Il tuo nome è Speranza, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

Il grido dell’apostolo attraversa i secoli e giunge, con la stessa forza e intensità di duemila anni fa, alle nostre orecchie: <Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti> (At 23, 6). Questa parola di Paolo ha l’effetto di una bomba lanciata in una piazza affollata tanto che <scoppiò una disputa tra farisei e sadducei e l’assemblea si divise> (23, 7). La risurrezione è motivo di divisione e di contrapposizione non solo tra i farisei e i sadducei del tempo di Gesù, ma pure tra quanti, in ogni tempo, hanno bisogno di una speranza e chi, invece, essendo sicuri e ricchi, sono sufficienti a se stessi e non hanno bisogno di nessun dono. Al contrario, il Signore, persino in quella che possiamo definire la sua preghiera testamentaria, manifesta un profondo bisogno di condivisione che si fa pressante invocazione al cospetto del Padre suo perché vi sia una piena partecipazione anche per noi del preziosissimo dono della sua comunione divina: <E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me> (Gv 17, 22-23).

In questa supplica accorata del Signore possiamo sentire in che cosa consista il fondamento di quella speranza nella risurrezione che se ci è promesso come frutto di eternità, fiorisce e germoglia già in questo tempo nella misura in cui accettiamo l’esodo quotidiano dalla nostra autoreferenzialità per vivere fondati su quell’amore che ci accompagna in modo così radicale da essere <prima della creazione del mondo> (17, 24). Ciò che già mette in moto il linguaggio e la realtà della risurrezione che speriamo, è la decisione che sta alla base ed è la motivazione fondamentale dell’offerta pasquale di Cristo Signore: <E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro> (17, 26).

Come scrive Elisabetta della Trinità: <Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che noi siamo là dove egli è. E questo non solo nell’eternità, ma già in questo tempo che è l’eternità già cominciata, ma sempre in progresso>. La preghiera del Signore accompagna il cammino della Chiesa chiamata ad essere, sempre di più e sempre meglio, sacramento di salvezza fino ad essere capace come Gesù stesso di abbracciare con l’amore tutta l’umanità. Nella preghiera del Signore, la Chiesa e ciascun discepolo è contemplato e abbracciato in totalità, non escluse le povertà e le fragilità. Attraverso la luce e la cura della preghiera, persino la debolezza può diventare una porta di salvezza e un indizio di risurrezione rendendo ciascuno di noi più umani e più miti. Il primo passo sembra essere quello di diventare più oranti. Possa capitare anche a noi ciò che accadde per Paolo che fu visitato ancora una volta da una parola che rischiara ogni notte: <Coraggio!> (At 22, 11). Si tratta del coraggio necessario a rinnovare ogni mattina la speranza radicata nell’esperienza di un amore sempre antico e sempre nuovo.

Il tuo nome è Potenza, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

L’apostolo Paolo non smette di evocare la sua passione apostolica che diventa per i discepoli una vera e propria eredità da accogliere e da custodire: <Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato, tra le lacrime, di ammonire ciascuno di voi> (At 20, 31). È proprio da questa passione amorevole che nasce la conoscenza e l’esperienza di una forza che radica nel profondo del cuore e si diffonde, a partire dalla propria vita, al mondo che ci circonda con un senso di fiducia radicale. Da questa fiducia, in cui si invera una fede autentica e vitale, nasce un affidamento generoso e abbandonato: <E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati> (20, 32). Mentre la sua esperienza sta per essere segnata in modo drammatico dall’attraversamento di una fragilità a tratti inquietante, il Signore Gesù non ha nessun timore nel parlare di <potenza>. Si tratta della potenza che viene dalla certezza di essere in profonda relazione con qualcuno, tanto che l’estrema debolezza diventa il luogo in cui si manifesta il meglio delle possibilità più impensate e inimmaginate.

Credere che la relazione intima con il Signore abbia <la potenza di edificare> è, di certo, una premessa, ma è pure la conseguenza più forte del fatto di sentire che non siamo soli soprattutto quando tutto sembrerebbe dire il contrario. Il Signore Gesù sta in mezzo tra il Padre e i suoi discepoli e in questo modo rivela dove sta il segreto e la causa interiore della sua croce: <Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura> (Gv 17, 12). Nessuna preoccupazione per il proprio destino e una profonda attenzione alla vita e alla felicità dei discepoli i quali diventano il soggetto di ogni pensiero e di ogni desiderio. Tutto questo mentre il tempo della passione e dell’estrema solitudine sono già in atto: <per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità> (17, 19).

Al Signore che si prepara al suo ultimo combattimento contro il <potere delle tenebre> (Lc 22, 53) non sfugge il pericolo che incombe sui discepoli… su di noi. Per questo prega con ardore: <Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno> (Gv 17, 15). Il segno di una vittoria o di una sconfitta dell’opera del Maligno nella vita dei discepoli è la partecipazione alla gioia che anima la vita intima della relazioni divine: <perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia> (17, 13). Paradossalmente il Maligno, che pure promette tanti piaceri, è sommamente triste per quella sua incapacità radicale a pensarsi solo in un modo autoreferenziale e solipsistico con cui cerca di contaminare la nostra umanità creata, invece, ad immagine e somiglianza del Dio sempre in comunione.

Il tuo nome è Costrizione, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

L’apostolo Paolo non ha nessuna remora nel riconoscere la duplice causa di tutto il suo cammino di fede e di apostolato. Alla base della generosa sequela di Paolo e della sua ardente testimonianza vi è l’intuizione profonda nata da quell’incontro sulla via di Damasco che gli ha cambiato la vita. Questo non toglie che ad orientare e, per molti aspetti, a limitare il suo percorso sono tutta una serie di costrizioni che, accolte in modo maturo e lucido, sono diventate per l’apostolo delle vere occasioni di crescita senza nulla togliere alla loro dose di amarezza e di dolore. Questa coscienza completa e non parziale diventa per Paolo una vera e propria confessione: <ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei; non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile> (At 20, 19-20). Pertanto, vi è un passo in più che viene compiuto da Paolo ed è un passo che potremmo definire di alta consapevolezza: <Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà> (20, 22).

Nella stessa linea e in modo ancora più radicale si muove il Signore Gesù che, dopo aver parlato a lungo ai suoi discepoli, per prepararli alla Pasqua e aprirli gradualmente al dono di una presenza ancora più intima di quella che avevano sperimentato accanto al loro Maestro con la venuta dello Spirito Santo, si rivolge direttamente al Padre suo per parlare dei suoi discepoli… di noi, quasi per creare un legame così forte che la morte stessa e il terribile scandalo della croce non potranno né spezzare, né incrinare: <Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te> (Gv 17, 1). Mentre ci lasciamo conquistare da questa preghiera del Signore, che è una vera e propria elevazione della sua anima verso il Padre, non dobbiamo dimenticare tutto quello che, nel Cenacolo, è stato fatto e detto. Si tratta di mantenere viva la memoria di tutto ciò che è accaduto, dalla lavanda dei piedi, allo svelamento del tradimento di Giuda e dell’abbandono da parte di tutti, dell’inaccoglienza della sua parola e della sua persona dai notabili del popolo i quali, per difendere l’onore di Dio secondo il loro modo di sentire, lo condanneranno alla morte più dura perché la più infamante per un credente e per un uomo giusto: la croce.

Come Paolo fa memoria del suo ardente ministero: <testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore> (At 20, 21), così il Signore Gesù sembra quasi voler ricordare a se stesso: <Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo> (Gv 17, 6). Sembra che l’annuncio e la testimonianza del dono offerto di una relazione con Dio capace di metterci in una condizione di più profonda e autentica umanità, si debba scontrare necessariamente con tutta una serie di costrizioni che, in realtà, rendono ancora più chiaro l’amore di cui si vorrebbe rendere partecipe ogni creatura: <Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono del mondo, e io vengo a te> (17, 10). L’identità non è più il risultato di un processo di differenziazione aggressiva, ma è il frutto di una comunione attraversata fino ad essere immensamente amata. Non si tratta di una dipendenza mortificante, ma di una <umiltà> (At 20, 19) corroborante capace di una certa fierezza che nasce dalla consapevolezza profonda di come la propria consistenza radica in una relazione che pacifica e libera così da poter accogliere le costrizioni della vita come un luogo sponsale e non come un passaggio fallimentare.

Il tuo nome è Adesso, alleluia!

VII Settimana di Pasqua –

La reazione del Signore Gesù ci stupisce non poco con questa domanda che ci tocca e ci interpella: <Adesso credete?> (Gv 16, 31). Mentre il Signore continua a parlare di sé, sempre in relazione al Padre suo e cercando di preparare il cuore dei discepoli a ciò che sta per accadere nella Pasqua imminente, i discepoli sembrano accontentarsi di aver capito in senso teorico il mistero di Cristo. Per questo il Signore reagisce e lo fa in modo assai forte ed esplicito. Con tono deciso e appassionato il Maestro cerca di far comprendere che non si sta parlando di una teoria, ma il suo desiderio è di mettere le basi di un vissuto che sia veramente un’esperienza condivisa: <Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me> (16, 32). A questo punto possiamo intuire la portata della domanda che l’apostolo pone non solo ai discepoli di Efeso, ma pure a noi: <Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?> (At 19, 2). La risposta non deve sorprenderci più di tanto perché, in realtà, potrebbe essere la stessa risposta di tanti credenti e praticanti dei nostri giorni: <Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo> (19, 2).

Anche a noi può succedere di accontentarci di vivere nella logica del <battesimo di Giovanni> (19, 3) attraverso cui ci concentriamo su quella che potremmo definire un generoso impegno a diventare “più bravi” tanto da sentirci soddisfatti del nostro cammino. Lo Spirito del Risorto, invece, ci dà la possibilità e rappresenta la sfida a portarci un poco oltre: <non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue e a profetare> (19, 6). L’incontro con il Signore Risorto e l’apertura radicale a ricevere e a lasciarsi guidare e trasformare dal suo Spirito, porta la vita più lontano e fa salpare la nostra esperienza di fede verso profondità non ancora esplorate. Questo andare più lontano esige una capacità di rischiare <adesso> senza accomodarsi su ciò che ci sembra finalmente di aver capito tanto da essere, più una sfida già superata che non una sfida in atto.

Ed ecco le parole del Signore Gesù diventano una consolazione ed una spada: <Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!> (Gv 16, 33). La grande eredità che ci viene lasciata dal Signore è la sua vittoria sul quel modo di vivere, di pensare, di credere, di amare cui rischiamo di esserci così abituati da non essere più in grado di andare oltre. Prevedendo e prevenendo la nostra fragilità discepolare, il Cristo ci vaccina contro la disperazione con una rivelazione: <Il Padre è con me!>. Non abbiamo dunque più bisogno di temere di giocarci fino in fondo in quelle che sono le sfide del nostro quotidiano perché siamo certi di una compagnia che riscatta la nostra vita da ogni forma di fuga, né in avanti né all’indietro.

Il tuo nome è Benedizione, alleluia!

Ascensione del Signore

Il Signore Gesù si separa dai suoi discepoli nell’atto di benedirli e proprio <Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo> (Lc 24, 51). Quella del Signore Gesù è una benedizione che mantiene e, nello stesso tempo, trasforma la relazione tra i discepoli e il loro Maestro. Il segno distintivo di questo nuovo modo di comunione sono la gioia e l’adorazione: segni esterni di una vita ormai tutta segnata dalla capacità di benedire e di ringraziare. Il Signore ritorna nel seno del Padre dopo aver rivelato, nel mistero della sua incarnazione, pienamente manifestatosi nel mistero pasquale, quale amore il Padre ha per il mondo di cui noi siamo parte. Il Verbo torna <in cielo> con il nostro corpo preparando così un posto, uno spazio, una possibilità di “essere” – per la nostra umanità – al cuore stesso della vita divina. In tal modo la benedizione delle origini sulla creazione intera oggi raggiunge la sua pienezza e il suo culmine, toccando il cuore delle creature e dando a ciascuno di noi la gioia di poter sperare in un compimento che tocchi l’interezza del nostro essere e la totalità della nostra storia.

Il mistero dell’ascensione suona allora come una vera e urgente chiamata a partecipare del medesimo amore che unisce il Padre e il Figlio ed è continuamente riversato nei nostri cuori con, e nella potenza dello Spirito. Si tratta di un amore sufficientemente decentrato da se stesso che consente l’assenza sensibile di Cristo senza renderlo per nulla assente dalla nostra vita, anzi, così tanto presente ed efficace da poter assicurare che ormai <abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente> (Eb 10, 19-20). Questa certezza interiore di comunione, che si fa partecipazione serena e libera alla stessa vita di Dio, ci permette di rispondere alla benedizione con l’adorazione che si fa fervida attesa del dono che viene dall’alto e che ci permette di orientare la nostra vita sempre oltre, il dono dello Spirito.

A noi, quindi, è ora richiesto di rivivere, nella nostra vita, l’esperienza degli apostoli amando di dimorare nel tempio interiore del nostro cuore per potervi ricevere il dono della vita nuova: di una vita risorta. Al cuore della nostra fede condivisa vi è una certezza che nasce da una promessa: <Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo> (At 1, 11). La gioia dell’Ascensione è una gioia che libera il cuore perché non lo incatena nemmeno ad un’esperienza compiuta di Dio, ma lo spinge verso quell’oltre di cui è rimando il simbolo del <cielo>. Non ci è chiesto di distaccarci o disinteressarci della vita quotidiana, ci è semplicemente dato di essere profondamente coinvolti e, allo stesso tempo, profondamente liberi, perché chiaramente orientati così da essere tanto coinvolti, quanto assolutamente distaccati da ogni paura di fallire o di soffrire. L’amore non passa, si invera! A noi è chiesto di essere testimoni della potenza della misericordia e del perdono che abbiamo appreso dalle parole e dai gesti del Maestro e di cui ora, in attesa del suo mite e festoso ritorno, siamo chiamati ad essere testimoni possibilmente credibili, ma soprattutto testimoni interessanti per quella gioia sottile e contagiosa che dovrebbe segnare e contraddistinguere il nostro tratto, tanto da riconoscervi uno sprazzo di cielo… sempre così vicino e così lontano.

Ton nom est Bénédiction, alléluia !

Ascension du Seigneur –

Le Seigneur Jésus se sépare de ses disciples en les bénissant : «  Pendant qu’il les bénissait, il se détacha d’eux et fut soulevé au ciel » ( Lc 24, 51 ). La bénédiction du Seigneur Jésus maintient et, en même temps, transforme la relation entre les disciples et leur Maître. Le signe distinctif de cette nouvelle manière de communion est la joie et l’adoration : signes extérieurs d’une vie désormais marquée par la capacité de bénir et de remercier. Le Seigneur retourne dans le sein du Père après avoir révélé, par le mystère de son incarnation, manifesté pleinement dans le mystère pascal, l’amour que le Père a pour le monde dont nous faisons partie. Le Verbe retourne «  au ciel » avec notre corps, préparant ainsi une place, un espace, une possibilité d’« être » – pour notre humanité – au coeur même de la vie divine. De cette façon, la bénédiction des origines sur la création entière, rejoint aujourd’hui sa plénitude et son point culminant en touchant le coeur des créatures donnant à chacun de nous la joie de pouvoir espérer un accomplissement qui touche l’intégralité de notre être et la totalité de notre histoire.

Le mystère de l’Ascension résonne alors comme un véritable et urgent appel à participer au même amour qui unit le Père et le Fils, continuellement reversé en nos coeurs avec et dans la puissance de l’Esprit. Il s’agit d’un amour suffisamment décentré de soi-même qui consent à l’absence sensible du Christ sans aucunement le rendre absent de notre vie, au contraire, si présent et efficace pour pouvoir assurer que maintenant «  nous avons la pleine liberté d’entrer dans le sanctuaire grâce au sang de Jésus, chemin nouveau et vivant ( He 10, 19-20). Cette certitude de communion intérieure qui devient participation sereine et libre à la vie même de Dieu, nous permet de répondre à la bénédiction par l’adoration qui nous fait devenir attente fervente du don qui vient de l’autre et nous permet d’orienter notre vie toujours plus loin, le don de l’Esprit.Il nous est donc demandé de revivre dans notre vie, l’expérience des apôtres, aimant demeurer dans le temple intérieur de notre coeur pour pouvoir y recevoir le don de la vie nouvelle : une vie ressuscitée. Au coeur de notre foi partagée il y a une certitude née d’une promesse : «  Ce Jésus qui, au milieu de vous, est monté au ciel, viendra de la même manière que vous vous l’avez vu monter au ciel » ( Ac 1, 11 ). La joie de l’Ascension est une joie qui libère le coeur car il ne l’enchaîne pas à une expérience accomplie par Dieu, mais il le pousse vers cet autre qui est resté le symbole du «  ciel ». Il ne nous est pas demandé de nous détacher ou de nous désintéresser de la vie quotidienne, il nous est simplement donné d’être profondément impliqués et, en même temps, profondément libres, car clairement orientés pour être si impliqués afin de nous détacher absolument de toute peur d’échec ou de souffrance. L’amour ne passe pas, il devient réalité ! En attendant le doux retour festif du Maître, il  nous est demandé d’être les témoins de la puissance, de la miséricorde et du pardon que nous avons appris par les paroles et les gestes du Maître et dont, aujourd’hui, nous sommes appelés à être les témoins, si possible crédibles, et, surtout témoins intéressés par cette joie légère et contagieuse qui devrait attester et distinguer notre particularité, comme l’on reconnaîtrait un éclair dans le ciel…toujours si proche et si lointain.

Incontri

Visitazione della B.V. Maria –

Una delle caratteristiche particolari e toccanti di tutto il vangelo secondo Luca sono i molti e intensi incontri che segnano la vita del Signore Gesù. Questa disponibilità – si potrebbe parlare persino di passione- ad “incontrare” non solo segna, ma sembra persino precedere la vita del Salvatore. I primi due capitoli del Vangelo di Luca ci mostrano un Dio che si vuole fare incontro all’umanità visitandola in quelle che sono le situazioni più significative e normalmente più dolorose. Per questo Zaccaria viene visitato da Gabriele come avverrà per Maria e per i pastori che vegliano nella notte. Nella Visitazione si vede come chi è veramente visitato e trasformato dalla visita del Signore non può che mettersi in cammino in tutta <fretta> verso la <montagna> (Lc 1, 39). Questa montagna può ben significare la vita dell’altro per raggiungere il quale si esige la fatica di un viaggio interiore che è sempre un esodo. Il mistero della Visitazione è un modo per suggerire ad ogni credente quanto, la storia della salvezza, passi attraverso l’incontro che si concretizza negli incontri che segnano la nostra vita.

L’incontro e l’abbraccio di Maria ed Elisabetta è profezia non solo del segreto abbraccio e riconoscimento prenatale tra il Verbo di Dio e il Precursore Giovanni, ma tra tutte le dimensioni e le realtà della nostra esistenza. È, infatti, questa capacità di relazione che ci costituisce come persone umane interiormente lavorate dallo Spirito che in Maria genera – nella carne e secondo la carne – lo stesso Verbo eterno del Padre. Come afferma giustamente Francesco di Sales: <È caratteristico dello Spirito Santo, quando colpisce un cuore, cacciarne ogni tiepidezza. Egli ama la prontezza, ed è nemico degli indugi, dei ritardi nell’adempiere la volontà di Dio> Per questo <Maria si alzò e andò in fretta>. Troviamo nel tempo che precede la stessa nascita del Signore Gesù gli stessi verbi che dominano i racconti della risurrezione e ritmano ogni avventura di discepolanza. Lasciamoci non solo incantare, ma profondamente contagiare dall’atteggiamento di Maria, lasciando che lo stile di Dio diventi il nostro stesso stile: andare incontro senza mai aspettare, né tantomeno aspettarci che sia l’altro a fare il primo passo per venirci incontro.

Il primo a fare un passo nei nostri confronti è il Signore stesso che, secondo l’esultante profezia di Sofonia, <in mezzo a te è un salvatore potente> tanto che <Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia> (Sof 3, 17). La conseguenza di questo atteggiamento del Signore nei confronti della nostra umanità è tratteggiata dall’apostolo Paolo quando esorta e ci esorta: <amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiare nello stimarvi a vicenda> (Rm 12, 10). Una domanda sorge spontanea dal nostro cuore: <Come sarebbe possibile tutto ciò?>. La risposta sembra essere adombrata nella nota discreta ma importantissima che, accanto a Maria, Elisabetta, Giovanni e lo stesso Gesù, ci ricorda la presenza di un quinto – forse il primo – protagonista di ogni visitazione: <fu colmata di Spirito Santo>. Lo Spirito Santo ha già ricolmato Maria nel momento dell’annunciazione e si dona a ciascuno di noi come principio dei tempi nuovi il cui segno distintivo e il sigillo di autenticità non è altro che un modo nuovo di incontrarsi… di visitarsi… di abbracciarsi… di amarsi.

Il tuo nome è Donna, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

La Liturgia ci fa riascoltare le parole pronunciate dal Signore Gesù nel Cenacolo per aiutarci ad entrare nel mistero della risurrezione non come prova e rivincita contro coloro che hanno crocifisso il Signore, ma come conferma di quell’amore che si è formato tra Gesù e i suoi discepoli, tra Gesù e i suoi amici, tra Gesù e noi. Quando il Signore si racconta, parla di sé con immagini – basti ricordare quella della vite e dei tralci – che ci commuovono e allo stesso tempo ci interpellano per la loro valenza intima e perché ci richiamano continuamente alla necessità di sentire e di vivere nella linea della profondità. Al cuore dei discorsi con cui il Signore prepara il cuore dei discepoli a sostenere lo scandalo della passione vi è questo momento in cui Gesù per parlare di se stesso non trova un’immagine più bella e più espressiva di questa: <La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo> (Gv 16, 21). Questa immagine non è assolutamente nuova, ma è il contesto stesso in cui il Signore Gesù parla con i suoi discepoli alla vigilia della sua passione.

Infatti, se a questo punto il Signore Gesù paragona se stesso ad una <donna> nelle doglie del parto ormai prossimo, è perché ha preposto a tutte le sue parole un gesto fondamentale senza il quale non ci sarebbe possibile comprendere che cosa stia veramente dicendo ai suoi discepoli. Il gesto è la lavanda dei piedi che il Signore compie non come gesto eminentemente servile, ma intimamente sponsale. Non bisogna dimenticare che soprattutto nell’imminenza della sua passione, il Signore apprende il modo proprio per dire il suo amore dalle donne… dai gesti di esagerazione e di eccesso dell’amore come quello dell’unzione del suo corpo in vista della sepoltura. Se così è per il Maestro, non può che essere così anche per i suoi discepoli, tanto che l’apostolo Paolo, già chiamato in visione sulla strada di Damasco, è anch’egli come una donna che deve partorire, tanto da conoscere, ancora una volta, i dolori del parto e l’angoscia di dover continuare a rischiare sulla parola del suo Signore.

Per questo il Signore Gesù si fa di nuovo presente con una visione rinnovata che è un modo per dilatare e approfondire il suo modo di sentire e di interpretare quanto sta avvenendo e lo rende così padre: <Non avere paura continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso> (At 18, 9). Sembra proprio che il Signore stia accanto all’apostolo quasi per assisterlo in un momento difficile quanto un parto segnato dal dolore e dal rischio della vita. Gli Atti degli apostoli, ancora una volta, ci ricordano che <i Giudei insorsero unanimi contro Paolo e lo condussero davanti al tribunale> (18, 12) quasi come fosse una sala parto, in cui però l’apostolo – come ogni discepolo nel tempo della tribolazione – non è solo, ma è sostenuto e incoraggiato dalla presenza del Signore come uno sposo accanto alla sua donna che partorisce.

Il tuo nome è Meglio, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Mentre si presentano le offerte per l’Eucaristia, la Chiesa, attraverso le parole di chi presiede la divina liturgia, esprime il suo desiderio più profondo e prega così: <perché rinnovati nello spirito, possiamo rispondere sempre meglio all’opera della tua redenzione>. Il cammino della vita fa tutt’uno con quello della vita ed è un processo di continua crescita e trasformazione. Il Signore Gesù ce lo ricorda con parole tenere e forti al contempo: <Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia> (Gv 16, 20). In realtà noi facciamo esperienza non solo di una tristezza che può cambiarsi in gioia, ma pure di alcune gioie che si possono tingersi dei colori della tristezza… e questo fa parte del mistero e della sfida della vita. In ogni modo la cosa più importante, e che fa da fondamento al combattimento della speranza, è che possiamo coltivare la certezza di un sempre possibile cammino. Quest’apertura da rinnovare ogni mattina ci permette di non diventare prigionieri né della tristezza né della gioia, ma di essere continuamente protagonista attivi e appassionati della nostra vita a servizio del <meglio> della vita anche degli altri.

Il mistero della risurrezione, che in questi giorni pasquali celebriamo con rinnovata gioia, non è altro che un fare memoria di come, persino nella morte, si è nascosto – fino a trionfare – un principio attivo di vita. Il mistero pasquale, che ci mette di fronte al peggio in termini di rifiuto e di disumanità, ci rassicura del fatto che se il peggio non è mai morto, il meglio è sempre possibile. Questo dinamismo è nascosto come un pugno di lievito nella pasta della vita consueta e ordinaria e viene evocato dal Signore Gesù con quel misterioso rimando che mette in agitazione il cuore dei discepoli: <Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete> (16, 16). I discepoli sono destabilizzati da questo rimando ad un processo che ingloba una buona dose di incertezza: <Non comprendiamo quello che vuol dire> (16, 18). Il Maestro invece spiega, prima di tutto con la sua disponibilità alla Pasqua, quello che vuol dire con ciò che accetta di vivere, fino ad essere disponibile a morire.

Come Paolo anche noi siamo chiamati ad essere <fabbricanti di tende> (At 18, 3) senza presumere troppo di noi stessi e accogliendo di doverci interiormente spostare non solo da un posto all’altro, ma anche da una situazione all’altra. Persino il fatto di <dedicarsi tutto alla Parola> (At 18, 5) non ci garantisce di essere accolti da tutti, ma esige la disponibilità a rischiare sulla Parola, aprendoci a nuove strade e a soluzioni finora impensate con docilità e amore. Agostino lo ricorda a se stesso e ai discepoli di tutti i tempi: <Questo che è il frutto del suo travaglio, la Chiesa lo partorisce al presente nel desiderio, allora lo partorirà nella visione; ora gemendo, allora esultando; ora pregando, allora lodando Dio. Sarà perciò un fine eterno, perché non ci potrà bastare che un fine senza fine>1.


1. AGOSTINO, Commento al vangelo di Giovanni, n° 101.

Il tuo nome è Respiro, alleluia!

VI Settimana di Pasqua –

Ciò che il Signore ha promesso ai suoi discepoli è una sorta di viatico per il loro ministero a servizio della gioia di tutti e di ciascuno: <Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future> (Gv 16, 13). Non si tratta certo di una sorta di negromanzia addomesticata, bensì di una capacità di leggere continuamente il reale senza mai appiattirsi su se stessi e, soprattutto, sulle proprie paure e i propri timori. La testimonianza di Paolo <in piedi in mezzo all’Aeròpago> è non solo di grande intensità, ma soprattutto di rara capacità provocatoria non solo per gli <Ateniesi> di tutti i tempi, ma pure per discepoli che cerchiamo di diventare in verità. La prima cosa è una constatazione: <vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un Dio ignoto”> (At 17, 22). Non bisogna sottovalutare questa constatazione dell’apostolo Paolo né tantomeno ridurla ad una sorta di modalità adulatoria nei confronti degli Ateniesi.

È una verità e un’evidenza inconfutabile il fatto che gli antichi nel loro paganesimo erano molto religiosi, così religiosi da mettersi al riparo da ogni dimenticanza di eventuali divinità ignote che si sarebbero potuto rattristare anche inconsapevolmente. Siamo di fronte a ciò che avviene ancora ai nostri giorni quando la conversione alla fede cristiana non è un motivo sufficiente per trascurare le abitudini e le pratiche religiose già conosciute, quasi per un bisogno di evitare di scontentare alcuno e di poter contare sull’aiuto di tutti gli dèi possibili e immaginabili. Paolo non si mostra scandalizzato, ma cerca di partire dallo spirito religioso per cominciare un cammino di fede il cui primo passo è una negazione necessaria che apre ad un’affermazione capace di schiudere un nuovo cammino. Questo processo che parte dall’essere religiosi e porta ad una opzione di fede passa attraverso una ricomprensione di quell’immagine di Dio che non è semplicemente la proiezione idolatrica di noi stessi.

La negazione suona così: <non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa>. L’affermazione rigenerante e rivoluzionaria è la seguente: <è lui che dà a tutti la vita e il respiro ad ogni cosa> (At 17, 24-25). Nelle parole del Signore Gesù troviamo quella che potremmo definire una descrizione fisiologica della vita di Dio. Il Signore ci ricorda: <Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso> (Gv 16, 12). Non sappiamo già tutto, ma il Signore si sta ancora rivelando e potremmo pregarlo di farlo a poco a poco per darci il tempo di abituarci alle esigenze della sua Parola. Lungi da noi il pensare che sappiamo già tutto di ciò che il Signore vuole dirci e vuole chiederci per essere veramente suoi testimoni animati dal suo respiro!