Il tuo nome è Cristo, alleluia!

IV settimana di Pasqua

Vi è una punta di disperazione nella domanda posta dai Giudei che sembrano assieparsi attorno al Signore Gesù, quasi nella speranza di essere da lui liberati da una sorta di angoscia che abita il loro cuore: <Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente> (Gv 10, 24). La risposta a questa domanda dei Giudei, che rappresenta per loro un’ulteriore sfida e un di più di angoscia, possiamo trovarla nella solenne e sempre commovente conclusione della prima lettura: <Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani> (At 11, 26). Le parole del salmo responsoriale suonano come un applauso: <Il Signore registrerà nel libro dei popoli: “Là costui è nato”. E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti”> (Sal 86, 6-7). I Giudei, e spesso anche noi, vorremmo ricevere dal Signore Gesù una rassicurazione per essere finalmente liberati dall’angoscia di dover assumere il rischio di una relazione che ci porta un po’ più lontano dei nostri preconcetti e delle nostre aspettative.

Di fatto la risposta non è una parola di identificazione chiara e netta, ma è l’evocazione di una relazione profonda: <Ve l’ho detto, e non credete> (Gv 10, 25). Il Signore Gesù non si accontenta, per così dire, di rilevare l’incredulità e la chiusura dei Giudei, ma ne dà pure la spiegazione più profonda e più vera: <Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore> (10, 26). A questa constatazione subito viene aggiunta anche una dichiarazione ancora più fondamentale e solenne: <Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola> (10, 29-30). Così, riconoscere in Gesù il Cristo atteso e promesso, fa tutt’uno con il diventare <cristiani>. Del resto per il Signore Gesù la cosa più importante da rivelare e da comunicare è, appunto, questa meravigliosa attenzione del Padre che, dal Figlio, passa direttamente e naturalmente a noi.

Al modo di sentire e di ragionare dei Giudei, secondo definizioni dogmatiche, corrisponde il modo di sentire e di rivelare del Signore Gesù che è sempre un modo in cui ciò che fa la differenza è la comunione e lo scambio personale. Sì, Gesù è il Cristo e lo è proprio perché la sua unzione messianica è pienamente partecipata a coloro che accettano e amano far parte del numero di quelle <pecore> che riconoscono e ascoltano la sua <voce> (10, 27) in una reciprocità assoluta e sponsale (cfr. Gv 3). Al cuore di questo scambio amoroso ci siamo noi, proprio noi! Perché sembra che tra il Padre e il Figlio ci sia il perenne scambio di quei doni che siamo noi, perché avvertiti come la cosa più bella e più preziosa che il Padre può dare al Figlio e che il Figlio può ridonare al Padre. Per questo ci viene promesso tutto: <Io do loro la vita eterna> (10, 28) che non è altro che entrare in questo mistero di conoscenza (Gv 17) e di amore il cui flusso non si arresta mai. Anzi, al contrario, ricrea continuamente energia e forza tanto da poter dire a nostra volta e in modo assolutamente personale: “Io e il Cristo siamo una cosa sola”. Questo significa essere degni di portare il nome di <cristiani>! Queste parole sono pronunciate a Gerusalemme nella cornice della <festa delle Dedicazione> (Gv 10, 22) durante <l’inverno> quando le giornate sono brevissime e per otto giorni i cortili del tempio erano – allora – uno scintillio di lampade e di torce. In questo contesto ecco che la parola del Signore Gesù è una luce che fa rabbrividire tutte le altre. Tagore direbbe che: <La morte non estinguerà la luce, ma semplicemente spegnerà la lampada perché è arrivata l’alba>.

PROSSIME VISITE SPECIALI

Il tuo nome è Intelligenza, alleluia!

III Domenica di Pasqua

Ci ritroviamo ancora nel Cenacolo, dove il Signore si ricongiunge ai suoi non appena i discepoli da Emmaus si sono ricongiunti al gruppo degli apostoli. È proprio in questo contesto di intimità e di assoluta ordinarietà che la Chiesa sussurra a ciascuno dei nostri cuori le parole di Pietro: <Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati> (At 3, 19). Il peccato di cui ci parla Pietro e di cui ci parla Gesù è l’ignoranza, il non aver capito e il continuare a non capire ciò che è <scritto> (Lc 24, 46) nella storia attraverso il sangue. Con quanto sangue la storia è stata scritta! Da quello di Abele a quello che in questo stesso momento viene versato forse sotto i nostri stessi occhi incapaci di vedere il dolore e la lotta di chi ci sta accanto. Tutta questa sofferenza è stata raccolta nell’offerta pasquale del Signore quale <vittima di espiazione per i nostri peccati; non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo> (1Gv 2, 2). L’unico rimprovero del Risorto sembra essere contro l’ignoranza ed è un invito all’<intelligenza> (Lc 24, 45) che sa cogliere ogni cosa nella sua totalità senza accontentarsi di parzialità che talora è ben peggiore dell’ignoranza. Si tratta di imparare a contestuare ogni frammento di storia e di esperienza < nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi> (24, 44), ossia nella totalità. Saremo testimoni del Risorto se la nostra gioia e il nostro stupore si faranno carne, ossa, pane, pesce…! Se la nostra gioia si farà vita che accoglie la necessità e il bisogno non come costrizione, ma come luogo di trasfigurazione e di offerta della propria vita. Cosicché in ogni situazione il cammino dell’altro sia accolto e sia ricolmato del dono che Gesù fa ai suoi, che fa a noi e, attraverso di noi, vuole offrire a <tutto il mondo> (1Gv 2, 2). Nessuna parola e nessun gesto possono tradurre tutto ciò meglio di quanto lo possa fare la parola con cui il Risorto si rivolge ai suoi e si rivolge pure a noi: <Pace a voi> (Lc 24, 36). La fiaccola di questa fede, la fiaccola di questa pace nella tribolazione che si fa annuncio di vita nell’esperienza della morte più crudele, è ancora nelle mani della Chiesa di Cristo – morto e risorto – e forse ci attende perché anche noi possiamo dire col salmista: <In pace mi corico e subito mi addormento: tu solo Signore fiducioso mi fai riposare> (Sl 4, 9). Ma una domanda resta aperta: <Di quali <cose> (Lc 24, 36) andiamo continuamente parlando tra di noi perché il Signore vi si possa inserire senza temere di disturbarci?>. E ancora <Di cosa veramente sentiamo la necessità di parlare e di interessarci?! Di che cosa veramente sentiamo “bisogno” perché la nostra vita sia viva?>. Non c’è nulla da temere, nulla di cui vergognarsi: siamo di <carne ed ossa> (24, 39). Come spiega Agostino: <Gesù Cristo è la nostra salvezza […] e ha ritenuto utile per i suoi discepoli conservare le sue cicatrici, per guarire le ferite del loro cuore>. E si chiede interpretando le nostre domande: <Quali ferite? Quelle dell’incredulità>.

Ton nom est Intelligence, alleluia !

III Dimanche de Pâques 

Nous nous retrouvons encore au Cénacle où le Seigneur  rejoint les siens juste après que les disciples d’Emmaüs aient rejoint le groupe des apôtres. C’est vraiment dans ce contexte d’intimité et d’absolue ordinarité que l’Eglise murmure à chacun de nos coeurs les paroles de Pierre : ” Convertissez-vous donc et changez de vie, pour que vos péchés soient effacés ” ( Ac 3, 19 ). Le péché dont nous parle Pierre et dont parle Jésus est l’ignorance, le fait de ne pas avoir compris  et de continuer à ne pas comprendre ce qui est ” écrit” ( Lc 24, 46 ) dans l’histoire à travers la marque du sang. Avec combien de sang l’Histoire a-t-elle été écrite ! De celui d’Abel jusqu’à celui qui, en ce moment même est versé, peut-être sous nos yeux incapables de voir la douleur et la lutte de ceux qui nous entourent. Toute cette souffrance a été recueillie dans l’offrande pascale du Seigneur, lui-même ” victime d’expiation pour nos péchés ; non seulement pour les nôtres, mais aussi pour tous ceux du monde ” ( 1 Jn 2, 2 ). L’unique reproche du Ressuscité semble être contre l’ignorance et c’est une invitation à ” l’intelligence ” ( Lc 24, 45 ) qui sait rassembler chaque chose dans sa totalité sans se contenter de partialité qui devient alors bien pire que l’ignorance. Il s’agit d’apprendre à contextuer chaque fragment de l’Histoire et de l’expérience ” dans la loi de Moïse, des Prophètes et des Psaumes ” ( 24, 44 ) c’est-à-dire dans sa totalité. Nous serons des témoins du Ressuscité si notre joie et notre étonnement se feront chair, os, pain, poisson… ! Si notre joie se fera vie qui rassemble la nécessité et le besoin, non comme une  contrainte, mais comme un lieu de transfiguration et d’offrande de sa propre vie. De telle façon que, dans chaque situation, le chemin de l’autre soit accueilli et comblé par le don que Jésus fait aux siens, à nous et, qu’à travers nous, il veut offrir ” à tout le monde ” ( 1 Jn 2, 2 ). Aucune parole et aucun geste ne peuvent mieux traduire la parole que le Ressuscité adresse aux siens et à nous : ” la Paix soit avec vous ” ( Lc 24, 36 ).  Le flambeau de cette foi, le flambeau de cette paix dans la tribulation qui devient annonce de vie dans l’expérience de la mort la plus cruelle est encore entre les mains de l’Eglise du Christ- mort et ressuscité – et nous attend aussi pour que nous puissions dire avec le psalmiste : ” dans la paix, moi aussi je me couche et je dors, car toi seul, Seigneur me fais reposer dans la confiance ” ( Ps 4, 9 ). Mais une question reste en suspens : ” de quelles ” choses ” ( Lc 24, 36 ) continuerons-nous à parler entre nous pour que le Seigneur puisse s’insérer sans peur de nous déranger ? ” Et encore : ” De quoi sentons-nous vraiment la nécessité de parler et de nous intéresser ? ! De quoi avons-nous vraiment  ” besoin” pour que notre vie soit vivante ? “ll n’y a rien à craindre, rien de quoi avoir honte : nous sommes de ” chair et d’os ” ( 24, 39 ). Comme l’explique Augustin : ” Jésus Christ est notre salut (…) et a pensé utile de conserver ses cicatrices pour ses disciples, afin de guérir les blessures de leur coeur “. Et, en interprétant nos questions, il se demande : ” quelles blessures ? Celles de l’incrédulité “.

Il tuo nome è Lingua, alleluia!

II settimana di Pasqua

Di certo non è solo questione di lingua, eppure la propria lingua porta il segno del proprio mondo e del proprio modo di stare al mondo. Non è passato molto tempo dall’esperienza mattinale di Pentecoste in cui, il segno di una nuova effusione dello Spirito, è proprio quello di una rinnovata capacità e possibilità di capirsi, ed ecco che sorge un conflitto all’interno di una comunità fondamentalmente segnata e ricolmata dei doni del Risorto. Questo inatteso scompiglio sembra legato, come spesso avviene, al fatto che la comunità va <aumentando>, tanto che, <quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica> (At 6, 1). È bene non dimenticare che questo è successo nella prima comunità cristiana, perché ciò ci aiuta a non scandalizzarci delle difficoltà e delle incomprensioni che insorgono, e insorgeranno ancora, in seno alla comunità dei credenti di ogni tempo e del nostro tempo.

Per evitare il peggio sarà bene sapere e credere che lo Spirito ci è stato dato, e ci viene continuamente dato, proprio per andare oltre e trovare sempre le parole e i modi giusti. Sembra che il conflitto che evidenzia ancora una volta una sofferenza, abbia aguzzato l’ingegno della comunità e, prima di tutto, degli apostoli che si sentivano responsabili della comunione fra tutti e della pace di tutti. La bontà della scelta viene confermata dalla conclusione del discorso di Pietro che non fa che riprendere, in modo ancora più profondo, l’introduzione del testo: <e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede> (6, 7). Ci sono dei momenti nella nostra vita personale e comunitaria in cui sembra farsi particolarmente <buio> (Gv 6, 17) ed è proprio in quei frangenti che possiamo contare su un passaggio di Gesù che si avvicina al nostro cuore <agitato>.

La reazione dei discepoli e la loro interiore trasformazione sono per noi, non solo un monito, ma una vera fonte di speranza. L’evangelista Giovanni non ci dice nulla riguardo alle parole che si sono scambiate il Maestro con i suoi discepoli, ma ci mette di fronte alla reazione immediata che segue quel senso di sollievo che li conquista interiormente: <Allora vollero prenderlo sulla barca, e subito la barca toccò la riva alla quale erano diretti> (Gv 6, 21). Tutta la vita e tutta la storia della Chiesa è segnata e impegnata in questa navigazione interiore verso l’altro: un’avventura che ci induce a conoscere lidi mai visti né pensati, fino a desiderare di essere compresi nella nostra lingua, facendo tutto lo sforzo di capire, fino in fondo, la lingua dell’altro. Nelle situazioni che ci sembrano le più difficile e insormontabili spesso sentiamo risuonare la voce inattesa del Risorto: <Sono io, non abbiate paura> (Gv 6, 20). Non c’è nessuna difficoltà – sia personale che comunitaria – che possa impedire allo Spirito del Signore di suggerire percorsi e di aprire nuove soluzioni: <Piacque questa proposta a tutto il gruppo> (At 6, 5).

Il tuo nome è Piano, alleluia!

II settimana di Pasqua

Le parole del saggio Gamaliele gettano una luce completamente diversa sul modo con cui i membri del Sinedrio si ostinano a valutare e a giudicare la testimonianza degli apostoli. La saggezza di questo rabbi apre loro gli occhi sull’irrompente realtà della risurrezione del Messia crocifisso, realtà che si rivela capace di rimettere in piede la speranza di molti, tanto da essere –  ormai – una realtà inconfutabile, per quanto possa essere avvertita  fastidiosa. La comparsa in scena di Gamaliele è particolarmente solenne forse anche per quel senso di venerazione che Paolo ha trasmesso a Luca per questo suo insigne maestro: <si alzò nel sinedrio un fariseo, di nome Gamaliele, dottore della Legge, stimato da tutto il popolo> (At 5, 34). Forse da questo insigne maestro tutti si sarebbero aspettati il suggerimento di una strategia precisa al fine di rendere immune il morbo che sembrava infettare l’organismo della fede. L’atteggiamento di Gamaliele è – invece – completamente diverso: <Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli> (5, 38).

Quella proposta da Gamaliele non è semplicemente una strategia, è qualcosa di molto più profondo. Si tratta di un avvertimento che tocca esattamente ciò che i membri del sinedrio dicono di voler difendere: il rapporto con Dio e la gloria del suo nome. Ebbene, Gamaliele con coraggio e lucidità spirituale mette in guardia dal pericolo più grande che possa incombere su quanti, in ogni modo, cercano di essere graditi a Dio: <Non vi accada di trovarvi a combattere addirittura contro Dio!>. In questo contesto – e quasi per scampare a questo pericolo di trovarsi a combattere contro Dio pensando di difenderne l’onore e la gloria – la Liturgia ci fa cominciare la lettura del capitolo sesto di Giovanni1 con questa nota: <Gesù passò dall’altra riva del mare… e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi> (Gv 6, 1-2).

Quanto Gamaliele ritiene debba essere tenuto presente come una probabilità – che cioè l’evento di Gesù sia il segno di un <piano> divino – viene rivelato nel testo evangelico il quale ci offre una chiave per discernere cosa viene da Dio e cosa, invece, non ha niente a che fare con il cuore dell’Altissimo. Per questo ci è chiesto di entrare attivamente, e in prima persona, nella dinamica evangelica per collaborare, con la nostra vita, alla realizzazione di questo piano. La domanda che il Signore Gesù pone provocatoriamente a Filippo accompagna ancora oggi il cammino della Chiesa e di ciascun discepolo: <Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?>. E Giovanni sembra fare l’occhiolino al lettore: <Diceva così per metterlo alla prova; egli, infatti, sapeva quello che stava per compiere> (6, 5-6). A questa domanda c’è una sola risposta possibile ed è quella del <ragazzo> (6, 9) chiamato in causa da Andrea, il quale accetta così naturalmente di condividere il “piano” che Gesù ha già in mente, da esserne parte irrinunciabile! Ancora una volta, i discepoli ci arriveranno dopo.


1. Fratel MichaelDavide, Il pane che dà vita, Qiqajon 2012.

Il tuo nome è Nome, alleluia!

II settimana di Pasqua

Per i membri del Sinedrio le cose sono molto chiare e sono alquanto stupiti che non vadano esattamente secondo i loro desideri e i loro disegni. Sembrano persino indispettiti dal fatto che gli apostoli non si siano allineati a quanto era stato loro ordinato. Quella dei membri del Sinedrio sembra quasi una lamentela: <Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome> (At 5, 27). Ciò che sembra sfuggire ai notabili del popolo, è la forza che il nome del Signore Gesù rappresenta per gli apostoli e il fatto che ormai, in questo nome, tutta la loro vita viene vissuta. Ma non solo: per testimoniare la forza della risurrezione i discepoli accettano il rischio di perdere la loro vita. Il sinedrio non riesce a comprendere ciò che realmente sia avvenuto nel cuore dei discepoli nel mistero pasquale vissuto. Un avvenimento inedito accolto certo in quella fragilità che ha rivelato gli apostoli a se stessi, ma che pure non li ha ripiegati su stessi. Nella potenza della risurrezione gli apostoli sono stati rimessi in piedi dal Risorto e resi capaci non solo di riconoscere e di accogliere la sua <testimonianza> (Gv 3, 33), ma di essere a propria volta dei testimoni.

Le parole con cui Pietro risponde al sinedrio devono aver stupito alquanto quei notabili che si illudono ancora di poter spegnere, attraverso l’intimidazione, il fuoco che la pasqua ha acceso nel cuore dei discepoli: <E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono> (At 5, 32). Si tratta di un’obbedienza e di una testimonianza che è assai diversa da quella cui pensano i membri del sinedrio. Esse si fondano, infatti, in un’esperienza non solo forte,  ma anche così intima da non poter essere per nulla scalfita. Le parole rivolte dal Signore Gesù non sono più rivolte a Nicodemo che ormai è ritornato alla sua vita, ma ai discepoli del Battista con i quali nasce una discussione <riguardo alla purificazione rituale> (Gv 3, 25). Queste parole pronunciate da Gesù già <dall’altra parte del Giordano> (Gv 3, 26) è come se fossero ormai solidamente radicate nel cuore dei discepoli: <chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla secondo la terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti> (Gv 3, 31). Il fatto che il Figlio dell’uomo sia stato innalzato da terra, secondo quanto già era stato detto dal Signore Gesù a Nicodemo, permette ormai a tutti i suoi discepoli – di ogni tempo e di ogni luogo – di non sentirsi più appartenenti alla terra come se fosse dei serpenti obbligati a strisciare, ma di avere già ricevuto la loro cittadinanza divina che permette loro di essere liberi e fieri.

La conseguenza non è solo chiara, è prima di tutto assolutamente semplice: <Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini> (At 5, 29). Siamo ormai passati – una vera pasqua è avvenuta – in un nuovo regime di relazione che si radica nella dinamica stessa della vita del Cristo: <Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa> (Gv 3, 35). Per questo noi tutti, nella misura in cui accettiamo di entrare in questo dinamismo, rinunciando alle nostre logiche così “terrestri”, siamo parte di questo effluvio di amore che fa grazia e potenzia le nostre libertà. La vendetta di Dio per il sangue versato diventa un pressante appello alla conversione per evitare di commettere gli stessi errori.

Il tuo nome è Giudizio, alleluia!

II settimana di Pasqua

Al cuore del dialogo tra Gesù e Nicodemo troviamo due parole incandescenti. La prima suona così: <Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chi crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna> (Gv 3, 16). La seconda sembra contraddire la prima e, invece, non fa che confermare quella fiducia di Dio nella nostra umanità che si fa dono pieno di libertà: <E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce> (3, 19). Questo versetto del vangelo secondo Giovanni è posto come primo verso del famoso Canto di Giacomo Leopardi: La ginestra o il fiore del deserto. Se ci mettiamo in ascolto della poesia possiamo sentire come, il dramma della nostra umanità, fa tutt’uno con il dramma della salvezza che l’Altissimo continuamente vuole donarci senza mai forzarci in alcun modo. Ed è esattamente ciò che possiamo trovare nella prima lettura. L’andirivieni dal carcere sbarrato, in cui i notabili del popolo hanno fatto rinchiudere gli apostoli, è un simbolo molto forte di quel continuo andirivieni attraverso il nostro cuore che non solo è difficilmente guaribile, ma che spesso rischia di farsi del male chiudendosi alla vita, alla grazia e alla luce.

Se si potesse usare un’immagine per spiegare e caratterizzare l’atteggiamento dei notabili, verrebbe da dire che sono come coloro che chiudono volutamente gli occhi senza essere ciechi e per questo continuano ad inciampare. Il testo si apre con una sorta di foto istantanea o con un primo piano inequivocabile: <si levò il sommo sacerdote con tutti quelli della sua parte, cioè la setta dei sadducei, pieni di gelosia, e, presi gli apostoli, li gettarono nella prigione pubblica> (At 5, 17). L’autore degli Atti degli Apostoli ci porta direttamente e inesorabilmente alla radice del problema, dichiarando in modo franco la malattia che è la gelosia. Non c’è bisogno di esprimere un giudizio dall’esterno – né dall’alto né dal basso – perché esso è evidente ed è come racchiuso nella stessa realtà delle cose. Le guardie si fanno testimoni dell’inevitabile e dell’evidenza più chiara davanti a cui i capi continuano a voler chiudere gli occhi e il cuore: <Abbiamo trovato la prigione scrupolosamente sbarrata e le guardie che stavano davanti alle porte, ma, quando abbiamo aperto, non vi abbiamo trovato nessuno> (At 5, 23).

Ciò che il Signore ci offre è chiaro ed evidente, ma non è sempre altrettanto pronta la nostra risposta e non è sempre generosa la nostra accoglienza che talora, invece, si rivela come una vera e propria resistenza alla luce che pure, per sua natura, si effonde con grazia. Il giudizio di Dio evocato dal Signore Gesù, e il modo di giudicare da parte dei notabili, sono opposti. Il primo apre, mentre il secondo chiude. Inoltre il giudizio di Dio, che è un modo per indicare il suo stile nel governare e reggere la storia del mondo, è sempre contrassegnato dal dono e dall’incremento della libertà, mentre i capi del popolo cercano di garantire solo i propri privilegi. La chiave per aprire tutto e sempre è ciò che il Signore sembra quasi confidare a Nicodemo che ormai ascolta in grande silenzio: <Dio ha tanto amato…>… l’amore apre!

Il tuo nome è Esortazione, alleluia!

II settimana di Pasqua

Due personaggi dominano la scena della Parola offerta quest’oggi. Continua il dialogo notturno con Nicodemo, ma viene evocato pure un discepolo che si rivela capace di entrare a piè pari nelle esigenze del Vangelo: <Giuseppe, soprannominato dagli a apostoli Barnaba, che significa “figlio dell’esortazione”> (At 4, 36). Questo discepolo era <padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò il ricavato deponendolo ai piedi degli apostoli> (4, 37). La vita di quest’uomo è un’esortazione ed una consolazione viventi poiché rivela come si può entrare senza troppa fatica nella logica di una comunione che porta, in modo del tutto naturale, a mettere in comune i propri beni, le proprie energie, le proprie doti. Nella memoria della Chiesa l’apostolo Barnaba, cui verrà riservato sempre questo titolo speciale assieme al solo Paolo e a Mattia aggregato ufficialmente al gruppo di Dodici, conserva un carattere di esortazione unico. Sin dal suo primo apparire sulla scena e fino al suo ritirarsi discretamente davanti alla veemenza di Paolo, è una viva esortazione non solo a professare la fede in Cristo, ma ad assumere il suo stile fraterno e capace di cedere il passo purché il Vangelo sia predicato.

Potremmo così dire che Giuseppe-Barnaba non si accontenta di deporre ai piedi degli apostoli il ricavato dalla vendita del suo campo, ma con questo gesto dimostra di essere entrato pienamente nella via del Vangelo tralasciando di occuparsi di se stesso e mettendo la sua vita a servizio fino a sapersi rendere non solo utile, ma persino inutile. In quest’uomo divenuto credente e discepolo possiamo trovare una realizzazione esistenziale di ciò cui il Signore Gesù esorta il rabbì Nicodemo: <Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto> (Gv 3, 7). Il dialogo tra Gesù e Nicodemo continua, ma sembra arenarsi proprio davanti al mistero pasquale che esige una rinuncia totale a se stessi: <E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato, il Figlio dell’uomo>. Ma non basta, l’insegnamento e l’esortazione continuano: <perché chiunque creda in lui abbia la vita eterna> (3, 14-15).

Credere non può risolversi in una discussione accademica per quanto possa essere sincera, ma esige l’accettazione di essere a propria volta nelle mani degli altri e non perché costretti, bensì perché liberamente e consapevolmente consegnati. Così la comunità dei credenti testimonia non solo con la <grande forza> dell’annuncio, ma pure – e soprattutto – con la testimonianza di una vita completamente rigenerata dalla risurrezione del Signore che conferisce ai discepoli la semplicità e il coraggio di esporre la propria vita come il <vento> che <soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito> (3, 8). L’esempio di Nicodemo ci aiuta a non temere di interrogare e di scrutare. L’esempio luminoso di Giuseppe-Barnaba è una viva esortazione a non accontentarci della contemplazione o della glorificazione della croce, ma di trasformarla in vita.

Il tuo nome è Sì, alleluia!

Annunciazione del Signore

La devozione dei fedeli ha creato attorno al sublime momento in cui Maria di Nazareth diede il suo assenso all’incarnazione del Verbo una fioritura di immagine e di racconti. Tra questi possiamo annoverare il magnifico sermone di san Bernardo che supplica la Vergine di dire il suo “sì”, mentre tutta la creazione e la storia sono come sospesi al cenno delle sue labbra… al cenno del suo cuore. Lo stupore davanti al mistero dell’incarnazione è talmente grande che la devozione popolare immagina ci sia stato in <Gabriele mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret> (Lc 1, 26) – il suo nome significa “Dio è forte” – un attimo, impercettibile ma eterno, di esitazione nel momento in cui si <allontanò da lei> (1, 38). È l’esitazione degli angeli che ormai <desiderano fissare lo sguardo> (1Pt 1, 12), ammaliati dalla sorprendente capacità della nostra umanità di farsi luogo di <offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre> (Eb 10, 10). La liturgia bizantina così canta colma di stupore: <Una lingua sconosciuta udì la Madre di Dio: le parlava l’arcangelo, con le parole della buona novella. Ecco, si manifesta ora per noi la nostra riconciliazione: oltre ogni comprensione Dio si unisce agli uomini>. Con e come Maria, anche per noi non sarebbe possibile manifestare questo profondo assenso di tutta la nostra persona all’intervento della <grazia> che è <con te> (Lc 1, 28), se non fossimo capaci di accorgerci di qualcosa di più grande e di precedente al nostro assenso: l’<Eccomi> (Is 58, 9) di Dio. Egli si fa presente in modo talmente forte ed intimo alla nostra vita da assumere il tessuto della nostra stessa carne e del nostro stesso sangue, per divenire corpo della nostra anima e poter essere così anima del nostro corpo. Nel racconto evangelico tutto ciò sembra avvenire in un battito d’ali, quello che porta l’angelo da Maria e fa riportare dall’angelo il suo <Ecco> (Lc 1, 38) nel seno stesso della silenziosa deliberazione trinitaria circa la nostra salvezza. Potremmo chiederci quanto dura il battito d’ali di un angelo? Per rispondere dovremmo immaginare la durata infinita del primo battito del cuore di carne del Verbo eterno del Padre: quale silenzio per l’incontenibile gioia di quell’attimo che ha cambiato la nostra vita, facendo della nostra storia la lunga e dorata tessitura del suo <corpo> (Eb 10, 5) così profumato da farsi, per noi, mangiabile come pane. Una poesia di Emily Dickinson ci può aiutare a comprendere il mistero di questo battito così simile all’incantevole momento dello schiudersi di un fiore: <Fiorire – è il fine… non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno: essere un fiore, è profonda responsabilità>. <Nazaret> (Lc 1, 26) proprio questo significa: <casa del fiore>, e ora tocca al nostro cuore schiudersi all’annuncio facendo delle nostre inferriate (Ct 2, 9) le porte regali attraverso cui il Verbo prenda dimora in noi come rugiada luminosa e feconda.