Convertir… en credo

I Dimanche T.Q. –

Une fois encore, par son rythme liturgique, l’Église nous demande de reprendre la route du désert. Comme nous l’explique un moine bénédictin contemporain : «  Le désert vers lequel l’Esprit Saint pousse Jésus, n’a pas de nom particulier, il ne correspond pas à un lieu géographique, c’est le désert tout simplement, c’est-à-dire l’intérieur de nous-mêmes. Ce lieu intérieur qui est une partie anatomique de l’homme spirituel et que beaucoup ignorent par peur ou par manque d’exercice. Car, cette part de notre humanité a comme particularité le fait de s’atrophier si elle ne s’occupe pas d’elle-même, et, au contraire, elle devient immense dans la mesure où elle est habitée » 1. La première façon de s’exercer à entrer en contact avec notre intériorité et ainsi de pouvoir affronter chaque jour notre exode intérieur, consiste à être capable de se souvenir. Etrangement, et providentiellement, le Carême commence cette année, non pas, par la planification de nos prestations ascétiques, mais plutôt par un grand geste de gratitude, fruit d’une saine et vive remémoration du don du salut que nous avons reçu : «  Le prêtre prendra le panier de tes mains et le déposera devant l’autel du Seigneur, ton Dieu… » ( Dt 26, 4 ).

Le premier pas de notre chemin quadragésimal est une sorte de recueil et de concentration sur la mémoire de ce que le Seigneur a fait pour nous. Notre réponse de foi naît d’une prise de conscience de ce fondement de notre foi : «  Dieu  « écouta…vit…fit » ( 26, 7 ). Il ne s’agit plus de croire en une force obscure, ni en une énergie lumineuse, mais en un Dieu qui s’est totalement investi par toute sa personne et qui se révèle en relation avec notre humanité, quasi physiquement : par l’oreille, l’œil, la main : «  Il nous conduisit dans un endroit et nous donna cette terre où coule le lait et le miel » ( 26, 9 ). L’apôtre Paul nous rappelle avec force que nous ne sommes pas appelés à vagabonder, mais nous sommes appelés à descendre au fond de notre coeur, car «  Près de Toi est la Parole, sur ta bouche et dans ton coeur » ( Rm 10, 8).

Les citations des Ecritures de la part du Seigneur Jésus ne sont pas une invitation à sermonner le monde à coup de références bibliques, mais elles sont le signe d’une sensibilité forgée à l’école de la Parole, pour écouter la réalité et ne jamais se laisser tenter par les chemins et les moyens les plus faciles. Alors que le tentateur chercher à isoler certains éléments de la vie en les rendant absolus – le pain, le pouvoir, le prestige – le Seigneur Jésus ne perd jamais le contact avec la totalité de la vie qui est toujours vécue en relation à Dieu par une docile capacité de lire la vie, plus que de l’imaginer : «  Il est écrit… » (Lc 4, 4 ). Le Seigneur Jésus devient pour nous le modèle de la façon d’habiter notre désert intérieur quotidien, avec courage et une grande dose de simplicité qui permet de traverser la tentation  sans perdre contenance et sans être trop impressionnés. Dans la vie de foi, le «  comment » est aussi important que le «  pourquoi » et le «  quoi donc », et, nous sommes appelés à  faire ce discernement de modalité dans les profondeurs de notre coeur. Alors, comme l’exhorte le moine cité ci-dessus : «  Prenons le Carême du bon côté, du côté de l’Esprit Saint ».


1. F. CASSINGENA-TREVEDY, semons aux oiseaux, Ad Solem, Genève 2009, pp 86-87

Convertire… il dito e il piede

Sabato dopo le Ceneri

La prima lettura ci offre, tra altre, due piste di conversione. La prima è quella di rinunciare a <puntare il dito> (Is 58, 9) e la seconda è una sorta di condizione necessaria per camminare nelle vie di Dio: <se non tratterrai il piede dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a me sacro> (58, 13). Vengono di nuovo ribadite le due coordinate fondamentali per un autentico cammino di conversione: il rapporto con Dio che genera un modo di guardare verso gli altri che non ha nulla a che vedere con un dito puntato. Nel Vangelo, il Signore Gesù si rivela veramente capace di vivere queste due dimensioni e lo fa in un modo che mette in grande imbarazzo perché mette in crisi, radicalmente, un sistema di devozione così religioso da rischiare di non essere però realmente fedele al cuore dell’Altissimo. Nella pericope evangelica la prima cosa che ci viene fatta sentire è che il Signore invece di avere un dito puntato è capace di uno sguardo: <Gesù vide un pubblicano…> (Lc 5, 27).

Pertanto, la cosa più forte è che questo incontro di sguardi cambia tutto senza cambiare apparentemente nulla. Quando il Signore Gesù invita Levi a seguirlo lo fa accettando di seguirlo a sua volta <nella sua casa> (5, 29). A differenza di quanto si narra nell’accoglienza riservata da Zaccheo a Gesù, Matteo non fa nessuna pubblica ammenda, ma semplicemente fa entrare il Signore nella sua vita, rendendolo amico dei suoi amici. La casa di Levi diventa l’icona della Chiesa chiamata ad essere il luogo di <un grande banchetto> e non una sala di tortura. Ciò che ammiriamo in questo testo è la distensione che Gesù riesce a donare a Levi invitandolo a diventare suo discepolo senza obbligarlo ad un taglio radicale con la sua vita e i suoi amici, ma accompagnandolo in un cammino di guarigione interiore con la soavità propria di un medico che non solo è capace di fare la diagnosi, ma pure di dare tutto il tempo alla terapia di fare il suo effetto con la calma necessaria.

Per i farisei questo è insopportabile! E mentre trattengono il loro piede dal varcare la soglia della casa di un pubblicano e di un peccatore, non esitano a puntare il dito non solo contro il discepolo ancora in erba, ma pure contro il maestro ai loro occhi solo apprendista più che provetto. Eppure, il Signore non si lascia intimidire: <Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati> (5, 31). Se ogni malato può sperare nella guarigione, ogni sano deve mettere in conto la malattia! Le parole del profeta Isaia ben si addicono al Signore Gesù: <Ti chiameranno riparatore di brecce, e restauratore delle strade perché siano popolate> (Is 58, 12). Concludiamo questo primo tratto del cammino quaresimale con un senso di sollievo e un conforto che ci solleva e ci consola: il tempo penitenziale che vogliamo vivere per preparare ancora le gioie e le sfide pasquali non ci punta il dito contro, ma il dito ci indica la via per ritrovare il meglio di noi stessi e apparecchiarlo per gli altri come fosse un banchetto a lungo desiderato. Quando il Signore ci indica con il dito della sua parola in realtà ci apre sempre una via perché il nostro piede possa ritrovare la strada di casa che, pur rimanendo la stessa, non è più come prima.

Convertire… in intimità

Venerdì dopo le Ceneri

Una parola del profeta Isaia ci porta più lontano nella comprensione delle ragioni profonde di quella che potremmo ben definire una diatriba tra Dio e il suo popolo. Per bocca del profeta Isaia, l’Altissimo smaschera il modo di ragionare errato di quanti sembrano fare tutto per il Signore e, invece, agiscono solo per se stessi: <Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci se tu non lo sai?> (Is 58, 3). La risposta a questa domanda la troviamo nella domanda del Signore Gesù con cui sembra essere rifondato radicalmente il senso stesso di una pratica religiosa universalmente attestata: <Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?> (Mt 9, 15). L’orizzonte sponsale in cui il Signore Gesù chiede di vivere il digiuno va aldilà del digiuno, senza per questo negarne la pratica, ma illuminando la mente e il cuore perché attraverso l’ascesi del cuore si compia il miracolo di un incontro sponsale e gioioso tra la nostra umanità e il desiderio più profondo che portiamo nel cuore.

Alla luce della parola e della pratica del Signore Gesù il digiuno, come forma assolutamente fisica della preghiera e apertura all’incontro con l’Altissimo, non può che darsi che in un atteggiamento di intimità. In tal senso possiamo e dobbiamo rispondere all’interrogazione divina che ci giunge attraverso il profeta: il <digiunare> e il <mortificarci> ha più senso proprio perché non lo si <vede>, ma lo si vive in un rapporto di intimità che esige una forma necessaria di segreto. Se così stanno le cose, allora è chiaro che la domanda posta dai <discepoli di Giovanni> ha la sua gravità soprattutto per una sorta di mancanza di pudore e una indebita ingerenza in una questione di intimità degli altri, che parte da un tradimento della propria personale intimità: <Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?> (9, 14).

Per comprendere la gravitas di questa domanda potremmo riproporla in termini più radicali sperando di non scandalizzare nessuno. È come se si chiedesse ad una coppia di sposi o di innamorati: <Perché noi facciamo l’amore molte volte, mentre i tuoi amici non fanno l’amore?>. Sentiamo tutti quanto inadeguata sarebbe una simile domanda che lederebbe l’intimità e non merita risposte per non scadere sullo stesso piano: <Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno> (9, 15). Il digiuno come ogni pratica ascetica ed ogni impegno per la propria crescita spirituale è qualcosa di cui si può sentire il profumo di bellezza, ma nei cui dettagli sarebbe assolutamente inadeguato addentrarsi. Il profeta Isaia ci consegna una sorta di divisa dell’ascesi espressa da una parola: <piuttosto> (Is 58, 6). In questa parola del profeta possiamo cogliere l’invito ad andare sempre più lontano e ad incamminarci non per i sentieri della soddisfazione spirituale, ma per le vie di un desiderio che cresce e si dilata sempre di più. In realtà digiuniamo semplicemente per avere fame e così riuscire a decifrare meglio di che cosa siamo affamati veramente. Se conosceremo la fame di vita che abita il nostro cuore, allora saremo più capaci di intuire e lasciarci toccare e interrogare dalla fame dei nostri simili resistendo ad ogni forma di controllo, per aprirsi ad un di più di complicità e di compassione.

Convertire… non trascinare

Giovedì dopo le Ceneri

Stiamo ancora compiendo i primissimi passi del nostro cammino quaresimale, ma la Parola di Dio – racchiusa nelle Scritture – sembra non darci tregua e ci chiede di prendere subito posizione. Le parole del Deuteronomio sembrano mettere il dito sulla piaga: <Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti ad altri dèi e a servirli, oggi vi dichiaro che certo perirete> (Dt 30, 17-18). Il Signore Gesù non è da meno quanto a chiarezza e perentorietà: <Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua> (Lc 9, 23). La forza e la radicalità della parola con cui siamo obbligati a misurarci ci mette di fronte all’esigenza improrogabile di prendere su di noi la <croce> della nostra libertà, della nostra consapevolezza, della nostra umanità. Non è raro che giochiamo a nascondino con noi stessi facendo finta di desiderare ciò che, in realtà, non ci interessa affatto o, comunque, troppo poco per mettere in movimento il meglio di noi stessi.

Per riprendere la parola del Deuteronomio potremmo dire che la sfida quotidiana è quella di non <trascinare> la croce di <ogni giorno> ma di portarla con dignità. Il primo modo per non farsi come costipare interiormente è di avere uno sguardo semplice e lucido. La nota di quotidianità sottolineata dal Signore Gesù con l’evocazione di <ogni giorno> è, in realtà, ben più di un’esortazione è, invece, uno stile. Se, infatti, non sappiamo abitare il presente in cui la nostra libertà è sfidata ad essere attiva e responsabile, rischiamo di lasciarci appesantire dalle croci del passato e persino paralizzare da quelle che immaginiamo nel nostro futuro. Nella prima lettura possiamo avvertire una certa urgenza che scaturisce da una profonda passione: <Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio> (Dt 30, 19-20).

Il Signore Gesù ci interroga severamente rimandandoci a noi stessi e, per certi aspetti, spingendoci ad un severo esame di intelligenza senza il quale persino l’esame di coscienza rischia di essere una trappola: <Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?> (Lc 9, 25). Se non sappiamo cosa vogliamo veramente, qualunque cammino di conversione sarebbe impensabile e la fatica rischia di essere inutile tanto che la vita rischia di essere trascinata e non vissuta in pienezza persino quando ci tocca sperimentare la morte. I giorni, che si stendono davanti a noi con l’immensità ammaliante e inquietante di un deserto, ci sono dati come un’occasione propizia per dare ad ogni nostra fatica il tocco di una dignità e quasi di una signorilità che fa la differenza.

Scegliere è il più grande onore che abbiamo e il fatto di non tirarci indietro nella capacità di decidere e nella volontà di essere fedeli sarà il segno che non siamo dei servi, ma siamo dei figli capaci di essere sempre più fratelli. Se matureremo interiormente in questa attitudine, allora la <croce> non solo non ci spaventerà più, ma sarà il segno inequivocabile della nostra libertà, il sigillo della nostra discepolanza non solo desiderata e sventolata come fosse una bandiera, ma compiuta amorevolmente nel solco esigente e magnifico della nostra quotidianità sempre più da amare, e non trascinare.

Convertire… senza parole

Mercoledì delle Ceneri

Ogni anno, il cammino quaresimale ci chiede di metterci silenziosamente e serenamente in fila per ricevere sul capo un pugnetto di cenere e sentirci ripetere con austera solennità: <Convertitevi e credete al Vangelo>. La liturgia non ci chiede di rispondere nulla e di non aggiungere neanche un <Amen> rituale a questa parola. Sembra che la nostra risposta debba essere silenziosa e il nostro silenzio sia il modo più promettente per lasciarci interpellare senza fare promesse, ma semplicemente mettendoci in cammino aspettando che la risposta sia data dalla strada che sapremo percorrere in verità. La parola del Signore ci aiuta a radicare il nostro cammino di conversione nelle esigenze proprie del Vangelo che sembrano fare tutt’uno con la nostra vita intima e con la nostra umana compagnia. La preghiera deve essere segreta; l’elemosina non può che essere un segreto tra noi e il fratello più povero; il digiuno e la rinuncia non possono che toccare l’intimità del nostro corpo avvertito come luogo di relazione, di amore, di crescita. Tutto è ritmato da un ritornello: <e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 4). Questo ritornello è come l’intonazione inconfondibile di ogni Quaresima per diventare il ritmo segreto e intimo della nostra stessa vita di discepoli.

Il tempo della Quaresima è un tempo propizio, l’apostolo lo dichiara <un momento favorevole> (2Cor 6, 2). Il cammino di preghiera, di carità, di attenzione è come una possibilità che doniamo a noi stessi per essere in verità ciò che sentiamo di essere profondamente. Il profeta Gioele si fa interprete della passione di Dio per noi che aspetta, da ciascuno di noi, una risposta e ci ricorda come e quanto <Il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo> (Gl 2, 18). Così il <corno> (2, 15) di guerra diventa l’invito a lottare contro tutto ciò che in noi e attorno a noi può oscurare il volto di Dio <misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore> (2, 13) stando attenti a non <suonare la tromba> (Mt 6, 2) della vanagloria. La cenere che profuma il nostro capo non è solo memoria della nostra mortalità e del nostro limite, è anche memoria della passione di Dio per noi che lo rende capace di ridurre a nulla – in cenere! – tutte le nostre colpe e i nostri errori. Come spiega padre Delfieux: <all’inizio della Quaresima non ci viene solo ricordato che siamo vasi fragili, caduchi e mortali>. Se il nostro venire dalla terra e ritornare alla terra è la verità prima non è né l’ultima né, tantomeno la principale, poiché <in questo vaso di argilla il Signore ha posto il tesoro della sua stessa vita>1.

Un passo ci viene chiesto per primo: metterci in fila e accogliere sulla nostra testa il segno di ciò che siamo, da cui veniamo e verso cui andiamo. Eppure, in questo silenzio potremo sentire uno sguardo su di noi ed è uno sguardo di fuoco capace di ridurre in cenere tutte le nostre paure facendoci sentire peccatori… perdonati e amati. Per sentire questo dobbiamo esporci fino a consegnarci al Padre mettendoci alla sequela del Signore Gesù che sale a Gerusalemme senza temere di scendere verso l’umiliazione. Forse nel silenzio assordante del Golgota la frase che ci viene oggi consegnata ha sostenuto la speranza del Crocifisso nel momento del più grande digiuno, il digiuno da se stessi: <ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà> (Mt 6, 18).


1. P. M. DELFIEUX, Évangéliques, Parole et Silence, Les Plans 2013, p. 32.