Affascinati

XXXII settimana T.O. –

Cosa c’è di più bello e di più santo che essere <affascinati> (Sap 13, 3) dalla <bellezza> dell’universo, come pure essere emozionati da tutte le bellezze che abitano il nostro cuore di umani? Eppure, la Sapienza ci mette in guardia dal rischio di fermarci troppo presto e di lasciarci così irretire <dall’apparenza> solo <perché le cose viste sono belle> (13, 7). L’invito è di partire dal fascino per andare oltre, verso una comprensione sempre più piena del mistero della vita in cui si riflette il dono generoso di Dio come Creatore e <sovrano> (13, 8) di tutte le cose. Ciò che l’Altissimo si aspetta da noi non è, certo, una servile sottomissione alla sua gloria, bensì un pieno esercizio dei doni di cui, nella creazione e nella redenzione, ci ha ricolmati perché potessimo portarli a pienezza con la nostra intelligenza e il nostro amore. L’esortazione della Sapienza suona come un continuo ampliamento della coscienza: <pensino quanto è superiore il loro sovrano, perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza> e ancora <pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati> (13, 3-4).

Questo appello alla nostra intelligenza di creature è un atto di rispetto e di onore verso di noi da parte del Creatore il quale esige, come ricambio, il fatto che sappiamo fare tesoro delle nostre possibilità senza fermarci troppo in fretta alle apparenze tanto da confondere il segno con il Significato. Se cadessimo in questa trappola non faremmo che confonderci su noi stessi come avvenne ai tempi dei patriarchi: <mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti> (Lc 17, 27). Forse il vero motivo di questo disorientamento così radicale è che i nostri padri avevano scambiato se stessi per degli <dèi> (Sap 13, 3). Pietro Crisologo commenta così l’atteggiamento di Dio: <Al momento del diluvio, la sua vendetta purificò la terra dal male che sembrava ormai così inveterato. Per questo chiamò Noè a generare un mondo nuovo, lo incoraggiò per questo con dolci parole. Così lo onorò con la sua fiducia familiare, lo istruì con bontà sul presente e lo consolò, con la sua grazia, riguardo al futuro. Piuttosto che dargli degli ordini lo rese partecipe del suo progetto e racchiuse così nell’arca il seme del mondo intero, affinché l’amore della sua alleanza facesse superare il timore della schiavitù cosicché una comunione d’amore potesse conservare ciò che lo sforzo comune era riuscito a salvare>1.

Ancora continua il dramma di ciò che potremmo definire il mistero continuo e sempre presente della salvezza della nostra umanità in cui siamo personalmente e perennemente coinvolti. Il Signore ci consegna la regola perché <l’ignoranza> (Sap 13, 1) non ci inganni: <Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva> (Lc 17, 33). Una vita viva è sempre rivelazione di Dio, ma ciò che ci rende veramente vivi come <il fuoco o il vento o l’aria veloce> (Sap 13, 2), è il saper dare la vita ritrovando continuamente, a contatto e alla scuola della verginale bellezza della natura, la nostra remota consapevolezza che è la nostra gioia più segreta: essere creature di Dio, affascinate dalla sua infinita bellezza e non prigioniere della propria piccola prestanza.


1. PIETRO CRISOLOGO, Sermoni, 147; PL 52, 594.

Veloce

XXXII settimana T.O. –

Il Signore risponde alla provocazione degli scribi e dei farisei con una nota che ha persino qualcosa di comico: <Vi diranno: “Eccolo là”, oppure “Eccolo qui”; non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno> (Lc 17, 23-24). Come i farisei all’epoca di Gesù e i profeti di ventura e sventura di tutti i tempi, anche noi siamo tentati di programmare in giorni, più o meno vicini o più o meno lontani, la manifestazione del regno di Dio. Ma nulla e nessuno possono tenere sotto controllo l’irrompere della presenza di Dio nel nostro quotidiano tanto da renderlo un anticipo reale di ciò che attendiamo e speriamo. Per sostenere e rettificare ogni nostra attesa, il Signore Gesù non ci tiene nell’ignoranza, né consegna il nostro cuore ad un’inutile sospensione: <Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!> (17, 21). A questo punto potremmo riprendere, versetto per versetto, la prima lettura e pregare come una litania, applicando le qualità della Sapienza di Dio – al suo rivelarsi in Cristo Signore – come piena manifestazione del suo essere presente non solo in mezzo a noi, ma prima di tutto e soprattutto, dentro di noi.

Forse la prima di queste qualità potrebbe essere questa: <La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa> (Sap 7, 24). Per questo motivo non è assolutamente possibile controllarne o dirigerne il movimento. Al contrario, l’unico modo è di lasciarsi prendere dal suo flusso di vita, tanto da entrare completamente nel movimento di quella grazia che <E’ effluvio della potenza di Dio ed emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa> (7, 25). Quello che la Sapienza indica come <effluvio> per noi ha un volto e un nome: Gesù! La sua presenza non è qualcosa che possiamo inseguire o dirigere a nostro piacimento, ma solo accogliere con gratitudine e umiltà poiché veramente è <più radiosa del sole e supera ogni costellazione>, come pure <paragonata alla luce risulta più luminosa> (7, 29).

Non ci sarebbe nulla di più ridicolo che andare a caccia di stelle come i bambini, con le loro reti, vanno gioiosamente a caccia di farfalle. Davanti al cielo trapuntato di stelle l’unico atteggiamento serio e degno è quello della contemplazione, dell’ammirazione, dell’accoglienza. Così per il mistero del regno di Dio la domanda giusta non è <Quando verrà…?> (Lc 17, 20). La questione è di mettersi nella condizione di accogliere il “come” – concreto e quotidiano – con cui il Regno di Dio si invera nella nostra vita e nella nostra storia: <Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione> (17, 25). È qui che si fa la differenza: nella capacità di accogliere il dono del regno di Dio nella forma in cui il Signore Gesù ce lo ha annunciato e lo ha reso presente alla nostra vita nella sua persona. Sì, è la croce che <governa a meraviglia l’universo> (Sap 8, 1) e <passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti> (7, 27).

Sempre Lui

XXXII settimana T.O. –

Forse, in realtà,  è lo stesso Signore – lui che è anche l’unico verso buon samaritano (Lc 10, 33) – ad essere questo unico lebbroso che torna per ringraziare. In ogni modo, tra quell’unico che tornò indietro sui suoi passi e il Signore Gesù, possiamo riscontrare un’intesa senza la quale nessuna esperienza di profonda e totale salvezza sarebbe mai possibile. Non per altro è a quest’uomo che il Signore rivolge la parola, una parola che riconosce, normalmente, la bontà e la verità dell’intuizione e del cammino: <Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato> (Lc 17, 19). Siamo ammirati e conquistati da quest’uomo che ritorna sui suoi passi e che, dopo l’incontro personale e così grato con il Signore Gesù, non solo non enfatizza l’elogio che gli viene accordato, ma neppure – approfittando e amplificando la lode di cui è oggetto – mette in cattiva luce i suoi compagni di malattia che sono divenuti compagni di guarigione. Del resto non poteva essere molto diverso! Nella sventura poteva accompagnarsi ad altri, ma una volta guariti dalla lebbra, i suoi compagni l’hanno lasciato solo non solo a ringraziare, ma pure a vivere, perché egli è <samaritano> e, in certo modo, ai loro occhi resta “lebbroso”. 

E allora, proprio e solo allora, questo samaritano riesce a comprendere che l’unico con cui può condividere la sua esperienza e la sua gratitudine è il Signore Gesù, esperto di ogni debolezza e fine conoscitore di ogni emarginazione, soprattutto quella dovuta agli imperativi religiosi. La domanda sembra naturale, ma forse è ben più gravida di conseguenze di quanto si possa immaginare a prima vista: <E gli altri nove dove sono?> (17, 17). Si potrebbe parafrasare a questo punto ciò che la Sapienza dice di quanti sono posti più in alto e parlare di quanti sono stati oggetto di una benevolenza e di una grazia veramente particolari: <poiché il giudizio è severo contro coloro che stanno in alto. Gli ultimi infatti meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore> (Sap 6, 5-6).

Come può insinuare il Signore Gesù che i nove lebbrosi non hanno la fede? Di fatto non hanno atteso di essere guariti per presentarsi ai sacerdoti, ma vi sono andati direttamente sulla sua parola… non sono i sacerdoti che danno la guarigione ma solo la constatano (Lv 14). In una parola i dieci lebbrosi mettendosi in cammino dimostrano tutta la loro fede, ma ciò che fa la differenza è la capacità di riconoscenza. Il Samaritano tornando indietro dice che per lui lodare Dio e ringraziare Gesù sono cose inseparabili. Tutto questo rivela ciò che manca agli altri nove: la capacità di essere solidali con il loro “fratello” samaritano. Con lui hanno condiviso la supplica, ma, una volta guariti, lo lasciano tornare sui suoi passi da solo visto che non sarebbe potuto entrare al tempio con loro perché: <Era un Samaritano> (Lc 17, 16). Una reminiscenza del Vangelo secondo Giovanni ci aiuta a cogliere la più grande profondità di questo episodio perché i notabili del popolo, a corto di accuse e di tranelli, non troveranno di meglio – ossia di peggio – che scagliarsi contro Gesù con queste parole: <Non diciamo con ragione che sei un Samaritano e hai un demonio?> (Gv 8, 48). Per aprire a tutti la via della vita, non solo il Cristo si è fatto buon samaritano di tutte le nostre ferite, ma ha accettato – per noi e per la nostra salvezza – di farsi considerare anche “cattivo samaritano”… sempre Lui!

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Provati

XXXII settimana T.O. –

La prima lettura spinge lo sguardo del nostro cuore fino a quello che viene indicato come <il giorno del loro giudizio> (Sap 3, 7). Da parte sua il Signore Gesù, nel vangelo, ci fa cogliere non solo e non tanto il tempo, ma anche il modo con cui saremo giudicati nel nostro essere meno degni dell’<incorruttibilità> (2, 23) e dell’<immortalità> (3, 4). Sono queste due nozioni non radicate né radicali nella sensibilità di Israele e che tuttavia, a poco a poco, soprattutto al tempo della predicazione del Signore Gesù, diventano un criterio di discernimento della bontà e della verità del proprio rapporto con Dio. Vivere pienamente questo rapporto con l’eterno, non si limita più ad un corretto modo di comportarsi nel tempo, un modo che garantirebbe una vita serena e felice, ma è qui considerato talmente profondo e vero da avere – in modo del tutto naturale – una valenza eterna. Il concetto di eternità così caro agli Egizi e ai Greci diventa sempre di più anche l’orizzonte della fede di Israele: <In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici> (3, 5).

La solenne promessa non è scevra da qualche malinteso e da una certa ambiguità. Non si tratta infatti di un contrappasso tale per cui più si soffre in vita e più si dovrebbe godere nel futuro di Dio. Si tratta invece di un modo di concepire la vita – che comunque rimane un’avventura da vivere fino in fondo – qui e ora – senza rimandi inutili, e pur sempre con una certezza di pienezza.  Ciò che fa la differenza non è una sorta di “fachirismo” spirituale spinto ad oltranza che, pur con le sue punte di originalità e di venerabilità, ha segnato tante esperienze di fedeltà al Vangelo lungo i secoli, ma è il fatto di essere <provati> e <trovati degni di sé> (3, 5). Ed è a questo che ci invita il Signore Gesù, come è su questo che ci esamina: sulla nostra capacità di essere <degni di sé>! Il modo per capirlo sembra essere assai semplice: <Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”> (Lc 17, 10).

Si può intendere questa parola del Signore come l’invito ad una muta e subìta sottomissione, oppure come il modo per manifestare il proprio essere <provati> (Sap 3, 5) nella relazione. Una matura e provata relazione è capace di accettare la sfida di mettere sempre l’altro al primo posto, non facendo troppo caso a se stessi e, al contempo, giocando interamente se stessi in relazione all’altro, per manifestare la verità della propria identità. L’immagine del padrone che non sente neppure il bisogno di ringraziare perché si arroga il diritto di essere servito – nel linguaggio parabolico – può sembrare un po’ dura: <Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?> (Lc 17, 9). In realtà non è del padrone che il Signore ci vuole parlare, bensì di noi chiamati ad essere a nostro agio in un atteggiamento sereno di servizio che non si interessa dell’intemperanze di chi comanda, ma della dedizione con cui si serve l’altro, manifestando così di non ritenersi in nulla il centro del mondo. La sfida è di accettare il proprio ruolo vivendo fino in fondo il compito che la vita ci ha affidato senza troppe complicazioni. Tutto questo può sembrare duro, talora è anche un po’ ingiusto, eppure è l’unico modo per essere liberi davvero.

Pensare al Signore

XXXII settimana T.O. –

Se l’inizio della sapienza è il timore del Signore, è molto bello notare come, secondo il libro della Sapienza di cui cominciamo oggi la lettura liturgica, tutto ciò comincia con una dolce esortazione: <pensate al Signore con bontà d’animo e cercatelo con cuore semplice> (Sap 1, 1). Il Signore Gesù, con la sua parola e i suoi gesti di attenzione e di misericordia, sembra modulare in modo ancora più preciso il senso e il modo di questo pensare al Signore. Questo pensare si fa ricerca del Signore secondo tutte le Sapienze in cui si nasconde e si rivela un raggio dell’unica divina Sophìa. Infatti, sembra che il modo più vero ed efficace di pensare al Signore sia imparare a pensare come il Signore: <Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli>. Per evitare ogni riduzionismo della carità e della generosità, il Signore si premura di aggiungere: <E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai> (Lc 17, 3-4).

Questa parola del Signore sulla necessità di perdonare, senza smettere mai di essere disposti a rinnovarne il dono, è come una perla incastonata tra due altre parole. La prima è una presa di coscienza del reale, assai dura e perentoria: <E’ inevitabile che vengano scandali…> (17, 1), cui segue un’esortazione altrettanto radicale: <State attenti a voi stessi!> (17, 2). La seconda è la reazione dei discepoli che, in realtà, è una preghiera accorata: <Accresci in noi la fede!> (17, 5). Tenendo insieme il respiro della prima lettura con quello del Vangelo possiamo così dire che la sapienza di cui abbiamo bisogno per orientarci tra gli inevitabili <scandali> con cui dobbiamo fare i conti nella vita e nella storia, è la fede. Essa ci permette veramente di apprendere, non senza fatica, a pensare, e quindi ad agire, come il Signore, imparando a coniugare – sapientemente ed efficacemente – la lucidità su ciò che avviene dentro di noi e attorno a noi, senza mai cedere alla tentazione di diventare cinici o, peggio ancora, spietati 

La risposta del Signore Gesù, all’accorato appello dei discepoli, è generosa e pacificante: <Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare” ed esso vi obbedirebbe> (17, 6). La Sapienza sembra quasi applaudire con quel versetto con cui, ogni anno, ci introduciamo nell’Eucaristia della solennità di Pentecoste: <Lo Spirito del Signore riempie la terra e, tenendo insieme ogni cosa, ne conosce la voce> (Sap 1, 7). Lo Spirito del Signore riempie anche il mare ed è capace di colmare tutti i fossati che la vita, con le sue vicissitudini, crea nel nostro cuore fragile. Come pure, talora, allarga e approfondisce i fossati nelle nostre relazioni mai facili. Eppure nulla è impossibile se lasciamo che l’Altissimo non solo sia <testimone> (1, 6) dei nostri <sentimenti> più veri, ma ne diventi anche l’ispiratore e la guida.

Fuori

Dedicazione del Laterano

Il Vangelo scelto per accompagnare questa festa un po’ stupisce: invece di essere la decantazione della bellezza e dell’importanza del luogo sacro in cui cerca Dio nella speranza di incontrarlo, sembra proprio il contrario: <Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio> (Gv 2, 15). Il Signore Gesù sembra comportarsi come un “buttafuori” e davanti a questo gesto così forte da ricordare lo stile profetico di Geremia sempre alle prese con la questione del Tempio, <i Giudei presero la parola> (2, 18). Il testo che accompagna questa liturgia sembra pensato da Giovanni come un paradigma di quello che è tutto il ministero del Signore Gesù che, profeticamente, rivela un modo nuovo di comprensione del rapporto con Dio che si esprime in particolare nel modo di vivere il segno e i segni del culto. Il Vangelo comincia così: <Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme> (2, 13) e si conclude con questa nota che, posta all’inizio del Vangelo non può che essere fondamentale per la sua comprensione: <Quando fu poi risuscitato dai morti…> (2, 22).

Come tutti gli aspetti della vita di fede, così pure il modo di vivere il culto e di costruire e abitare i luoghi della preghiera devono obbedire ad una logica pasquale e non ad una logica, per così dire, sacerdotale e sacrale. L’apostolo Paolo sembra quasi metterci in guardia: <Ma ciascuno stia attento a come costruisce> (1Cor 3, 10) e aggiunge <nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo> (3, 11). Rimane aperta la domanda se sia il santuario a rendere santi i fedeli, o i fedele a rendere santo il tempio. Sempre, entrando in una chiesa per pregarvi personalmente o per partecipare alla liturgia comune, facciamo esperienza di sentirci un poco più vicini al Signore e al mistero della sua presenza in noi e tra di noi. Ogni volta che ci sentiamo un poco più vicini non possiamo che farci sempre più prossimi per far sì che la fragile pietra che siamo diventi forte e fondata a motivo della prossimità con il Signore della nostra vita che abita in mezzo al suo popolo. L’unico fondamento è Cristo ed è lui che oltre a dare la solidità della pietra dona pure la vivificante acqua che permette la vita e il dinamismo di vita secondo la parola del profeta: <vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente> (Ez 47, 1). Così siamo come delle pietre vive che affondano le loro radici nell’acqua nella ferma speranza di poter germogliare. Per questo dobbiamo tenerci legati a Cristo come le pietre l’una sull’altra e l’una con l’altra si poggiano sulla pietra di fondazione, ma siamo anche chiamati a lasciare che il Signore scacci da noi tutto ciò che impedisce alla pietra del nostro cuore di aderire totalmente a Lui: come il muratore pulisce le pietre prima di stendervi la malta e accostarle le une alle altre nella speranza che diventino una sola cosa.

Il segno che la Chiesa è fondata su Cristo è che sia un luogo di vita e il sintomo della vita è ciò che si canta nel salmo responsoriale: <Un fiume rallegra la città di Dio>. La Chiesa che i santi Padri definiscono come il Paradiso ritrovato è allietata da quel <fiume> che è Cristo e diventa così capace di rallegrare ed allietare l’umanità intera offrendosi come un luogo sereno, quasi un porto sicuro.

Dehors

Dédicace du Latran –

L’Evangile choisi pour accompagner cette fête nous étonne un peu : au lieu d’être la décantation de la beauté et de l’importance du lieu sacré où l’on cherche Dieu dans l’espoir de le rencontrer, c’est vraiment le contraire : «  Se faisant un fouet de cordes, il les chassa tous du Temple » ( Jn 2, 15 ). Le Seigneur Jésus semble se comporter comme un « videur » et, face à ce geste si fort qui rappelle le style prophétique de Jérémie toujours concernant la question du Temple, «  Les Juifs prirent la parole » ( 2, 18 ). Le texte qui accompagne  cette liturgie est pensé par Jean comme un paradigme de ce qui représente tout le ministère du Seigneur Jésus qui révèle, prophétiquement, une façon nouvelle de compréhension du rapport à Dieu qui s’exprime, particulièrement, dans la manière de vivre le signe et les signes du culte. L’Evangile commence ainsi : «  La Pâque des Juifs approchait et Jésus monta a Jérusalem » ( 2, 13 ) et se termine par cette annotation qui, mise au début de l’Evangile ne peut qu’être fondamentale pour sa compréhension : «  Quand il ressuscita d’entre les morts… » ( 2, 22 ).

Comme tous les aspects de la vie de foi, la manière de vivre le culte et de construire et habiter les lieux de la prière, doit aussi obéir à une logique pascale et non à une logique, pour ainsi dire, sacerdotale et sacrée. L’apôtre Paul nous met en garde : «  Que chacun soit attentif à sa construction » ( 1 Co 3, 10 ) et il ajoute «  personne ne peut proposer une fondation différente de celle qui s’y trouve déjà : Jésus Christ » ( 3, 11 ). La question reste ouverte : est-ce le sanctuaire qui rend les fidèles saints ou les fidèles qui sanctifient le temple ? En entrant dans une église pour y prier personnellement ou pour participer à la liturgie commune, nous faisons toujours l’expérience de nous sentir un peu plus proches du Seigneur et du mystère de sa présence en nous et entre nous. Chaque fois que nous nous sentons un plus plus proches, nous ne pouvons qu’approcher de la pierre fragile que nous sommes pour qu’elle devienne forte et fondée sur la proximité avec le Seigneur dans notre vie, lui qui habite au milieu de son peuple. La seule fondation est le Christ et c’est Lui qui, en plus de donner la solidité de la pierre, donne aussi l’eau vivifiante qui engendre la vie et le dynamisme de vie selon la parole du prophète : « Et voici que des eaux sortaient de dessous le seuil  de la maison, du côté de l’orient, car la face de la maison regardait l’orient. »  ( Ez 47, 1 ). Nous sommes, ainsi comme des pierres vivantes qui fondent leurs racines dans l’eau de la ferme espérance de pouvoir germer. Pour cela nous devons rester liés au Christ, comme les pierres s’entassent l’une sur l’autre et l’une contre l’autre sur la pierre de fondation, mais nous sommes aussi appelés à permettre au Seigneur  de nous débarrasser de tout ce qui empêche la pierre de notre coeur d’adhérer totalement à Lui : comme le maçon nettoie les pierres avant d’y étaler le mortier et de les emboîter les unes aux autres dans l’espoir qu’elles deviennent un ensemble unique.

Le signe que l’Église est fondée sur le Christ est qu’elle est un lieu de vie et le symptôme de cette vie est ce que l’on chante dans le psaume responsorial : «  Un fleuve réjouit la cité de Dieu ». L’Église et les saints Pères définissent comment le Paradis retrouvé  est égayé par ce «  fleuve » qui est le Christ et devient ainsi capable de rendre l’humanité tout entière joyeuse s’offrant comme  un endroit serein, quasiment, un port sûr.

Relazione

XXXI settimana T.O. –

Il rapporto con le ricchezze non solo economiche, ma persino intellettuali e spirituali ha rappresentato sempre un quesito cruciale per tutti coloro che si sono fatti obbedienti e docili discepoli del Vangelo. Talora si è arrivati ad immaginare nella vita del Signore Gesù una povertà che non ci è attestata nei Vangeli, cadendo in forme di pauperismo non solo eccessive, ma persino fanatiche. In realtà, ciò che sta veramente a cuore al Signore è che nessuno dei suoi discepoli si rinchiuda, attraverso la ricchezza, in un atteggiamento di autoreferenzialità superbo o superficiale. Al contrario, tutti i beni che la vita mette a nostra disposizione dovrebbero essere un mezzo per approfondire la nostra capacità di comunicazione, di relazione, di comunione. Un padre della Chiesa della prima ora, riflettendo sul rapporto dei cristiani con le ricchezze, richiama non tanto la necessità di rinunciarvi, ma di viverne il dono e la possibilità alla luce delle parole e degli esempi di Cristo: <Egli è la via su cui cammina chi ha il cuore puro; la grazia di Dio non si infila in un’animo ingombrato e lacerato da una moltitudine di possessi. Chi considera la sua fortuna, il suo oro e il suo argento, le sue case come doni di Dio, costui testimonia a Dio la sua riconoscenza venendo in aiuto ai poveri con i suoi averi. Egli sa di possederli più per i suoi fratelli che per se stesso. Rimane padrone delle sue ricchezze invece di diventarne schiavo>1.

L’apostolo Paolo, concludendo con il saluto la sua Lettera ai Romani ci testimonia di questa stupenda possibilità di saper mettere a disposizione gli uni degli altri i propri beni, le proprie energie, le proprie possibilità fino a ricordare con una comprensibile commozione come Prisca e Aquila <per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa> e aggiunge <a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano> (Rm 16, 4). Paolo evidenzia come il gesto di bontà e di solidarietà dimostrato verso la sua persona, è capace di creare una sorta di catena di gratitudine. Possiamo custodire con profonda attenzione l’invito del Signore: <Fatevi dunque degli amici…> (Lc 16, 9), perché il rischio è proprio quello di farsi dei nemici, come spesso accadeva ai farisei. Il Signore Gesù ci esorta non ad un pauperismo triste che rischia di abbruttire ed amareggiare la vita, bensì ci chiede di evitare accuratamente di diventare schiavi del denaro o di usare quest’ultimo per schiavizzare il nostro prossimo. 

Davanti alla supponenza beffarda dei <farisei che erano attaccati al denaro> (16, 14), il Signore riporta questo aspetto così delicato e importante – irrinunciabile! – a un livello assai elevato: il rapporto con Dio nel segreto della coscienza ove siamo chiamati a fare le nostre scelte anche riguardo al modo di usare le nostre ricchezze o, semplicemente, le nostre disponibilità non solo economiche, ma anche di energie e di tempo. Per questo il Signore ci ricorda e quasi ammonisce: <Dio conosce i vostri cuori> (16, 15). A noi il compito di non ignorare ciò che c’è nel nostro cuore!


1. CLEMENTE D’ALESSANDRIA, Può un ricco salvarsi?

Dis-onesto

XXXI settimana T.O. –

Leggiamo uno dei testi più intriganti di tutto il Vangelo in cui il messaggio della salvezza si lascia mediare dal paradosso che si trova a conclusione della parabola e sempre un po’ ci sorprende non poco fino a destabilizzarci: <Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce> (Lc 16, 8). Eppure, non bisogna sottovalutare un aspetto che sta sullo sfondo di questa parabola di certo assai “peperina”. Si tratta di una capacità di vivere e di approfondire la relazione proprio quando la vergogna e l’imbarazzo facilmente indurrebbero a nascondersi e a sottrarsi al confronto. Invece no, assolutamente no! Sembra che il messaggio sotteso, quello più profondo che stimola il nostro cammino di continua e rinnovata conversione, sia racchiuso nel fatto che nonostante la situazione sembra mettersi veramente male il padrone con semplicità e somma apertura: <Lo chiamò e gli disse: “Che sento dire di te?”> (16, 2).

La reazione dell’amministratore che viene qualificato come <disonesto> è, in realtà, di grande onestà. Prima di tutto perché non si giustifica, ma prende coscienza rivelandosi capace di guardare in faccia la realtà: <Che cosa farò ora…?> (16, 3). La soluzione che sembra la più naturale e la più affidabile è quella di intensificare i rapporti: <Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone…> (16, 5). Soprattutto questo amministratore è capace di parlare a se stesso per portarsi oltre se stesso obbligando ad una sorta di verità sulla propria vita che invece di paralizzarlo nelle sue decisioni e azioni gli permette, invece, di andare più lontano. Di fatto ad essere lodata non è la disonestà, ma l’abilità a leggere la situazione con lucidità e a comprendere come ogni soluzione non può che passare attraverso un incremento di relazione: gli amici appunto.

Verrebbe da chiedersi come mai gli innominati denigratori si sono disturbati per denunciare questo amministratore. Viene quasi da pensare che a spingerli a questa denuncia ci sia oltre l’amore per la verità, pure una punta di gelosia per la capacità di quest’uomo a trovare sempre la via per dare il meglio e stare meglio. La domanda rimane aperta. In ogni modo si può azzardare ancora nell’interpretazione di questa parabola tra le più paradossali dicendo che la questione non è semplicemente l’onestà, ma l’integrità. Di questo sembra parlarci l’apostolo Paolo quando dice: <vi ho scritto con un po’ di audacia, come per ricordarvi quello che già sapete, a motivo della grazia che mi è stata data da Dio per essere ministro di Cristo Gesù tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo> (Rm 15, 15-16). Non basta accontentarsi di essere onesti, è necessario essere pure scaltri nel cercare di trovare sempre il modo di portare avanti la speranza di una vita migliore per se stessi e per gli altri: equilibrio mai facile da creare e sempre difficile da mettere in pratica.

Cento per cento

XXXI settimana T.O. –

Così esordisce Ambrogio di Milano nel commentare il testo del Vangelo di oggi che non può essere gustato in pienezza se non nella memoria della terza parabola che ne completa il quadro: <Non senza motivo san Luca ci presenta di seguito tre parabole: la pecora che si era smarrita ed è stata ritrovata, la dramma che era stata perduta, poi ritrovata, il figlio prodigo che era morto, e poi è tornato in vita. Cosicché, sollecitati da questo triplice rimedio, curiamo le nostre ferite.… Chi sono questo padre, questo pastore, questa donna? Non sono forse Dio Padre, Cristo, la Chiesa? Cristo ha preso su di sé i tuoi peccati, ti porta nel suo corpo; la Chiesa ti cerca; il Padre ti accoglie. Come un pastore, ti riporta; come una madre, ti ricerca; come un Padre, ti riveste. Prima la misericordia, poi l’assistenza, infine, la riconciliazione.  Rallegriamoci quindi che questa pecora, che era perduta in Adamo, sia ripresa in Cristo. Le spalle di Cristo sono le braccia della croce; lì ho deposto i miei peccati, lì, sul nobile legno di questa croce, ho riposato>1.

Tre modi per dire la stessa cosa in modo diverso e ad un livello di profondità crescente. Il primo registro è la questione del numero. Prima di tutti una pecora perduta su cento: uno per cento; poi una moneta su dieci: dieci per cento; e infine – nella parabola che non leggiamo nella Liturgia ma che portiamo nel cuore – un figlio contro un altro figlio, uno su due: cinquanta per cento. A meno che non si tratti, in realtà, del cento per cento, visto che il pastore, la donna e infine il padre misericordioso si coinvolgono interamente e persino paradossalmente nelle loro opere di ricerca e di ritrovamento. La nostra condizione umana è sempre segnata da una certa “perdizione” che la misericordia di Dio continuamente riscatta e reintegra. L’apostolo Paolo lo dice con accenti appassionati: <nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore> (Rm 14, 7-8). 

Nella sequenza delle parabole della misericordia troviamo al centro del trittico una moneta che è un oggetto di valore ma è una cosa inanimata, totalmente passiva e senza coscienza. La prima parabola parla di una pecora, una realtà animata capace di sentire, di vedere, persino di soffrire ma non è né una volpe né un gatto: è una pecora! Solo alla fin troviamo quel figlio – meglio quei figli – che non sono solo cercati dal padre, ma che devono pure lasciarsi trovare esercitando la loro libertà e giocandosi con le esigenze della loro personale libertà e coscienza per poter accedere ad un livello reale di umanità. Tra tutti i particolari di queste parabole possiamo lasciarci conquistare dall’atteggiamento del buon pastore che, in realtà, il Signore Gesù qualifica pensando piuttosto a noi: <Chi di voi, se ha cento pecore… > (Lc 15, 4). Questo tale si avventura e porta le pecore sulle sue spalle quasi regalandole un ritorno all’ovile in prima classe. E poi quella donna che prima di spazzare la casa <accende la lampada> (15, 8). La moneta che sta cercando infatti dovrebbe riflettere la luce e quindi farsi più facilmente trovare. Questa lampada può farci pensare allo Spirito Santo che abita in noi, che ci illumina e ci rivela a noi stessi per fari brillare e continuamente ritrovare l’immagine divina che è incisa nella nostra umanità. Possiamo identificare in questa donna la Chiesa che spazza pur ti far brillare e di ritrovare condividendo la sua gioia con tutte <le amiche e le vicine> (15, 9). In questo contesto la domanda di Paolo trova una risposta che supera interamente i termini della domanda: <Ma tu, perché giudici tuo fratello? E tu perché disprezzi tuo fratello?> (Rm 14, 10). Se lo stiamo cercando non lo stiamo certo né giudicando né, tantomeno, disprezzando, ma lo stiamo amando al cento per cento!


  1. AMBROGIO DI MILANO, Commento al Vangelo di Luca, 7, 207-209