Il tuo nome è Aprire, alleluia!

Ottava di Pasqua –

Incontrare il Risorto non significa soltanto vederlo e gioire del fatto che <il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù> (At 3, 13). Tutto questo sarebbe vano se non avessimo in noi il dono del Risorto che <aprì la loro mente all’intelligenza delle Scritture> (Lc 24, 45). La tenebra del Venerdì Santo è sempre in agguato nel nostro cuore! Ciò che induce a fare come i nostri padri – di cui Pietro dice: <voi avete consegnato e rinnegato …avete ucciso l’autore della vita> (At 3, 13-14) – è proprio l’ignoranza delle Scritture o, più precisamente, l’incapacità ad aprire questo libro comprendendone fino in fondo il senso che illumina e ci fa prendere in carico il mistero della nostra vita. È questa la prima nota che fa pure l’evangelista Giovanni proprio all’aurora di Pasqua <di buon mattino> (Gv 20, 1): <non avevano infatti ancora compreso la Scrittura> (Gv 20, 9). Noi tutti siamo nella condizione di coloro cui Pietro rivolge la sua parola: <io so che voi avete agito per ignoranza> (At 3, 17) anche noi siamo nella condizione dei discepoli davanti al <Fantasma> Gesù: <Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?> (Lc 24, 38). L’ignoranza e il dubbio non sono però motivi per giustificarci né davanti alla durezza del nostro cuore né, tantomeno, davanti alla strettezza della nostra mente. L’ignoranza e il dubbio sono realtà che esigono da parte nostra una reazione e una scelta: aprirci o chiuderci a ciò che ignoriamo e a ciò che non vogliamo conoscere. E il contenuto fondamentale della conoscenza di Dio è il mistero della sua croce: <il Cristo dovrà patire e risuscitare da-i morti il terzo giorno> (Lc 24, 46). Davanti alle Scritture – ossia dinanzi alla Parola di Dio che interpreta ed orienta la nostra vita – abbiamo la tendenza a chiudere il libro per chiudere la nostra mente e il nostro cuore a quel cammino ulteriore che Pietro riassume nelle parole: <Pentitevi e cambiate vita> (At 3, 19).

Il Risorto ci chiede ogni giorno di fare un passo in più come i discepoli di Emmaus ma camminare – fare un passo – è sempre un aprire la mente e il cuore oltre tutto ciò che abbiamo già conquistato con la mente e il cuore. Riconoscersi ignoranti e dubbiosi, rimanere davanti al Risorto <stupiti e spaventati> (Lc 24, 37) può trasformarsi nell’inizio di una nuova storia segnata da due parole del Risorto: <Pace a voi> (Lc 24, 36) e <voi siete testimoni> (Lc 24, 48). Pertanto la pace interiore e la testimonianza esteriore sono possibili solo a partire da un’apertura totale e sempre aperta a ciò che sconvolge i nostri parametri mentali e di cuore.

Il Risorto è colui che apre ma, soprattutto, è colui che ci mantiene aperti: <quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre> (Ap 3, 7). Ci sono, infatti, persone apparentemente aperte – come un fantasma senza carne né ossa (Lc 24, 39) – rinchiuse però nella propria autodeterminazione e insensibili ad ogni appello ad ulteriori aperture. Il Risorto, invece, rende aperti nella mente per donarci un cuore spalancato che non ha paura delle proprie ferite, ma le trasforma in feritoie per vedere la luce pasquale di un cuore che accetta il rischio di farsi toccare: <Toccatemi e guardate> (Lc 24, 39). Si tratta di entrare nel mistero di una vita che si fa condivisione <mangiò davanti a loro> (Lc 24, 43) così che <possano giungere i tempi della consolazione> (At 3, 20) in cui si possa dire: <Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere> (Ap 3, 8), questa porta siamo noi stessi in Cristo Gesù.

Il tuo nome è Pane, alleluia!

Ottava di Pasqua –

Siamo noi i due discepoli che alla sera di Pasqua se ne tornano ad Emmaus a testa bassa. L’evangelista Luca ci dice che i due discepoli <erano in cammino> (Lc 24, 13), soprattutto ci ricorda magnificamente che <Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro> (24, 15). Il messaggio è chiaro: solo la compagnia del Risorto permette ai discepoli, e a noi come loro e con loro, di smettere di camminare a testa bassa per riprendere la nostra strada come il paralitico di cui ci parla sempre Luca negli Atti degli Apostoli: <Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare: ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio> (At 3, 7-8). Perché il paralitico possa riprendere a camminare fino ad essere capace persino di saltare, è necessario che si consumi un vero incontro tra quest’uomo abbandonato <ogni giorno presso la porta del tempio detto Bella> (3, 2) e gli apostoli. Pietro e Giovanni non si accontentano di dargli una distante elemosina e proseguire per la loro strada per penetrare nel Tempio ove incontrare l’Altissimo, ma sanno prendere tutto il tempo fino a perdere tempo al fine di incontrare quest’uomo in un modo così profondo da rimetterlo in cammino verso la vita e restituirlo alla sua dignità di persona: <Lo prese per la mano destra e lo sollevò> (3, 7). Proprio come si invita una persona a danzare con sé in modo gentile, galante, coinvolto e, necessariamente, gioioso.

Il lungo racconto del Vangelo di Emmaus ci mette di fronte alla scoperta del Signore Gesù come di colui che con grande pazienza aiuta i discepoli a rialzarsi dalla loro prostrazione e a ritrovare fiducia nella vita. Il primo passo per incontrare il Risorto è, in realtà, la capacità e la volontà di voler incontrare di nuovo qualcuno: <Ma essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto>. La reazione del Signore è semplice ed immediata: <Egli entrò per rimanere con loro> (Lc 24, 9). Questo versetto del vangelo di Luca è un condensato del mistero della risurrezione come mistero di relazione. Solo nella misura in cui si rende di nuovo possibile l’incontro, da persona a persona, è possibile sperimentare nella propria vita una forma adeguata ed unica di risurrezione. La risurrezione non è un “miracolo” è un processo interiore che esige la partecipazione piena della propria persona, accettando di lasciarsi incontrare e interrogare. Il pane che è la presenza del Risorto nelle nostre vite non è un pane di elemosina come quello che si aspettava il paralitico alla porta del tempio, ma è un pane sostanzioso per il cammino e non per accomodarci o peggio ancora per immobilizzarci. Si tratta per questo di rinfrescare la memoria ripercorrendo attraverso le Scritture la nostra stessa vita.

Il Signore, dopo la sua Pasqua e prima di tornare al Padre, desidera condividere con noi la “sua” lettura esistenziale delle Scritture a partire dalla sensibilità del suo cuore di Figlio che ci riapre la strada di un’autentica fraternità. Le ultime parole del Vangelo evocano il <pane>, ma non si tratta di un pane per accomodarsi, bensì di un pane per camminare proprio come avviene per il paralitico posto alla porta Bella, proprio come avviene per i discepoli, i quali dal camminare a testa bassa riprendono la strada con una gioia rinnovata e un entusiasmo ritrovato.

Il tuo nome è Fare, alleluia!

Ottava di Pasqua –

La domanda che sorge spontanea dal cuore trafitto del popolo che si lascia raggiungere dalle parole di Pietro è una guida per entrare nel mistero di Pasqua in modo non astratto, ma concreto perché sia vitale: <Che cosa dobbiamo fare fratelli?> (At 2, 38). Il racconto della visita mattutina di Maria di Magdala nel giardino dove si trova la tomba del Signore, può essere una sorta di traccia di ciò che potremmo definire l’arte di non arrendersi mai alla logica della morte e di credere oltre ogni disperazione. Il Signore Risorto sembra passeggiare nel giardino aspettando i suoi amici. Siamo di nuovo nel giardino della creazione, ma siamo già nel giardino delle delizie del Cantico dei cantici: l’amore è sempre possibile e pronuncia il nome dell’amato in modo inconfondibile tanto da suonare come una incoronazione della relazione ritrovata: <Gesù le disse: “Maria”> (Gv 20, 16). Il rischio è che le nostre lacrime non ci permettano di vedere mentre ci sforziamo di guardare, mentre l’amore si lascia guardare fino a vedere l’impensato impensabile. Nel linguaggio della risurrezione sembra che vedere e testimoniare siano la stessa cosa!

Un lungo testo di Gregorio Palamas può guidarci nella meditazione gioiosa di questa giornata pasquale: <Fuori regnava l’oscurità, non era ancora giorno, ma quella grotta era piena della luce della risurrezione. Maria ha visto quella luce per grazia di Dio: il suo amore per Cristo è diventato più vivo, ha avuto la forza di vedere angeli che le hanno detto: “Donna, perché piangi?”. Vide il cielo in questa grotta o piuttosto un tempio celeste al posto di una tomba scavata per essere prigione. “Perché piangi?” Fuori, il giorno ancora incerto, il Signore non manifesta lo splendore divino che l’avrebbe fatto riconoscere anche in mezzo al dolore. Maria non lo riconosce dunque. Quando ha parlato e si è fatto riconoscere, anche allora pur vedendolo vivo, lei non ha percepito la grandezza divina e gli si è rivolta come a un semplice uomo di Dio. Nello slancio del suo cuore, vuole inginocchiarsi e toccargli i piedi. Ma lui le dice: “Non toccarmi, poiché il corpo di cui sono ora rivestito è più leggero e mobile del fuoco; può salire al cielo fino al Padre mio, nel più alto dei cieli. Non sono ancora salito da mio Padre, perché non mi sono ancora mostrato ai miei discepoli. Va’ da loro; sono fratelli miei, poiché siamo tutti figli di un unico Padre”. La chiesa in cui siamo è simbolo di questa grotta. Ne è ancor più che un simbolo: è per così dire un Santo Sepolcro. Vi si trova il luogo dove si depone il corpo del Maestro; vi si trova la santa mensa. Chi dunque corre con tutto il cuore verso questa divina tomba, vera dimora di Dio, vi imparerà le parole dei libri ispirati che lo istruiranno come gli angeli sulla divinità e l’umanità del Verbo, la Parola di Dio incarnata. E vedrà così il Signore stesso, senza possibilità di errore. Poiché chi guarda con fede la mistica mensa e il pane che vi è deposto, vi trova nella sua realtà il Verbo di Dio che si è fatto carne per noi e ha stabilito la sua dimora in mezzo a noi (Gv 1,14). E si fa degno di riceverlo, non solo lo vede, ma partecipa del suo essere; lo riceve in sé perché dimori in lui>1.


1. GREGORIO PALAMAS, Omelia 20, sugli otto vangeli del mattino secondo S. Giovanni; PG 151, 265

Il tuo nome è Storia, alleluia!

Lunedì di Pasqua –

Al mattino dopo quel primo mattino che segue il grande Sabato è come se rimpiombassimo a valle della storia. L’evocazione delle guardie ancora una volta prezzolate e l’inizio della lettura annuale degli Atti degli Apostoli sono il modo efficace con cui la Liturgia ci tiene sulla corda… sulla corda della storia. La risurrezione di Cristo Signore non rappresenta una comoda fuga dalla storia né, tantomeno, una sorta di sogno per tenere buone le coscienze. La risurrezione è un fuoco gettato sulla terra per impedire in tutti i modi che si sprofondi nella dimenticanza di come la forza che viene da Dio – lo Spirito Santo evocato con così grande forza da Simon Pietro – è all’opera in misura proporzionale allo spazio che gli diamo dentro la nostra vita concreta. Nemmeno la risurrezione può mai essere un’evidenza che costringe a credere, ma è una porta che permette e obbliga ciascuno a scegliere. Questo è avvenuto al mattino di Pasqua, questo avviene ogni mattina in cui la nostra umanità si rimette in cammino sulla strada della vita scegliendo di farsi pagare o accettando di pagare. 

La lettura degli Atti degli Apostoli ci aiuteranno a comprendere come la risurrezione si fa storia nella vita delle prime comunità di discepoli in modo incarnato, concreto con momenti di grande luminosità e momenti terribilmente umbratili. Ancora una volta gli uomini da una parte e le donne dall’altra! Neppure la luce pasquale può evitarci il dramma della scelta che non si impone mai come un’evidenza che non lasci scampo alla nostra libertà, ma la impegna radicalmente tanto che nessuno – nemmeno l’Altissimo – può scegliere al nostro posto o prendere posizione davanti alla storia sollevandoci dal peso della nostra responsabilità, dalla gioia di dare una risposta alla storia anche quando sembra che tutto sia finito e i giochi definitivamente conclusi.

Da una parte gli uomini – i discepoli e i soldati – si nascondono a se stessi per evitare fastidi, mentre le donne si fanno incontrare realmente dal Risorto e in modo nuovo proprio perché si erano levate di buon mattino per andargli incontro a loro modo. Messesi in cammino per seguire il loro cuore, le donne hanno la grande sorpresa di poter ritrovare il Signore tanto che <si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono> (Mt 28, 9). L’apostolo Pietro, al mattino di Pentecoste, ritrova se stesso e si sente animato da un coraggio che non gli appartiene, ma che gli viene donato: <Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere> (At 2, 24). Sarebbe meglio tradurre la parole di Pietro con doglie del parto poiché il termine greco indica i legami e le doglie. Paolo usa questo termine per indicare la nascita di un mondo nuovo nella creazione nuova. La storia, ogni storia piccola o grande, rilevante o sconosciuta può riprendere il suo cammino solo nella misura in cui qualcuno – come le donne al mattino di Pasqua – accetta di rischiare la speranza e non – come i soldati – di barattarla con la rassicurazione di essere liberati da <ogni preoccupazione> (Mt 28, 14).

Il tuo nome è Intuizione, alleluia!

Domenica di Pasqua –

Non sosteremo mai abbastanza sulla nota caratteristica del quarto vangelo per indicare gli indizi del grande evento della risurrezione: <e il sudario. che era stato sul suo capo, non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte> (Gv 20, 7). Su questo particolare i santi Padri come i moderni teologi hanno molto riflettuto dando diverse interpretazioni e, come nel caso di Agostino, arrivando persino a rinunciare a spiegare troppo il mistero di questo <sudario… piegato> in modo diverso da tutto il resto. Dopo Maria di Magdala, con Simon Pietro e il discepolo amato anche noi arrivando questa mattina al sepolcro ove dovrebbe giacere il corpo inerme del Signore Gesù, non possiamo che scandagliare tutti i minimi particolari. Sial il nostro modo per cercare di comprendere per intuire che cosa sia avvenuto e che cosa stia avvenendo attorno a noi e dentro di noi. Giovanni Crisostomo dice che se qualcuno avesse voluto trafugare il corpo del Signore – come sosterrà Maria parlando con il giardiniere – non avrebbe sprecato tempo nel ripiegare ordinatamente il sudario. Ma un altro Padre – Cirillo di Gerusalemme – è ancora più raffinato nel cogliere che questo sudario è <piegato> come se non avesse avuto nessun contatto con la morte poiché il corpo del Signore è <carne senza carne> anzi è <carne santa>. Potremmo dire che proprio nel momento della morte e della sepoltura il <Verbo si fece carne> (Gv 1, 14) e si fece <carne santa> per dare alla nostra carne e alla nostra umanità tutta la speranza della sua divinità. Così il sepolcro assume tutta la sua valenza di “monumentum/séma” in cui – sia in greco che in latino – troviamo la compresenza del legame alla morte che si fa testimonianza di qualcosa che la morte non può vincere e su cui non ha presa. Per questo la nostra non può che essere l’invocazione dei discepoli viandanti in cammino verso Emmaus: <Resta con noi, perché si fa sera>. 

Ton nom est intuition, alléluia !

Dimanche de Pâques –

Nous n’insisterons jamais assez sur la remarque caractéristique du quatrième évangile pour indiquer les grands événements de la résurrection : «  et le suaire qui était sur la tête n’était pas posé avec les draps, mais enveloppé dans un endroit à part » ( Jn 20, 7 ). Sur cette particularité, les saints Pères, tout comme les théologiens modernes ont beaucoup réfléchi en donnant diverses interprétations et, comme ce fut le cas pour Augustin, arrivant même à renoncer à trop expliquer le mystère de ce «  suaire…plié » de façon différente de tout le reste. Après Marie de Magdala, avec Simon Pierre et le disciple bien-aimé, nous arrivons nous aussi ce matin au sépulcre où devrait gésir le corps sans défense du Seigneur Jésus, et nous ne pouvons que sonder toutes les plus petites particularités. Que ce soit notre façon d’essayer de comprendre et d’imaginer ce qui est arrivé et ce qui a pu arrivé autour de nous et en nous. Jean Chrysostome dit que si quelqu’un avait voulu dérober le corps du Seigneur – comme le supposera Marie en parlant au jardinier – il n’aurait pas perdu du temps à replier soigneusement le suaire. Mais un autre Père, Cyrille de Jérusalem – est encore plus raffiné dans sa recherche sur le suaire « plié » comme s’il n’avait eu aucun contact avec la mort car  le corps du Seigneur est «  chair  sans chair » donc «  chair sainte ». Nous pourrions dire qu’au moment précis de la mort et de la sépulture, le «  Verbe s’est fait chair » ( Jn 1, 14 ) et se fit «  chair sainte » pour donner à notre chair et à notre humanité toute l’espérance de sa divinité. Ainsi, le sépulcre assume toute la valeur du « monumentum /séma » où – que ce soit en grec ou en latin- nous trouvons la compréhension du lien à la mort qui devient témoignage de quelque chose que la mort ne peut vaincre et sur quoi elle n’a aucune prise. Voici pourquoi, nous ne pouvons qu’exprimer l’invocation des disciples en route sur le chemin d’Emmaüs : «  Reste avec nous, car le soir approche ».

Convertire… ripassare

Settimana Santa

La liturgia non ha più parole e per questo ci invita al silenzio per imparare dai sassi come esortava – verso la fine della sua vita e portando nel suo corpo le stigmate del crocifisso – Francesco d’Assisi perso nella foresta della Verna. Davanti alla <gran pietra sulla porta del sepolcro> (Mt 27, 60) sembra che non ci sia più niente da dire ma anche più nulla da fare. Giuseppe d’Arimatea pare aver terminato il suo compito di <discepolo> (27, 57), peraltro assolto con coraggio e con grande devozione fino alla fine ma, evidentemente, non potendo fare altro, <se ne andò> (27, 60). Nel vangelo secondo Matteo il ruolo di quella pietra diventa ancora più centrale a motivo della preoccupazione e del timore dei notabili del popolo i quali ossessionati dai loro stessi fantasmi <andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia> (27, 66). Solo così sembra che tutto possa realmente riprendere il suo consueto cammino come se nulla fosse successo.

Cosa dire davanti a tutto questo accanimento per rendere la morte del Signore incontrovertibile? Durante tutta la quaresima – giorno dopo giorno – abbiamo attinto una parola dalla Parola. Oggi, invece, rimane muta e attonita. Dove trovare la parola chiave? Dove cercare la chiave per dare parola ai sentimenti? Nessuna preghiera sembra possibile se non quella espressa con le lacrime e il silenzio, il silenzio e le lacrime. Sostando come le donne <davanti al sepolcro> (27, 61) siamo come confrontati con lo stesso Silenzio in cui il Verbo del Padre si è annichilito e annientato proprio come <chicco di grano caduto in terra> (Gv 12, 28). Là, davanti al sepolcro del Signore Gesù, che giace e che tace dietro la pietra così accuratamente posta sul suo amabile corpo e sulla sua dolcissima anima, anche noi siamo chiamati a scendere nel profondo di noi stessi e della stessa umanità per imparare a non scandalizzarci più del silenzio di Dio ma a trovare in esso conforto proprio perché: <il silenzio di Dio, che è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua peccaminosità e della sua angoscia, non è di chi tace perché non c’è, o di chi tace perché abbandona, ma di chi tace perché piange, e tace appunto per piangere>1.

Abituati a lamentarci e talora a bestemmiare, il silenzio e l’apparente distanza di Dio dalle nostre vicissitudini e dai nostri dolori, siamo oggi invitati alla più grande conversione che si possa immaginare. Siamo invitati a riconoscere il Dio di Gesù Cristo la cui onnipotenza è la consegna di sé fino all’estremo e la cui protesta è una parola d’amore che si fa gesto in una vita totalmente consegnata e abbandonata nelle nostre mani e affidata, ormai, alla nostra capacità e volontà di vivere e morire nello stesso amore. Possiamo pregare, sperare, attendere e amare con le stesse parole che concludono la Passione secondo Matteo di Bach: <Anche se il mio cuore è immerso nelle lacrime perché Gesù prende congedo da me, il suo testamento mi dà gioia: egli lascia nelle mie mani un tesoro senza prezzo, la sua carne e il suo sangue…. Voglio donarti il mio cuore perché tu vi discenda, mio Salvatore! Voglio sprofondarmi in te! Se il mondo è per te troppo piccolo, allora tu solo devi essere per me più del mondo e più del cielo>. Come le donne e soprattutto come Maria, la madre del Signore, in questo giorno vogliamo ripassare, nel nostro cuore reso ancora più attento, ogni gesto, ogni parola, ogni non detto del Signore Gesù e persino ciò che sta, come messaggio nascosto, tra gli spazi bianchi e le interlinee vuote dell’anima.


1. L. PAREYSON, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, p. 221.

Convertire… in bacio

Settimana Santa

Ciò che fa la differenza tra il lavare i piedi di un servo e quello di un amante è il bacio che riesce a trasformare radicalmente la realtà pur senza mutarla. Ciò che fa la differenza tra un patibolo ignominioso e il trono dell’amore è il bacio che oggi – non solo il celebrante – ma tutti i fedeli pongono sul legno della croce rendendolo così un ramoscello di vita. Mentre ci avviciniamo alla croce per baciarla possiamo sentirci tutto come un ranocchio che ha bisogno di un bacio per diventare principe e ritrovare così tutta la propria bellezza e la propria dignità in un amore capace di andare oltre le apparenze e di sfidare tutte le negazioni che annichiliscono e annientano l’immagine meravigliosa di Dio che si nasconde in ciascuna delle sue creature.

Il grido del Crocifisso non solo raggiunge ma si fa interprete di ogni grido umano, trasformandolo così in una supplica di presenza e di amore: <Dio mio, Dio mio…>! Come spiega poeticamente Christian Bobin <Questa parola di Cristo è la parola la più amorosa che si possa immaginare. Ciascuno ne conosce la vibrazione intima. Nessuna vita può fare l’economia di questo grido. Questa parola è il cuore dell’amore, la sua fiamma tremolante, si addormenta ma non si spegne. Questa è la sola prova dell’esistenza di Dio: non ci si rivolge infatti così al nulla. Quest’ultimo scintillìo della parola fa di Cristo qualcosa di più di un angelo: il nostro fratello angosciato e fragile. Questo grido che si infrange contro la gola di marmo di un Dio ammutolito, da di Colui che lo lancia la realtà più intima tanto da renderlo il più prossimo dei nostro possibili prossimi: noi stessi quando la fiducia se ne va come il sangue scorre da una vena tranciata eppure continuiamo a parlare amorosamente a chi ci sta uccidendo. Bisogna che il buio si accentui perché sorga la prima stella>1.

Nel salmo di questa liturgia non funebre, ma nuziale, troviamo le parole più serene e confidenti che dovrebbero diventare parte integrante del nostro stesso vocabolario: <Alle tue mani affido il mio spirito> (Sal 30, 6). Il profeta Isaia sembra protestare contro tutte le apparenze e ci aiuta a cogliere la posta in gioco del mistero della croce che sfida tutte le logiche mondane e le annienta: <Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente> (Is 53, 13). In questo memoriale della passione del Signore siamo chiamati ad andare oltre per riconoscere sotto le apparenze del fallimento, la vittoria di un amore che si lascia annientare senza lasciarsi vincere quando a dedizione e donazione. Per questo le parole della Lettera agli Ebrei ci raggiungono diritto al cuore della nostra ricerca del modo di dare una risposta a tanto amore: <Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno> (Eb 4, 16).

Avvicinarci alla croce come ad un trono da cui speriamo di ricevere la misericordia e la grazia di preparare il tempo in cui toccherà a noi di rispondere alla vita con lo stesso stile e con la stessa passione del Signore. Pilato lo offre anche a noi quale modello, quale via, quale sguardo: <Ecco l’uomo> (Gv 19, 6).


1. Ch. BOBIN, L’homme-joieL’iconoclaste, Paris 2012. 

Convertire… il diavolo

Settimana Santa

Il triduo pasquale comincia, attraverso la lezione del Vangelo che ne segna le coordinate fondamentali, con due note apparentemente così contrastanti da sembrare inconciliabili. La prima suona così: <Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine> (Gv 13, 1). A questo sfondo, dominato da un amore la cui immensità pare travolgere la storia, sembra che l’evangelista Giovanni abbia bisogno subito di dare una pennellata di scuro per farcene percepire tutta la profondità: <Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo…> (13, 2). Il gesto della lavanda dei piedi e quello del dono di un pezzo di pane e di un sorso di vino diventano così il modo con cui Gesù dichiara guerra al Maligno e alla sua logica di tradimento dell’amore. Una guerra dichiarata senza smettere di amare <fino alla fine> perfino e, prima di tutto, quel discepolo che lo consegna illudendosi di diventare così protagonista della storia e placando così il suo complesso di inesistenza a motivo della sua reale inconsistenza. Il modo di reagire del Signore a ciò che <il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda> è un di più di amore, un eccesso assoluto di amore che si esprime nel gesto di <lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarlo con l’asciugamano di cui si era cinto> (13, 5).

Vale per il gesto del lavare i piedi ciò che Paolo riferisce all’altro gesto eucaristico dello spezzare il pane e versare il vino: <Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga> (1Cor 11, 26). Possiamo applicare questa parola alla nostra vita quotidiana dicendo che <ogni volta> che sentiamo nel nostro cuore la morsa della tentazione che ci spinge a chiuderci all’amore, l’unica via è quella di aprirci ad un amore ancora più grande. Infatti, solo l’eccesso e l’esagerazione possono arginare l’opera del <diavolo> che lavora sempre nella linea del risparmio (non si poteva vendere per trecento denari) per arrivare a far trionfare la morte delle relazioni più belle e più significative. Simon Pietro lo intuirà cogliendo nella reazione del Maestro la posta in gioco di un passaggio fondamentale: <Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!> (Gv 13, 9). Il salmista ci aiuta a non dimenticare, perché la dimenticanza rischia sempre di essere l’inizio di un’insensibilità e per questo si interroga: <Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto?> (Sal 115, 3).

Potremmo entrare nella celebrazione dei santi misteri cercando di fare l’elenco dei benefici che abbiamo ricevuto nella nostra vita. Solo questa memoria ci potrà rendere immuni dalla tentazione del <diavolo> di cedere all’oblio e concentrarci per questo sulle nostre paure e sui nostri bisogni più immediati e passeggeri. La prescrizione rituale dell’Esodo assumerebbe così un valore assai particolare: <Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno> (Es 12, 5). L’agnello è Cristo, l’agnello dobbiamo essere noi resistendo ad ogni tentazione di trasformarci in lupi. L’Esodo continua con le sue note rituali che sono, in realtà, orientamenti esistenziali: <Ecco in quale modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore!> (Es 12, 12). Celebriamo la Pasqua per imparare l’arte di vivere che è sempre l’arte di amare, così antica e così magnificamente nuova perché richiede di ricominciare ogni momento: <Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi> (Gv 13, 15). Tutto ciò è pane per il cammino e vino per non perdere il ritmo e l’ebbrezza della marcia.

Convertire… in discepolo

Settimana Santa

La Parola di Dio ci fa fare un piccolo passo indietro per svelarci, attraverso il vangelo secondo Matteo, l’antefatto di ciò che ci viene raccontato per ben due volte in due giorni: il tradimento di Giuda il quale <andò dai capi dei sacerdoti e disse: “Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?> (Mt 26, 14-15). Siamo messi di fronte all’abisso, non solo del cuore umano, ma dell’abisso ancora più insondabile del cuore di un discepolo, del nostro cuore di discepoli. Non finiremo mai di riflettere e di interrogarci abbastanza sulle motivazioni profonde che hanno spinto Giuda a tradire il suo Maestro e, forse, persino a non accorgersi fino in fondo di tradirlo. Sono stati molti gli scrittori e gli artisti che hanno cercato di immaginare e di spiegare questo gesto di assoluta negazione di ogni relazione. La parola del Signore Gesù non interviene per prevenire o bloccare il tradimento di Giuda, ma semplicemente prende posizione per non lasciare il discepolo ignaro di ciò che veramente sta avvenendo, prima di tutto e innanzitutto, nel profondo del suo cuore.

Giuda si presenta ai sacerdoti con una proposta: <… perché io ve lo consegni> e ancora <cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù> (26, 15-16). Il Signore Gesù, nella solenne e commovente cornice della cena pasquale preparata con una cura non solo particolare, ma unica, chiarisce a tutti – e soprattutto a Giuda – quello che veramente sta succedendo. In tal modo si rivela che ciò che sta accadendo è ciò che deve avvenire: <In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà> (26, 21). Giuda pensa di consegnare il Maestro, il Signore Gesù rivela al discepolo che non può consegnare chi già si è consegnato liberamente. Per questo Giuda, nella confusione più totale del suo cuore smarrito e ottenebrato, pone con una certa ingenuità e sincerità la domanda: <Rabbì, sono forse io?> (26, 25). Giuda pensa di consegnare – il gioco di parole nelle lingue antiche è strettissimo – e da Gesù viene a sapere di essere un traditore; Giuda pensa di essere il soggetto del suo atto di consegna, che sembra quasi un ultimo sussulto di protagonismo possibile contro il sempre più chiaro anti-protagonismo storico del Maestro, e scopre invece di essere soggetto, nel senso di prigioniero, della sua delusione e della sua rabbia che lo hanno reso una pedina più che un protagonista.

In realtà, il vero dramma di Giuda, che rischia di essere il nostro stesso dramma, è quello di non essere mai stato un vero discepolo, non avendo accettato il suo posto e il suo proprio ruolo. Ciò che il profeta Isaia indica come l’atteggiamento proprio del <discepolo> (Is 50, 4) viene smarrito dall’apostolo Giuda che in realtà si tira <indietro> nell’aprire <l’orecchio> (50, 5) preferendo, almeno da un certo punto in avanti, di perdersi nell’illusione di poter persino dirigere il destino del suo Maestro. Il Signore Gesù chiarendo e rivelando che <il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui> (Mt 26, 24) fa crollare l’illusione di Giuda di avere assunto un ruolo nella storia. La parola di Dio ci parla di uno degli apostoli che a un certo punto decide di smettere di essere <discepolo>, il pericolo di cadere in questa medesima trappola non è da sottovalutare per ciascuno di noi, per la Chiesa stessa, chiamata ad essere in tutto conforme al cuore del suo Sposo e Signore. Non dobbiamo mai dimenticare che quando si vende qualcuno, in realtà, non si fa altro che vendere se stessi. Giuda “vende” il suo Maestro al prezzo dello schiavo e della donna. Giuda ha bisogno di de-prezzare il Maestro per sovrastimare se stesso, ma il Signore non è schiavo proprio perché vuole essere un servo. Quel terribile <Guai> che ci atterrisce sarebbe da tradurre con <poverino!>. Giuda sceglie di consegnare Gesù senza rendersi conto che Gesù si consegna per lui per dargli ancora un po’ di tempo per ascoltare veramente.