Il tuo nome è Prova, alleluia!

VI settimana di Pasqua

L’apostolo Paolo cerca di stare <in piedi in mezzo all’Aeropago> (At 17, 22) quasi per cercare di diventare, agli occhi dei dotti Ateniesi, una prova vivente di cosa significhi entrare nel mistero della risurrezione di Cristo Signore. Ma la conclusione del testo è alquanto amara: <Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo punto ti sentiremo un’altra volta”> (17, 32). Eppure, bisogna riconoscere che la reazione dei filosofi della dotta Atene riesce a centrare il problema che la fede cristiana pone ad ogni intelligenza che sia onesta. Paolo, infatti, non fa che confermare, per così dire, lo scetticismo degli ateniesi ai quali non presenta la fede come una semplice proposta etica, ma come l’adesione al mistero di una persona, fino a dire che Dio <ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti> (17, 31). Fin qui i presenti erano stati disposti a prestare ascolto al “predicatore” di turno, ma questo slittamento dalla filosofia alla persona concreta di Gesù, costituito da Dio, quale Cristo e Salvatore, non può che imbarazzare i presenti, fino a far disertare la piazza più dotta e più intellettualmente pruriginosa del mondo dell’epoca.

L’evangelista Luca con la sua consueta capacità di trasmettere la forza del messaggio attraverso i particolari del racconto, se da una parte narra che la maggioranza si chiude al mistero della risurrezione, dall’altra sottolinea ancora più fortemente il fatto che <alcuni si unirono a lui e divennero credenti> (17, 34). La fede in Cristo non può essere un fenomeno né “di piazza” né, tantomeno, portare ad un’adesione “di massa”. Il fatto che il mistero di Cristo sia il farsi presente di Dio all’uomo in modo assolutamente personale, esige, altresì, un’adesione che non può che essere assolutamente radicata nella coscienza personale. Il Signore Gesù, congedandosi dai suoi discepoli nella tenue luce del Cenacolo, insiste in modo fortissimo su questo aspetto così personale da essere, in realtà, assolutamente intimo: <Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà> (Gv 16, 15).

A pensarci bene, anche nel nostro cuore forse possiamo trovare un altare con la scritta <A un Dio ignoto> (At 16, 23). Conoscerlo ed entrare in reale comunione con questa presenza divina esige la fatica di un lungo cammino di amore che non passa solo attraverso l’intelletto, ma ben più concretamente attraverso la costruzione di una relazione fatta di amore. Per questo il Signore ci ricorda che: <lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità> (Gv 16, 13). Non si tratta di imparare una lezione, ma di abituarsi ad una presenza interiore con cui siamo chiamati ad entrare gradualmente in comunione. 

Il tuo nome è Fuori, alleluia!

VI settimana di Pasqua

Portiamo ancora nel cuore l’eco delle parole del Signore Gesù che, solo qualche giorno fa, parlava di se stesso come del pastore bello e buono che conduce fuori le sue pecore ad una ad una. Oggi vediamo come quest’opera così “pastorale” viene continuata nel tempo perché tutti e ciascuno possano sperimentare la libertà e vivere pienamente. Nella prima lettura assistiamo alla conversione del carceriere, il quale diventa simbolo di tutti coloro che sono chiamati ad arrendersi alla potenza liberatrice del Vangelo di Cristo. Così, proprio colui che, obbedendo scrupolosamente agli ordini, <li gettò nella parte più interna del carcere e assicurò i loro piedi ai ceppi> (At 16, 24) diventa colui che <poi li condusse fuori e disse: “Signori, che cosa devo fare per essere salvato?”> (16, 30). La risposta degli apostoli è semplice: si tratta di accogliere il mistero del <Signore Gesù> (16, 31) accettando di entrare nella logica del Vangelo che è un dinamismo di libertà che cerca di dare a ciascuno la possibilità di vivere al meglio il proprio cammino di vita senza farsi e senza fare mai del <male> (16, 28).

Il <terremoto> (16, 26) scatenato dalla preghiera di Paolo e Sila, è il segno esterno di quel lievito evangelico che la Pasqua di Cristo ha posto al cuore della storia e che la fa crescere e lievitare fino a renderla parte del Regno di Dio che viene. In realtà, nel testo della prima lettura, il carceriere reagisce alla risposta degli apostoli e all’annuncio che gli viene fatto della <parola del Signore> (16, 32) non con una professione di fede fatta con le labbra, ma con un gesto che indica la comprensione profonda di quell’annuncio di cui è stato reso partecipe: <Egli li prese con sé, a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato lui con tutti i suoi>. Non si ferma qui: <poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi> (16, 33-34). La lettura di questo passo degli Atti degli Apostoli è la prova di quanto siano vere le parole e le promesse del Signore Gesù: <Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi> (Gv 16, 7).

Il cammino della Chiesa continua nel tempo proprio come attuazione di questo spazio di sospensione e di assenza. Questo spazio, che talora ci spaventa per il suo peso di vuoto, permette la manifestazione della potenza della risurrezione nella concretezza delle realtà della nostra vita. Infatti, la liberazione e la gioia sono i segni sempre più chiari e visibili dell’opera di Dio nel nostro cuore laddove possiamo imparare – piuttosto che a farci e fare del male – a condividere sempre più ampiamente il bene che abbiamo ricevuto e che siamo chiamati a scambiarci seduti tutti insieme alla tavola imbandita della vita. Il Signore Risorto ci conduce sempre <fuori> da tutto ciò che limita e intristisce la vita e ci chiede di essere capaci di fare altrettanto per i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché mai nessuno possa sentire la propria esistenza come fosse un <carcere> (At 16, 23) pieno di <tristezza> (Gv 16, 6).

Il tuo nome è Fedele, alleluia!

VI settimana di Pasqua

La domanda che Lidia pone agli apostoli, dopo aver aperto il suo cuore alla fede in Cristo, diventa una porta per comprendere l’opera così segreta ed efficace che lo Spirito continuamente opera nella nostra esistenza: <Se mi avete giudicata fedele al Signore, venite e rimanete nella mia casa> (At 16, 15). Ciò che lo Spirito del Risorto opera nel cuore di quanti si aprono alla luce della Pasqua, non è che un’opera di partecipazione intima e segreta alla stessa vita di Dio. L’adesione di fede non solo rende intimamente partecipi, ma quasi responsabili custodi del suo stesso mistero perché sia partecipato pienamente all’umanità. Le parole del Signore Gesù sono dolcissime e, al contempo, tanto esigenti mentre ci parla dello Spirito promesso: <egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio> (Gv 15, 27). La testimonianza che lo Spirito assicura per ciascun credente è, prima di tutto, la memoria grata di quanto Dio sia fedele ai nostri umani cammini tanto da accompagnarne i passi e animarne e orientarne i desideri più veri e profondi. A questa opera di Dio in noi non può che corrispondere una conformazione sempre più nitida del nostro stile di vita al modo di agire dello Spirito. La conclusione della prima lettura ci parla certamente di Lidia ma, in certo modo, ci parla di Dio: <E ci costrinse ad accettare> (At 16, 15).

Una poesia scritta da Teresa Benedetta della Croce ci aiuta ad entrare nel mistero della pienezza del dono pasquale che è l’effusione dello Spirito: <Chi sei, dolce luce? Sei forse il raggio che scaturisce come il lampo dall’alto trono del Giudice eterno, penetrando come il ladro nella notte dell’anima che misconosceva se stessa (Lc 12, 39)? Misericordioso, eppure inesorabile, penetri fino alla sua profondità nascosta. L’anima è spaventata da ciò che vede di se stessa e sta in un sacro timore davanti al principio di ogni sapienza che viene dall’alto e ci ancora saldamente in alto, davanti al tuo operare che nuovamente ci ricrea, Spirito Santo, raggio che nulla può fermare! Sei forse la pienezza di spirito e di potenza che permette all’Agnello di sciogliere i sigilli del decreto eterno di Dio (Ap 5, 7)? Sul tuo ordine i messaggeri del giudizio cavalcano per il mondo e separano, con il taglio della spada, il Regno della luce dal regno della notte (Ap 6, 2). Nuovo sarà il cielo e la terra nuova (Ap 21,1) e tutto ritroverà il suo giusto posto, sotto il tuo soffio leggero: Santo Spirito, potenza vittoriosa!>1.

Una potenza che si attua e si rivela nella forma dell’interiorità capace di formare discepoli fedeli e disponibili alla testimonianza estrema: <Ma vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, ve ne ricordiate, perché io ve l’ho detto> (Gv 16, 4). Come per Lidia, <commerciante di porpora>, quest’opera segreta dello Spirito Santo lavora <il cuore> (At 16, 14) tra le attività consuete ed ordinarie della vita.


1. EDITH STEIN, Poesia, Pentecoste 1937.

Il tuo nome è Donare, alleluia!

VI Domenica di Pasqua

Ancora una volta l’apostolo Giovanni ci conduce direttamente al cuore, al centro, al nucleo incandescente del mistero di Cristo Risorto e Signore della storia: <in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati> (1Gv 4, 10). Il senso di questa parola viene confermato e rafforzato da un detto del Signore stesso che può essere assunto come il riassunto essenziale di tutto l’evangelo che è Gesù Cristo, morto e risorto per noi: <Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici> (Gv 15, 13). Questa è una parola che dilata gli spazi della nostra anima come i polmoni si dilatano per la finissima aria di alta montagna quando, finalmente, si può sentire la parte più sublime della nostra persona. Avere degli amici nella propria vita ed essere in grado di dare la vita per loro sembra essere – anzi lo è sicuramente – il segreto di una felicità vera e duratura. Se l’orizzonte ci affascina sorprendentemente, una domanda si pone necessariamente: <Come arrivare ad essere capaci di vivere tutto ciò, il dono di avere degli amici e la capacità di dare la vita per loro?>. L’esperienza dell’apostolo Pietro in casa di Cornelio ci può aiutare in questa comprensione e in questo cammino. Per due volte troviamo la congiunzione <anche>. Dapprima, mentre l’apostolo Pietro entra nella casa, in cui è stato invitato e dove viene accolto con grande – eccessiva! – deferenza. Infatti, mentre Cornelio secondo gli usi pagani <si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio> (At 10, 25), Pietro non esita a risollevarlo con queste parole: <Alzati: anch’io sono un uomo!> (10, 26). Verso la fine della prima lettura troviamo una constatazione che ha cambiato e segnato il cammino della Chiesa nascente: <E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio> (10, 45-46). Nella pienezza della celebrazione del tempo pasquale siamo così invitata ad aprirci ad un orizzonte sempre più inclusivo. Inclusivo nel senso di sentirci come tutti senza pretendere di essere diversi o più rispettabili di alcuno. Inclusivo nel senso di avere occhi per discernere quanto l’amore del Signore si estenda su tutti e sia capace di far germogliare i segni del suo Regno che viene anche laddove noi non aspetteremmo assolutamente nulla. È questo l’orizzonte che ci ha aperto la parola e i gesti del Signore che ancora una volta ci chiede di accogliere la sua parola come un seme capace di fecondare e trasformare la storia: <Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi> (Gv 15, 12). Raramente il Signore offre se stesso come esempio mentre normalmente rimanda al mistero del Padre. Per quanto riguarda la capacità e la modalità dell’amore non esita a chiederci di imparare da lui e di lasciarci ammaestrare dall’attitudine del suo cuore <perché Dio è amore> (1Gv 4, 8).

Ton nom est Donner, alleluia !

VI Dimanche de Pâques 

Une fois encore, l’apôtre Jean nous conduit directement au coeur, au centre, au noyau incandescent du mystère du Christ ressuscité et Seigneur de l’Histoire : ” voici en quoi consiste l’amour : ce n’est pas nous qui avons aimé Dieu, mais c’est Lui qui nous a aimés et qui a envoyé son Fils comme victime pour expier nos péchés ” ( Jn 4, 10 ). Le sens de ces paroles vient confirmer et renforcer ce que le Seigneur lui-même a dit et qui peut être considéré comme le résumé essentiel de tout l’évangile de Jésus-Christ, mort et ressuscité pour nous : ” Il n’y a pas de plus grand amour que de donner sa vie pour ses amis ” ( Jn 15, 13 ). Ceci est une parole qui dilate les espaces de notre âme comme les poumons se dilatent par l’air très pur de haute montagne, lorsque finalement, l’on peut ressentir la part la plus sublime de notre personne. Avoir des amis dans sa vie et être capable de donner sa vie pour eux semble être- en fait cela l’est sûrement – le secret d’un véritable bonheur durable. Si cet horizon nous fascine de façon surprenante, une question se pose nécessairement : ” Comment être capable de vivre tout cela, le don d’avoir des amis et la capacité de donner la vie pour eux ? ” L’expérience de l’apôtre Pierre dans la maison de Corneille peut nous aider pour la compréhension de ce chemin. Nous trouvons deux fois la conjonction ” aussi “. D’abord, lorsque l’apôtre Pierre entre dans la maison où il a été invité et où il est accueilli ” en grande pompe ” ! En fait, pendant que Corneille, selon les usages païens, ” se jette à ses pieds pour lui rendre hommage “, ( Act 10, 25 ), Pierre n’hésite pas à le relever par ces paroles : ” Lève-toi, moi aussi je suis un homme ! ” ( 10, 26 ). Vers la fin de la première lecture, nous découvrons une constatation qui a changé et marqué le chemin de l’Eglise naissante : ” Et les fidèles circoncis qui étaient venus avec Pierre étaient stupéfaits de voir que, même sur les païens, le don de l’Esprit Saint s’était aussi répandu ; ils les entendaient, effectivement, parler dans d’autres langues et glorifier Dieu ” ( 10, 45-46 ). Dans la plénitude de la célébration du temps pascal, nous sommes ainsi invités à nous ouvrir à un horizon toujours plus inclusif. Inclusif dans le sens de nous sentir comme tous, sans prétendre d’être différents ou plus respectables que les autres. Inclusif dans le sens d’avoir des yeux pour discerner combien l’amour du Seigneur s’étend sur tous et est capable de faire germer les signes de son Règne qui vient aussi là où nous ne l’attendrions absolument pas. C’est cela l’horizon ouvert pour nous par les paroles et les gestes du Seigneur  et qui, encore une fois, nous demande d’accueillir sa Parole comme une semence capable de féconder et de transformer l’Histoire : ” Voici mon commandement : aimez-vous les uns les autres, comme je vous ai aimés ” ( Jn 15, 12 ). Rarement le Seigneur se prend pour exemple, alors qu’il nous envoie normalement au mystère du Père. En ce qui concerne la capacité et la façon d’aimer, il n’hésite pas à nous demander d’apprendre de lui et de nous laisser  enseigner par l’attitude de son coeur ” car Dieu est amour ” ( 1 Jn 4, 8 ). 

Il tuo nome è Realtà, alleluia!

V settimana di Pasqua

In un contesto di intimità e di incantevole tenerezza come quello creato da tutte le parole di Gesù ai suoi nella penombra del Cenacolo, alla vigilia della sua Passione, da parte nostra ci aspetteremmo la sospensione di ogni diatriba e di ogni riferimento alla durezza. Invece proprio qui e adesso, il Signore Gesù parla di tradimento, di rinnegamento e, pensando a noi, ci pre-munisce: <Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi> (Gv 15, 20). Il Signore Gesù ci mette di fronte alla nostra realtà dopo averci messi di fronte alla sua realtà. All’amore, che nei nostri sogni è tutto circonfuso di luci, Cristo Gesù ci invita ad accostare tutto il necessario spessore di ombra che dà all’amore profondità e spessore. Per questo insiste: <Ricordatevi della parola che io vi ho detto: “Un servo non è più grande del suo padrone”>! In questo modo siamo vaccinati da ogni forma di sentimentalismo religioso per essere pronti a vivere fino in fondo una vita di fede, sapendone portare le conseguenze in modo adulto e fiero.

La lettura continua degli Atti degli Apostoli, nel tempo pasquale, non fa altro che garantire questa continuità: non solo la persecuzione è il pane quotidiano della Chiesa nascente, ma soprattutto il realismo è in nutrimento necessario alla vita di fede in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni contesto interiore ed esteriore. Paolo deve cambiare direzione più volte e, poiché interpreta la storia alla luce del mistero pasquale, è obbligato a deviare uno dei disegni di Dio fino a dire: <perché lo Spirito Santo aveva impedito loro di proclamare la Parola nella provincia di Asia> (At 16, 6). Un altro indizio di duttilità alla storia e alle circostanze reali della vita lo troviamo nella scelta di Paolo riguardo a Timoteo. Mentre si annuncia a tutti la decisione presa dagli apostoli a Gerusalemme di non imporre la circoncisione Paolo – proprio lui – <lo fece circoncidere a motivo dei Giudei> (At 16, 3).

Seguire il Signore e vivere del suo Vangelo obbliga ad uno sguardo reale sulla Realtà: l’incanto più incantevole è realistico! Il Signore Gesù non ci attrae a sé promettendoci uno sconto sulla vita, ma aprendoci al mistero della vita in tutta la sua completezza: luci ed ombre, gioia e sofferenza. Di tutto questo ci svela il senso profondo e la radice ultima quando dice: <Ma faranno a voi tutto questo a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato> (Gv 15, 21). Il mistero del male da cui siamo circondati tanto da opprimere e bloccare la nostra vita è, in ultima analisi, frutto di ignoranza. Il male con cui noi stessi circondiamo gli altri e con cui blocchiamo la loro vita è frutto di ignoranza. Ecco perché il nostro primo impegno non è quello di non fare il male o diventare migliori, ma quello di conoscere di più il Figlio e Colui che lo ha mandato. Se avessimo uno sguardo più vero sulla Realtà di Dio, sulla Realtà che è Dio, il nostro approccio a noi stessi e al mondo cambierebbe d’incanto <fortificandosi nella fede> (At 16, 5). Se entriamo in questa logica tutto diventa più sopportabile e la Realtà – così com’è – si trasformerebbe, proprio attraverso il duro cammino di ogni giorno, in un sogno assolutamente vero.

Il tuo nome è Volto, alleluia!

Ss. Filippo e Giacomo

Le preghiere che la Liturgia dell’Eucaristia di questo giorno fa pronunciare al presidente, a nome di tutto il popolo, tracciano un itinerario di fede con tutte le sue esigenze e i suoi necessari passaggi. La Colletta unisce all’esultazione, a motivo della possibilità che ci viene data di festeggiare due apostoli, la necessaria supplica: <concedi al tuo popolo di comunicare al mistero della morte e risurrezione del tuo unico Figlio, per contemplare in eterno la gloria del tuo volto>. In forma di preghiera si riprende – potremmo dire in forma riveduta e corretta – la supplica di Filippo rettificata dalla risposta del Signore Gesù: <Signore, mostraci il Padre e ci basta>. La reazione del Maestro sembra ancora scuotere il cuore dei credenti di oggi come quello dei discepoli un tempo: <Chi ha visto me, ha visto il Padre> (Gv 14, 8-9). In altre parole il Signore ci chiede di rinunciare alla visione per accontentarci – per così dire – di vedere solo attraverso l’amore, tanto da desiderare ed essere capaci di avere occhi per l’amore: <Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?> (14, 10).

Questa parola così nitida del Signore Gesù è il riassunto di tutto ciò che è sotteso a ciò che viene altrettanto solennemente evocato dall’apostolo Paolo: <Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato> (1Cor 15, 1-2). Il Vangelo che salva è la capacità di assumere fino in fondo la sfida dell’incarnazione che, se si basa sullo svuotamento del Verbo e sui suoi abbassamenti, comporta anche la nostra rinuncia a tutto ciò che non passa attraverso il limite e la fragilità della nostra realtà personale e relazionale. Per questo la preghiera si fa ancora più forte al momento dell’Offertorio: <concedi anche a noi di servirti con una religione pura e senza macchia>. Ad un orecchio allenato alle Scritture il riferimento a Giacomo è evidente, ma vale la pena esplicitarlo con le stesse parola con cui l’apostolo Giacomo caratterizza la <religione pura e senza macchia> con queste precise parole: <soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni> (Gc 1, 27).

La risposta data da Gesù a Filippo porta le sue estreme conseguenze nelle parole di Giacomo: se bisogna accettare di vedere il volto del Padre in quello di Gesù, bisogna andare ancora più lontano fino ad accontentarsi di vedere il volto di Gesù in quello dei fratelli e delle sorelle in cui lo splendore della luce divina rischia di essere offuscato dalla fragilità e dalla precarietà. Allora la preghiera dopo la comunione assume tutta la sua profondità rivolgendosi, con audacia, direttamente al Padre: <ci purifichi e ci rinnovi perché, in unione con gli apostoli Filippo e Giacomo, possiamo contemplare te nel Cristo tuo Figlio e possedere il regno dei cieli>. Amen!

Il tuo nome è Cuore, alleluia!

V settimana di Pasqua

La <discussione> (At 15, 7, all’interno della comunità, circa la necessità o meno di imporre anche ai discepoli non provenienti dal Giudaismo la pratica della circoncisione, si fa alquanto dura.  Non sono poche le posizioni che esprimono le sensibilità diverse e non è mai stato univoco il modo di sentire e di vivere la relazione con Dio, così come si è rivelata in Cristo Gesù, attraverso il suo mistero pasquale. Per questo Pietro non trova di meglio che fare appello ad un elemento più profondo che rischia di sfuggire all’assemblea esacerbata dalla difesa delle proprie posizioni: <E Dio, che conosce i cuori, ha dato testimonianza in loro favore, concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi> (15, 8). In modo assai discreto, ma ben efficace, Pietro riesca a riorientare la discussione cercando di andare al fondamento che non può mai trovarsi nei nostri usi e costumi. Questo fondamento si trova in in ciò che, attraverso la storia e gli eventi concreti, siamo chiamati ad accogliere come novità di percorsi e di possibilità.

Il primo dato è che i cuori sono conosciuti dal Signore, insieme al fatto che è stato concesso il dono dello Spirito Santo anche a coloro che non erano circoncisi. Questo dono gratuito è segno di quanto la cosa più importante non sia la circoncisione della carne, ma, come avevano già preannunciato i profeti, la circoncisione del cuore. Questa circoncisione, di cui è segno la circoncisione stessa, avviene con l’accoglienza della fede e la risposta di una vita che si fa conforme a ciò che il cuore ha ricevuto come dono. La parola del Signore Gesù sembra intervenire da lontano in ogni discussione analoga a quella affrontata da quello che consideriamo il primo Concilio della storia della Chiesa: <Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore> (Gv 15, 10). Al motto <credere, obbedire, combattere> corrisponde il moto evangelico che si potrebbe riassumere così: <credere, obbedire, amare>.

Solo che in questo caso il terzo elemento – amare – non solo è quello che autentica il credere e l’obbedire, ma li fonda. L’obbedienza ai comandamenti è non solo il modo più vero per rimanere nell’amore, ma è il frutto di un amore assolutamente più grande di ogni nostra possibile esperienza di amore e sempre ci precede: <Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore> (15, 9). La prima comunità cristiana si è resa conto ben presto che, nonostante la naturale continuità con l’esperienza della fede di Israele, la risurrezione di Cristo immetteva nuove energie e apriva spazi sempre più ampi alla possibilità di ricevere i doni di Dio e corrispondervi con la propria vita. La conclusione di Giacomo risulta chiara e naturale e non fa che confermare le parole di Simone e di Paolo: <Per questo io ritengo che non si debbano importunare quelli che dalle nazioni si convertono a Dio> (At 15, 19). Soprattutto non bisogna mai creare degli inutili ostacoli al dono di una <gioia> che <sia piena> (Gv 15, 11) e questo non può che essere un affare di cuore. Il fatto che l’ultima parola sia proprio quella di Giacomo che è rimasto a Gerusalemme, ancorato agli usi della tradizione, la dice lunga: nella Chiesa è sempre necessario e avere a cuore la gioia di tutti, rendendola più facile e naturale.

Il tuo nome è Questione, alleluia!

V settimana di Pasqua

Non saremo mai sufficientemente grati all’evangelista Luca di aver aggiunto alla sua versione particolare dell’unico Vangelo, anche il libro degli Atti degli Apostoli. Attraverso la lettura annuale di questo testo, che testimonia il cammino della Chiesa nascente, siamo confortati e incoraggiati a non temere, ma ad attraversare generosamente le sfide e le fatiche della storia. Il primo elemento che permette un salto dalla natura alla storia, dalla necessità alla libertà è, di certo, la disponibilità ad accogliere la sfida della <questione> (At 15, 2). Quest’apertura necessaria è sempre il frutto dell’accoglienza franca, e senza pregiudizi, di quelli che sono i punti interrogativi che la concretezza della vita – sia a livello personale che comunitario – continuamente mette sul campo. La prima grande <questione> della Chiesa delle origini non riguarda il Signore Gesù né tantomeno tutte quelle fatiche di comprensione e di interpretazione che faranno, per così dire, la fortuna della teologia.

La prima realtà di dissenso riguarda piuttosto noi stessi e il nostro modo di inserirci nel mistero di Cristo. I farisei non hanno alcun dubbio: <E’ necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la legge di Mosè> (At 15, 5). Paolo che, da parte sua, non avrebbe avuto a suo tempo – prima della sua caduta da cavallo sulla strada di Damasco – alcun dubbio a riguardo… anzi! Ora, invece, si sente in dovere di difendere non la negazione, ma il superamento della necessità del farsi <circoncidere secondo l’usanza di Mosè> (15, 1). La salvezza, infatti, non passa più soltanto attraverso un segno posto nella carne, che significa l’appartenenza alla concretezza culturale di un popolo per quanto particolare e scelto come Israele, ma si radica in una relazione offerta a tutti indistintamente e passa, oramai, non più attraverso il segno posto nella carne, ma è mediata da una relazione personale con il Cristo, morto e risorto dai morti.

La <questione> sollevata così gravemente nella comunità primitiva è una magnifica opportunità per sentire il peso della parola del Signore Gesù. Il Cristo fa appello al cuore di ciascuno dei suoi discepoli: <Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore> (Gv 15, 1) da cui consegue che <Io sono la vite, voi i tralci> (15, 5). Ciò che la circoncisione indicava tagliando,  ora, la fede in Cristo, significa attraverso un potenziamento dell’appartenenza. Nel solco della Pasqua non si può immaginare nessuna separazione, pena l’interruzione del fluire della vita: <Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto> (15, 2). La circoncisione praticata dai Patriarchi diventa profezia della potatura del Vangelo che è un dono offerto a tutti i popoli ed è capace di radicarsi fino a sposare le differenze culturale e i diversi costumi dei popoli, riportando ogni cosa all’essenziale, come farà il primo Concilio di Gerusalemme. Nondimeno, se la soluzione che gli apostoli saranno in grado di trovare e di offrire con l’aiuto dello Spirito Santo è un grande dono, rimane pure come dono il fatto di non dover temere nessuna questione che la storia – e soprattutto l’incontro con le diversità – può porre alla comunità dei credenti. Vi è una solenne assicurazione del Signore: <Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto> (15, 7). Il problema non è la circoncisione o meno, del resto gli apostoli hanno imposto il Battesimo a tutti per entrare nella comunità, ma è il primato dell’appartenenza a Cristo su ogni aspetto culturale e, persino, religioso. La <questione> rimane perennemente aperta.

Il tuo nome è Grande, alleluia!

V settimana di Pasqua

Mentre il Cenacolo sembra sprofondare in un silenzio pieno di contemplazione mista a trepidazione, le parole del Signore Gesù si fanno sempre più incisive. Il ritmo del discorso diventa più lento a misura di una crescente solennità che sfida l’amore dei discepoli a diventare più maturo: <Se mi amaste, vi rallegrereste perché io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me> (Gv 14, 28). Eppure, tutti sappiamo che se c’è una caratteristica propria dell’amore è quella di rendere sempre <più grande> chi o ciò che si ama. Alla scuola del Signore Gesù dovremmo poter dire la stessa cosa pensando a lui come già aveva fatto <l’amico dello sposo> (Gv 3, 29), tanto da dichiarare e da desiderare: <Egli deve crescere e io invece diminuire> (3, 30). La conclusione delle poche intense parole del Vangelo è una vera e propria dichiarazione d’amore: <bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco> (14, 31).

La vita della prima comunità cristiana non fa che realizzare questo desiderio di Cristo Signore a costo di patire la persecuzione e di dover continuamente rivedere i propri programmi e sciogliere la <vela> (At 14, 26) con rinnovata docilità non solo al vento dello Spirito, ma pure a quelli dei contrattempi e delle tribolazioni. Con grande naturalezza l’autore degli Atti degli Apostoli annota che <lapidarono Paolo e lo trascinarono fuori della città, credendolo morto> (14, 19). Con la stessa naturalezza con cui annota che <riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede> (14, 27). La persecuzione invece di restringere la vita della comunità è capace, piuttosto, di allargarne la portata tanto da far sentire, in modo del tutto naturale, il desiderio di dare sempre più spazio a tutti.

La vita dei discepoli è orientata a far sì che si realizzi la parola del salmo: <Per far conoscere agli uomini le tue imprese> (Sal 144, 12). Sembra quasi che non ci sia un minuto da perdere, tanto che Paolo si rimette in viaggio il giorno dopo la sua lapidazione! Vi è come il sentimento di qualcosa di grande da realizzare e ciò esige la pienezza del dono di sé perché si manifesti la potenza e la bellezza del <Vangelo> (At 14, 21). Il segno di un tale dinamismo inarrestabile ed esigente è la <pace> (Gv 14, 27) che ci viene donata dal Signore Gesù non come soluzione apparente di conflitti, ma come radicamento nella vita stessa di Dio che ci libera da ogni <timore>. Questo è il frutto della sua presenza che si fa sempre più profonda, quasi più visibile nella misura in cui sembra diventare più invisibile e nascosta. Potremmo dire che il grande guadagno pasquale, per quanto concerne la presenza di Cristo in noi e tra di noi, è che egli è sempre di più e sempre meglio dove siamo noi come singoli e come comunità di credenti che pur <nelle molte tribolazioni> (At 14, 22) sanno di poter conservare l’imperturbabile dinamismo della fede. Le fede funziona con lo stesso dinamismo dell’amore che regna da sempre e per sempre tra il Padre e il Figlio e di cui la Pasqua di Cristo ci ha resi partecipi in modo sempre più grande.