16, 8). Il est naturel de se demander ce qu’il y a à admirer en cet administrateur avec lequel nous sommes enclin à nous comparer. Mais, une telle approche risque, sans doute, d’être une erreur ou du moins un égarement : le vrai protagoniste de la parabole – tout comme cela a été souligné dimanche dernier dans la relecture de la parabole dite du «  fils prodigue » – n’est pas l’administrateur, mais le «  maître ». Notre admiration tout entière doit se tourner vers cette capacité  que le maître démontre en admirant la créativité de son serviteur, même lorsqu’il profite de sa position et utilise à son propre avantage des biens qui ne lui appartiennent pas. Seul un maître «  riche (Eph 2, 4 ; Jc 5, 11) peut se permettre d’être aussi prodigue pour préférer l’admiration  de l’astucieuse créativité de son administrateur, à la sournoise envie de ceux qui l’avaient «  accusé devant lui » (Lc 16, 1).

Le Seigneur Jésus ne nous invite, bien sûr, pas à «  dilapider », encore moins à agir de façon malhonnête, mais, il veut plutôt que «  nous puissions mener une vie calme et tranquille, digne et dédiée à Dieu ». Comme l’explique l’apôtre «  Ceci est une belle chose, agréable  aux yeux de Dieu, notre sauveur, qui veut que tous les hommes soient sauvés » – (1 Th 2, 2-4), mais cela doit se poursuivre avec ténacité, audace et résolution. La question est urgente : comment faire pour discerner si l’on agit comme «  des fils de ce monde » ou comme «  des fils de la lumière » (Lc 16, 8) ? Une réponse ou un critère possible nous est offert par le prophète Amos dans la première lecture : à partir de notre attachement envers «  le pauvre » et envers «  les humbles » (Am 8, 4). Si nous acceptons de faire de ces derniers nos «  amis » (Lc 16, 9), ce seront eux qui nous accueillerons dans les «  demeures éternelles » en nous laissant une place, dès maintenant, dans leur vie.

La Parole de Dieu nous invite à considérer qu’il n’y a pas de circonstances que nous ne pourrions accepter et accueillir comme précurseuses d’une grâce possible…même lorsque  l’on peut tomber en disgrâce. Toutefois, pour que cela puisse être possible, il est nécessaire d’avoir un coeur humble, soumis et – en même temps –  créatif et intriguant : car même l’échec est une parole de Dieu qui nous est adressée et qui exige une réponse de notre part. L’important, et, ce qui plaît au «  maître » est qu’il y ait des administrateurs et non des administrés, de potentiels amis et non de tristes bureaucrates et pathétiques fonctionnaires même des choses de Dieu. Tout dans la vie est une opportunité ! L’argent, aussi, peut même servir à devenir un symbole d’amour. Loin d’un paupérisme sentimental, le Seigneur invite toujours dans la même et unique direction : l’amour comme partage. Il y a un rapport  – que souvent nous n’osons nommer – entre notre façon d’utiliser «  le peu » (16, 10) qui représente nos possibilités matérielles en général, et non des moindres, et la «  grande affaire » qui est notre vie en Dieu et avec ses «  amis ». Le Seigneur Jésus veut que nous rougissions de honte face à notre indolence et pusillanimité confrontées à la passion et la ruse des «  fils de ce monde » (16, 8) qui –  trop souvent – nous dépassent en générosité et professionnalisme !

Giardiniere

XXIV settimana T.O. –

Non si può comprendere la parabola che troviamo nella liturgia di quest’oggi senza tenere nel dovuto conto ciò che l’evangelista pone come introduzione e chiave di interpretazione: <poiché una grande folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città…> (Lc 8, 4). Così pure non bisogna dimenticare i versetti immediatamente precedenti che abbiamo letto nella liturgia di ieri: attorno a Gesù non c’è un gruppo segregante – ci sono discepoli e discepole – e la sua presenza non è offerta in modo settario, ma in modo assolutamente inclusivo ed universale. Detto ciò, nel Vangelo non si respira aria di trasognata ingenuità o di irenico ottimismo e per questo il Signore Gesù mette in evidenza quali possono essere le conseguenze di uno stile inclusivo: come il seme quando viene generosamente seminato non incontra solo della buona terra o almeno non tutta la terra ha lo stesso grado di fecondità o di adeguatezza alle varie sementi, così pure la Parola di Dio se viene donata incondizionatamente non sempre potrà incontrare lo stesso grado di accoglienza. Tutto ciò che noi rischiamo di leggere come un problema nella ricezione del messaggio evangelico, lo stesso Vangelo ce lo fa cogliere come una normalità.

Per questo l’evangelista non si accontenta come gli altri evangelisti di parlare del <seminatore> e dei vari tipi di terreno che, bene o male, lo accolgono, ma fa menzione in modo esplicito e assai particolare del fatto che <uscì a seminare il suo seme> (Lc 8, 5). Tutti sappiamo che ogni seme porta in sé un potenziale di vita, è una promessa e apre ad un possibile incremento e alla novità. Ben prima e ben aldilà di quello che noi possiamo recepire c’è una sorta di estasiata ammirazione per il dono che viene elargito e che non è altro che <il suo seme>! Forse a ciò possiamo applicare quanto dice l’apostolo: <ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo> (1Tm 6, 14). L’apostolo Paolo lo ricorda delicatamente, ma chiaramente al suo discepolo: <ti ordino di conservare e in modo irreprensibile il comandamento fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo> (1Tm6, 14). La raccomandazione apostolica vale per ogni <seme> (Lc 8, 5) che viene affidato alla terra del nostro cuore di qualunque specie esso sia, purché sia capace di <ascoltare> (8, 8).

Non siamo semplicemente interpellati nel ritrovare e nel catalogare noi stessi in uno dei tipi di terreno di cui ci parla la parabola. In realtà se guardiamo attentamente dentro la terra del nostro cuore, della nostra mente, delle nostre emozioni, dei nostri bisogni, facilmente riconosceremo che ora possiamo riconoscerci nell’uno e ora nell’altro, magari raramente lo siamo contemporaneamente, ma non è difficile ritrovare le diverse tipologie, esaminando le nostre reazioni e le nostre chiusure. Il fatto che Maria di Magdala scambi il Risorto per un giardiniere è segno che Gesù conosceva quest’arte e la mette a frutto nei confronti del nostro cuore e delle nostre vite che forse sono ancora lontane dal tempo della semina e hanno bisogno ancora, e prima di tutto, di essere arate e concimate. Ma anche davanti a queste operazioni più faticose e sporchevoli il Signore non si tira certo indietro.